PONTIFICIA
COMMISSIONE BIBLICA
I.
Una manifestazione sempre attuale di questo legame di origine consiste nell'accettazione, da parte dei cristiani, della sacre Scritture del popolo ebraico come Parola di Dio rivolta anche a loro. La Chiesa ha infatti accolto come ispirati da Dio tutti gli scritti contenuti sia nella Bibbia ebraica che nella Bibbia greca. L'appellativo di « Antico Testamento », dato a questo insieme di scritti, è un'espressione coniata dall'apostolo Paolo per indicare gli scritti attribuiti a Mosè (cf 2 Cor 3,14-15). Il suo significato si ampliò poi nel corso del II secolo e fu applicato ad altre Scritture del popolo ebraico, in ebraico, aramaico e greco. L'appellativo di « Nuovo Testamento » proviene invece da un oracolo del libro di Geremia che annuncia una « nuova alleanza » (Ger 31,31), espressione diventata, nel greco dei Settanta, « nuova disposizione », « nuovo testamento » (kainē diathēkē). L'oracolo annunciava il progetto di Dio di stipulare una nuova alleanza. La fede cristiana, con l'istituzione dell'eucaristia, vede questa promessa realizzata nel mistero del Cristo Gesù (cf 1 Cor 11,25; Eb 9,15). Di conseguenza, venne chiamato « Nuovo Testamento » un insieme di scritti che esprimono la fede della Chiesa nella sua novità. Già da solo questo appellativo manifesta l'esistenza di rapporti con l'« Antico Testamento ».
A. Il Nuovo Testamento riconosce l'autorità delle sacre Scritture del popolo ebraico 3. Gli scritti del Nuovo Testamento non si presentano mai come una assoluta novità, ma si mostrano, al contrario, solidamente radicati nella lunga esperienza religiosa del popolo d'Israele, esperienza registrata sotto diverse forme in alcuni libri sacri, che costituiscono le Scritture del popolo ebraico. Il Nuovo Testamento riconosce ad essi un'autorità divina; riconoscimento che si manifesta in molti modi, più o meno espliciti.
1. Riconoscimenti d'autorità impliciti Partendo dal meno esplicito, già però indicativo, notiamo anzitutto l'uso di una stessa lingua. Il greco del Nuovo Testamento dipende strettamente dal greco dei Settanta, sia che si tratti di costruzioni grammaticali influenzate dall'ebraico che del vocabolario, soprattutto del vocabolario religioso. Senza una conoscenza del greco dei Settanta è impossibile cogliere con esattezza il significato di molti termini importanti del Nuovo Testamento.5 Questa affinità di lingua si estende naturalmente a numerose espressioni che il Nuovo Testamento prende in prestito dalle Scritture del popolo ebraico e porta al fenomeno frequente delle reminiscenze e delle citazioni implicite, cioè di frasi intere riprese nel Nuovo Testamento senza indicazione della loro natura di citazioni. Le reminiscenze si contano a centinaia, ma la loro identificazione è abbastanza spesso discussa. Per dare a questo riguardo l'esempio più significativo, basti ricordare qui che l'Apocalisse non contiene alcuna citazione esplicita della Bibbia ebraica, ma è un vero e proprio tessuto di reminiscenze e di allusioni. Il testo dell'Apocalisse è talmente impregnato di Antico Testamento che diventa difficile distinguere ciò che è allusione da ciò che non lo è. Ciò che è vero per l'Apocalisse lo è anche — a un grado inferiore, certamente — per i vangeli, gli Atti degli apostoli e le lettere.6 La differenza sta nel fatto che in questi altri scritti si trovano anche numerose citazioni esplicite, introdotte cioè come tali.7 Questi scritti segnalano così in modo chiaro le loro citazioni più importanti mostrando in questo modo di riconoscere l'autorità della Bibbia ebraica come rivelazione divina.
2. Ricorsi espliciti all'autorità delle Scritture del popolo ebraico 4. Questo riconoscimento d'autorità assume forme diverse, a seconda dei casi. Talvolta si trova, in un contesto di rivelazione, il semplice verbo legei, « egli (o: essa) dice », senza soggetto espresso,8 come, più tardi, negli scritti rabbinici; ma il contesto mostra allora che bisogna sottintendere un soggetto che conferisce al testo grande autorità: la Scrittura o il Signore o il Cristo.9 Altre volte il soggetto viene espresso: è « la Scrittura », « la Legge », o « Mosè » o « Davide », di cui si fa notare che era ispirato, « lo Spirito Santo » o « il Signore », come dicevano gli oracoli profetici.10 Matteo ha due volte una formula complessa, che indica al tempo stesso il locutore divino e il portaparola umano: « ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta che dice: ... » (Mt 1,22; 2,15). Altre volte la menzione del Signore resta implicita, suggerita solo dalla scelta della preposizione dia, « per mezzo di », per parlare del portaparola umano. In questi testi di Matteo l'uso del verbo « dire » al presente ha l'effetto di presentare le citazioni della Bibbia ebraica come parole vive, la cui autorità è sempre attuale. Invece del verbo « dire », il termine più usato per introdurre le citazioni è molto spesso il verbo « scrivere » e il tempo, in greco, è il perfetto, tempo che esprime l'effetto permanente di un'azione passata: gegraptai, « è stato scritto » e quindi d'ora in poi « è scritto ». Questo gegraptai ha molta forza. Gesù l'oppone vittoriosamente al tentatore, una prima volta senza alcuna altra precisazione: « Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo... » (Mt 4,4: Lc 4,4), con l'aggiunta di un palin, « invece », la seconda volta (Mt 4,7) e un gar, « infatti », la terza volta (Mt 4,10). Questo « infatti » rende esplicito il valore di argomento attribuito al testo dell'Antico Testamento, valore che era implicito nei primi due casi. Capita anche che un testo biblico non abbia valore definitivo e debba cedere il posto a una disposizione nuova; il Nuovo Testamento usa allora l'aoristo greco, che situa la dichiarazione nel passato. È il caso della legge di Mosè concernente il divorzio: « Per la durezza del vostro cuore egli [Mosè] scrisse (egrapsen) per voi questo comandamento » (Mc 10,5; cf anche Lc 20,28). 5. Molto spesso il Nuovo Testamento utilizza testi della Bibbia ebraica per argomentare, sia con il verbo « dire » che con il verbo « scrivere ». Si trova talvolta: « Dice infatti... »,11 e più spesso: « Sta scritto infatti... ».12 Le formule « sta scritto infatti », « perché è scritto », « secondo quanto sta scritto » sono molto frequenti nel Nuovo Testamento; nella sola lettera ai Romani ricorrono 17 volte. Nelle sue argomentazioni dottrinali, l'apostolo Paolo si basa costantemente sulle Scritture del suo popolo. Paolo opera una netta distinzione tra le argomentazioni scritturistiche e i ragionamenti « secondo l'uomo », attribuendo alle prime un valore incontestabile.13 Per lui le Scritture ebraiche hanno ugualmente un valore sempre attuale per guidare la vita spirituale dei cristiani: « Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e dell'incoraggiamento che ci vengono dalle Scritture possediamo la speranza ».14 A questa argomentazione basata sulle Scritture del popolo ebraico, il Nuovo Testamento riconosce un valore decisivo. Nel IV vangelo Gesù dichiara a tale proposito che « la Scrittura non può essere abolita » (Gv 10,35). Il suo valore deriva dal fatto che è « parola di Dio » (ibid.). Questa convinzione viene manifestata continuamente. Due testi sono a questo riguardo particolarmente significativi, perché parlano di ispirazione divina. Nella seconda lettera a Timoteo, dopo una menzione delle « sacre Lettere » (2 Tm 3,15) si trova questa affermazione: « Tutta la Scrittura è ispirata da Dio (theopneustos) e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo, ben preparato per ogni opera buona » (2 Tm 3,16-17). Parlando più precisamente degli oracoli profetici contenuti nell'Antico Testamento, la seconda lettera di Pietro afferma: « Sappiate anzitutto questo: nessuna Scrittura profetica è oggetto d'interpretazione individuale, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio » (2 Pt 1,20-21). Questi due testi non si limitano ad affermare l'autorità delle Scritture del popolo ebraico ma indicano nell'ispirazione divina il fondamento di questa autorità.
B. Il Nuovo Testamento attesta la propria conformità alle Scritture del popolo ebraico 6. Una duplice convinzione si manifesta in altri testi: da una parte, ciò che è scritto nelle Scritture del popolo ebraico deve necessariamente compiersi, perché rivela il disegno di Dio, che non può non realizzarsi, e dall'altra, la vita, la morte e la risurrezione di Cristo corrispondono pienamente a quanto viene detto in queste Scritture.
1. Necessità del compimento delle Scritture L'espressione più netta della prima convinzione si trova nelle parole rivolte da Gesù risorto ai suoi discepoli, nel vangelo secondo Luca: « Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna (dei) che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi » (Lc 24,44). Questa asserzione rivela il fondamento della necessità (dei, « bisogna ») del mistero pasquale di Gesù, necessità affermata in numerosi passi dei vangeli: « il Figlio dell'uomo deve soffrire molto [...] e dopo tre giorni risuscitare »; 15 « Come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire? » (Mt 26,54); « deve compiersi in me questa parola della Scrittura » (Lc 22,37). Poiché « bisogna » assolutamente che si compia quanto è scritto nell'Antico Testamento, gli avvenimenti accadono « affinché » ciò si compia. È quanto dichiara spesso Matteo, già nel vangelo dell'infanzia, poi nella vita pubblica di Gesù 16 e per l'insieme della passione (Mt 26,56). Marco ha un parallelo a quest'ultimo passo, in una vigorosa frase ellittica: « Ma [è] perché si adempiano le Scritture » (Mc 14,49). Luca non utilizza questo genere di espressione; mentre Giovanni vi ricorre quasi con la stessa frequenza di Matteo.17 Questa insistenza dei vangeli sullo scopo attribuito agli eventi, « affinché si compiano le Scritture »,18 conferisce un'estrema importanza alle Scritture del popolo ebraico. Essa fa comprendere chiaramente che gli eventi sarebbero senza significato se non corrispondessero a quanto esse dicono. Non si tratterebbe, in questo caso, della realizzazione del disegno di Dio.
2. Conformità alle Scritture 7. Altri testi affermano che tutto, nel mistero di Cristo, è conforme alle Scritture del popolo ebraico. La predicazione cristiana primitiva si riassumeva nella formula kerygmatica riportata da Paolo: « Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve... » (1 Cor 15,3-5). Paolo aggiunge: « Pertanto, sia io che loro, questo proclamiamo e questo voi avete creduto » (1 Cor 15,11). La fede cristiana non è quindi basata soltanto su degli eventi, ma sulla conformità di questi eventi alla rivelazione contenuta nelle Scritture del popolo ebraico. In cammino verso la sua passione, Gesù dice: « Il Figlio dell'uomo se ne va come è scritto di lui » (Mt 26,24; Mc 14,21). Dopo la sua risurrezione, egli stesso prende l'iniziativa di « interpretare, in tutte le Scritture, ciò che si riferiva a lui ».19 Nel suo discorso ai Giudei di Antiochia di Pisidia, Paolo ricorda questi eventi dicendo che « gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi non hanno riconosciuto Gesù e, condannandolo, hanno adempiuto le parole dei profeti che si leggono ogni sabato » (At 13,27). Con queste affermazioni, il Nuovo Testamento si mostra indissolubilmente legato alle Scritture del popolo ebraico. Aggiungiamo qui alcune constatazioni che meritano attenzione. Nel vangelo secondo Matteo una frase di Gesù rivendica una perfetta continuità tra la Torāh e la fede dei cristiani: « Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento » (Mt 5,17). Questa affermazione teologica è caratteristica di Matteo e della sua comunità. Essa è in tensione con la relativizzazione dell'osservanza del sabato (Mt 12,8.12) e della purezza rituale (Mt 15,11) in altre espressioni del Signore. Nel vangelo secondo Luca, il ministero di Gesù inizia con un episodio in cui, per definire la propria missione, Gesù ricorre a un oracolo del libro di Isaia (Lc 4,17-21; Is 61,1-2). La conclusione del vangelo amplia la prospettiva parlando del compimento di « tutte le cose scritte », riguardo a Gesù (Lc 24,44). Fino a che punto sia essenziale, secondo Gesù, « ascoltare Mosè e i Profeti », lo mostrano in modo impressionante gli ultimi versetti della parabola di Lazzaro e del ricco malvagio (Lc 16,29-31): senza questo ascolto docile anche i più grandi prodigi non servono a nulla. Il IV vangelo esprime una prospettiva analoga: qui Gesù attribuisce agli scritti di Mosè persino un'autorità preliminare a quella delle proprie parole, quando dice ai suoi avversari: « Se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole? » (Gv 5,47). In un vangelo in cui Gesù afferma che le sue parole « sono spirito e vita » (Gv 6,63), una frase simile conferisce alla Torāh un'importanza primordiale. Negli Atti degli apostoli i discorsi kerygmatici dei capi della Chiesa — Pietro, Filippo, Paolo e Barnaba, Giacomo — collocano in perfetta continuità con le Scritture del popolo ebraico gli eventi della passione, della risurrezione, della Pentecoste e dell'apertura missionaria della Chiesa.20
3. Conformità e differenza 8. La lettera agli Ebrei, pur non affermando mai esplicitamente l'autorità delle Scritture del popolo ebraico, mostra chiaramente di riconoscere questa autorità, perché cita continuamente i loro testi per fondare il suo insegnamento e le sue esortazioni. Essa contiene numerose affermazioni di conformità alla loro rivelazione profetica, ma anche affermazioni di una conformità accompagnata da alcuni aspetti di non conformità. Questo si riscontra già nelle lettere paoline. Nella lettera ai Galati e in quella ai Romani, l'apostolo argomenta a partire dalla Legge per dimostrare che la fede in Cristo ha posto fine al regime della Legge. Egli mostra che la Legge come rivelazione ha annunciato la propria fine come istituzione necessaria alla salvezza.21 La frase più significativa a questo riguardo è quella di Rm 3,21 dove l'apostolo afferma che la manifestazione della giustizia di Dio nella giustificazione offerta dalla fede in Cristo è avvenuta « indipendentemente dalla Legge », ma è tuttavia « conforme alla testimonianza della Legge e dei profeti ». In modo analogo, la lettera agli Ebrei mostra che il mistero di Cristo compie le profezie e l'aspetto prefigurativo delle Scritture del popolo ebraico, ma comporta, al tempo stesso, un aspetto di non conformità alle istituzioni antiche: conforme agli oracoli del Sal 109 (110), 1.4, la situazione del Cristo glorificato è, per ciò stesso, non conforme al sacerdozio levitico (cf Eb 7,11.28). L'affermazione di fondo resta la stessa. Gli scritti del Nuovo Testamento riconoscono che le Scritture del popolo ebraico hanno un valore permanente di rivelazione divina. Si situano nei loro riguardi in un rapporto positivo, considerandole la base sulla quale essi stessi poggiano. Di conseguenza, la Chiesa ha sempre ritenuto che le Scritture del popolo ebraico fanno parte integrante della Bibbia cristiana.
C. Scrittura e tradizione orale nel giudaismo e nel cristianesimo 9. Tra Scrittura e Tradizione esiste una tensione che si riscontra in molte religioni; ad esempio in quelle dell'Oriente (induismo, buddismo, ecc.) e nell'Islam. I testi scritti non possono mai esprimere in modo esauriente la Tradizione e vengono perciò completati con aggiunte e interpretazioni, che finiscono per essere messe a loro volta per iscritto. Queste sono tuttavia sottoposte ad alcune limitazioni. È quanto si può osservare sia nel cristianesimo che nel giudaismo, con sviluppi in parte comuni e in parte differenti. Un tratto comune è che le due grandi religioni si trovano d'accordo nella determinazione di gran parte del loro canone delle Scritture.
1. Scrittura e Tradizione nell'Antico Testamento e nel giudaismo La Tradizione dà vita alla Scrittura. L'origine dei testi dell'Antico Testamento e la storia della formazione del canone hanno dato luogo, nel corso di questi ultimi anni, a importanti lavori e si è pervenuti a un certo consenso, secondo il quale alla fine del I secolo della nostra èra il lento processo della formazione di un canone della Bibbia ebraica era praticamente compiuto. Questo canone comprendeva la Torāh, i profeti e la maggior parte degli « scritti ». Determinare l'origine di ciascun libro risulta spesso difficile. In molti casi bisogna accontentarsi di ipotesi, le quali si basano soprattutto su osservazioni fornite dallo studio critico delle forme, della tradizione e della redazione. Se ne deduce che i precetti tradizionali furono raccolti in collezioni, incluse progressivamente nei libri del Pentateuco. Alcuni racconti tradizionali furono ugualmente messi per iscritto e raccolti; vennero sistemati insieme testi narrativi e regole di comportamento. Alcuni oracoli profetici furono raccolti e raggruppati in libri recanti il nome dei profeti. Si raccolsero anche testi sapienziali, salmi e racconti didattici di periodi più tardivi. In seguito la Tradizione dà origine a una « seconda Scrittura » (Mishna). Nessun testo scritto può essere sufficiente a esprimere tutta la ricchezza di una tradizione.22 I testi sacri della Bibbia lasciano aperte molte questioni riguardanti la giusta comprensione della fede d'Israele e della condotta da tenere. Questo ha provocato, nel giudaismo farisaico e rabbinico, un lungo processo di produzione di testi scritti, dalla Mishna (« Secondo Testo »), redatto all'inizio del III secolo da Jehuda ha-Nasi, fino alla Tosefta (« Supplemento ») e al Talmud nella sua duplice forma (di Babilonia e di Gerusalemme). Nonostante la sua autorità, anche questa interpretazione non fu in seguito ritenuta sufficiente, così che furono aggiunte ad essa delle spiegazioni rabbiniche posteriori. A queste aggiunte non fu riconosciuta la stessa autorità del Talmud, che esse aiutano solo a interpretare. Per le questioni che restano ancora aperte ci si rimette alle decisione del Grande Rabbinato. Il testo scritto può in questo modo suscitare sviluppi ulteriori e tra il testo scritto e la tradizione orale si mantiene e si manifesta una certa tensione. Limiti del ruolo della Tradizione. Quando una tradizione normativa viene messa per iscritto per essere unita alla Scrittura, non acquista per questo la stessa autorità della Scrittura. Essa non fa parte degli « Scritti che insudiciano le mani », cioè « che sono sacri » e sono accolti come tali nella liturgia. La Mishna, la Tosefta e il Talmud hanno il loro posto nella sinagoga come luogo in cui si studia, ma non sono letti nella liturgia. In generale, il valore di una tradizione si misura in base alla sua conformità alla Torāh. La lettura di quest'ultima occupa un posto privilegiato nella liturgia della Sinagoga. Ad essa si aggiungono testi scelti dei profeti. Secondo un'antica credenza ebraica, la Torāh è stata creata prima della creazione del mondo. I samaritani accettavano solo questa come sacra Scrittura. I sadducei rifiutavano ogni tradizione normativa al di fuori della legge e dei profeti. Al contrario, il giudaismo farisaico e rabbinico afferma che accanto alla Legge scritta esiste una legge orale che fu data simultaneamente a Mosè e gode della stessa autorità. È quanto dichiara un trattato della Mishna: « Al Sinai, Mosè ricevette la Legge orale e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli anziani, e gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero ai membri della Grande Sinagoga » (Aboth 1,1). Come si può vedere, esiste una notevole diversità nel modo di concepire il ruolo della Tradizione.
2. Scrittura e Tradizione nel cristianesimo primitivo 10. La Tradizione dà vita alla Scrittura. Nel cristianesimo primitivo si può osservare un'evoluzione simile a quella del giudaismo con, tuttavia, una differenza iniziale: i primi cristiani avevano, fin dall'inizio, delle Scritture perché, essendo ebrei, riconoscevano come Scritture la Bibbia d'Israele; anzi, erano le sole Scritture che riconoscevano. Ma ad esse si aggiungeva per loro una tradizione orale, « l'insegnamento degli Apostoli » (At 2,42), che trasmetteva le parole di Gesù e il racconto di eventi che lo riguardavano. La catechesi evangelica solo a poco a poco assunse la sua forma. Per meglio assicurarne una fedele trasmissione, furono messe per iscritto le parole di Gesù e alcuni testi narrativi. Veniva così preparata la strada alla redazione dei vangeli, che avvenne solo alcune decine d'anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. D'altra parte, venivano composte delle professioni di fede e degli inni liturgici, che hanno trovato posto nel Nuovo Testamento. Le lettere di Paolo e di altri apostoli o dirigenti furono prima lette nella Chiesa destinataria (cf 1 Ts 5,27), poi trasmesse ad altre Chiese (cf Col 4,16), conservate per essere rilette in altre occasioni e infine considerate come Scritture (cf 2 Pt 3,15-16) e unite ai vangeli. Fu così che si costituì progressivamente il canone del Nuovo Testamento in seno alla Tradizione apostolica. La Tradizione completa la Scrittura. Il cristianesimo condivide con il giudaismo la convinzione che la rivelazione di Dio non può essere espressa nella sua interezza in testi scritti. Questa convinzione si manifesta nel finale del IV vangelo, dove si dice che il mondo intero non potrebbe contenere i libri che bisognerebbe scrivere per raccontare tutte le cose compiute da Gesù (Gv 21,25). D'altra parte, la tradizione vivente è indispensabile per rendere viva la Scrittura e attualizzarla. È opportuno ricordare qui l'insegnamento del discorso dopo la Cena sul ruolo dello « Spirito della verità » dopo la partenza di Gesù. Egli ricorderà ai discepoli tutte le cose dette da Gesù (Gv 14,26), renderà testimonianza di Lui (15,26), guiderà i discepoli « alla verità tutta intera » (16,13), fornendo loro una comprensione più profonda della persona di Cristo, del suo messaggio e della sua opera. Grazie all'azione dello Spirito, la tradizione resta viva e dinamica. Dopo aver dichiarato che la predicazione apostolica si trova « espressa in modo speciale (speciali modo exprimitur) nei libri ispirati », il Concilio Vaticano II osserva che è la Tradizione che « nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture » (Dei Verbum 8). La Scrittura viene definita « Parola di Dio messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito divino », ma è la Tradizione che « trasmette integralmente la Parola di Dio — affidata da Cristo e dallo Spirito Santo agli apostoli — ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano » (DV 9). Il concilio conclude: « Così la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura » e aggiunge: « Perciò l'una e l'altra — la Scrittura e la Tradizione — devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza » (DV 9). Limiti dell'apporto aggiuntivo della Tradizione. In che misura può esserci nella Chiesa cristiana una tradizione che accresce materialmente la parola della Scrittura? È una domanda dibattuta a lungo nella storia della teologia. Il Concilio Vaticano II sembra averla lasciata aperta, ma ha almeno evitato di parlare di « due fonti della rivelazione », che sarebbero la Scrittura e la Tradizione. Ha affermato invece che « la sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa » (Dei Verbum 10). Viene così respinta l'idea di una tradizione completamente indipendente dalla Scrittura. Su un punto almeno il Concilio menziona un apporto aggiuntivo della Tradizione, ma si tratta di un punto di estrema importanza: la Tradizione « fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri » (DV 8). Si vede quindi come la Scrittura e la Tradizione siano inseparabili.
3. Rapporti tra le due prospettive 11. Come abbiamo appena constatato, la relazione tra Scrittura e Tradizione presenta, nel giudaismo e nel cristianesimo, corrispondenze di forma. Su un punto c'è anche qualcosa di più di una semplice corrispondenza, poiché le due religioni si incontrano nella comune eredità della « sacra Scrittura d'Israele ».23 Ma, dal punto di vista ermeneutico, le prospettive divergono. Per tutte le correnti del giudaismo del periodo corrispondente alla formazione del canone, la Legge occupava un posto centrale. In essa infatti si trovano le istituzioni essenziali rivelate da Dio stesso e che hanno lo scopo di governare la vita religiosa, morale, giuridica e politica della nazione ebraica dopo l'esilio. La raccolta dei profeti contiene parole divinamente ispirate, trasmesse da profeti riconosciuti autentici, ma nessuna legge che possa servire da base alle istituzioni. Sotto questo aspetto la raccolta è di rango inferiore. Gli « Scritti » non sono composti né da leggi né da parole profetiche e occupano di conseguenza un terzo rango. Questa prospettiva ermeneutica non è stata fatta propria dalle comunità cristiane, fatta eccezione forse di alcuni ambienti giudeo-cristiani, legati al giudaismo farisaico per il loro rispetto per la Legge. La tendenza generale, nel Nuovo Testamento, è di attribuire più importanza ai testi profetici, compresi come annunciatori del mistero di Cristo. L'apostolo Paolo e la lettera agli Ebrei non esitano a polemizzare contro la Legge. D'altra parte, il cristianesimo primitivo si trova in relazione con gli zeloti, la corrente apocalittica e gli esseni, di cui condivide l'attesa messianica apocalittica; del giudaismo ellenistico ha adottato un corpus di Scritture più ampio e un orientamento più sapienziale, più incline a favorire rapporti interculturali. Ma ciò che distingue il cristianesimo primitivo da tutte queste correnti è la convinzione che le promesse profetiche escatologiche non sono più considerate semplicemente oggetto di speranza per il futuro, perché il loro compimento è già iniziato in Gesù di Nazaret, il Cristo. È di lui che parlano in ultima istanza le Scritture del popolo ebraico, qualche che sia la loro estensione, ed è alla sua luce che esse devono essere lette per poter essere pienamente comprese.
D. Metodi esegetici giudaici usati nel Nuovo Testamento 1. Metodi esegetici giudaici 12. Il giudaismo trae dalle Scritture la sua comprensione di Dio e del mondo come anche dei disegni di Dio. La manifestazione più chiara del modo in cui i contemporanei di Gesù interpretavano le Scritture ci viene fornita dai manoscritti del mar Morto, manoscritti copiati tra il II secolo a.C. e l'anno 60 d.C., quindi in un periodo vicino a quello del ministero di Gesù e della formazione dei vangeli. Bisogna tuttavia ricordarsi che questi documenti esprimono soltanto un aspetto della tradizione giudaica; provengono da una corrente particolare in seno al giudaismo e non ne rappresentano l'insieme. La più antica attestazione rabbinica di un metodo esegetico, basato del resto su testi dell'Antico Testamento, è una serie di sette « regole » attribuite tradizionalmente a Hillel (morto nel 10 d.C.). Indipendentemente dal fatto che questa attribuzione sia fondata o meno, queste sette middoth rappresentano certamente una codificazione dei modi contemporanei di argomentare a partire dalla Scrittura, in particolare per dedurne delle regole di comportamento. Un altro modo di utilizzare la Scrittura si può osservare negli scritti di storici ebrei del I secolo, in particolare Giuseppe Flavio, ma viene usato già nello stesso Antico Testamento. Consiste nel servirsi di termini biblici per descrivere determinati eventi e mettere in questo modo in luce il loro significato. Il ritorno dall'esilio da Babilonia viene così presentato in termini che evocano la liberazione dall'oppressione egiziana al tempo dell'Esodo (Is 43,16-21). La restaurazione finale di Sion viene rappresentata come un nuovo Eden.24 A Qumran viene ampiamente usata una tecnica analoga.
2. Esegesi a Qumran e nel Nuovo Testamento 13. Dal punto di vista della forma e del metodo, il Nuovo Testamento, in particolare i vangeli, presenta forte rassomiglianze con Qumran nel modo di utilizzare le Scritture. Le formule per introdurre le citazioni sono spesso le stesse, ad esempio: « così è scritto », « come sta scritto », « conforme a quanto è scritto ». L'uso simile della Scrittura deriva da una somiglianza di prospettiva di base nelle due comunità, quella di Qumran e quella del Nuovo Testamento. Entrambe erano comunità escatologiche che vedevano le profezie bibliche come realizzate nel loro tempo, in un modo che andava al di là dell'attesa e della comprensione dei profeti che le avevano originariamente pronunciate. Entrambe avevano la convinzione che la piena comprensione delle profezie era stata rivelata al loro fondatore e da lui trasmessa, il « Maestro di Giustizia » a Qumran, Gesù per i cristiani. Esattamente come nei rotoli di Qumran, alcuni testi biblici sono utilizzati nel Nuovo Testamento nel loro senso letterale e storico, mentre altri sono applicati, più o meno forzatamente, alla situazione presente. La Scrittura era considerata portatrice delle parole stesse di Dio. Alcune interpretazioni, nell'una e nell'altra serie di testi, prendono una parola separandola dal suo contesto e dal suo senso originale e le attribuiscono un significato che non corrisponde ai moderni principi esegetici. Una differenza importante deve essere tuttavia notata. Nei testi di Qumran, il punto di partenza è la Scrittura. Alcuni testi — ad esempio il pesher di Abacuc — sono commenti completi di un testo biblico, che applicano quest'ultimo, versetto per versetto, alla situazione presente; altri sono raccolte di testi che si riferiscono a uno stesso tema, ad esempio Melchisedek sull'epoca messianica. Nel Nuovo Testamento, al contrario, il punto di partenza è la venuta di Cristo. Non si tratta perciò di applicare la Scrittura al momento presente, ma di spiegare e di commentare la venuta di Cristo alla luce della Scrittura. Ciò non toglie che le tecniche di commento utilizzate siano le stesse, talvolta con una somiglianza sorprendente, come in Rm 10,5-13 e nella lettera agli Ebrei.25
3. Metodi rabbinici nel Nuovo Testamento 14. I metodi giudaici tradizionali di argomentazione biblica per stabilire delle regole di comportamento — metodi codificati più tardi dai rabbini — sono utilizzati di frequente, sia nelle parole di Gesù riportate dai vangeli che nelle lettere. Quelle che ricorrono più spesso solo le due prime middoth (« regole ») di Hillel, il qal wa-homer e la gezerah shawah.26 Esse corrispondono, grosso modo, all'argomento a fortiori e all'argomento per analogia. Un tratto particolare è che l'argomento verte spesso sul significato di una sola parola e il significato viene stabilito grazie alla sua ricorrenza in un determinato contesto e viene poi applicato, talvolta in modo abbastanza artificiale, a un altro contesto. Questa tecnica presenta una sorprendente somiglianza con la pratica rabbinica del midrash, ma si osserva al tempo stesso una caratteristica differenza: nel midrash rabbinico ci sono citazioni di opinioni divergenti provenienti da diverse autorità, così che si ha a che fare con una tecnica di argomentazione, mentre nel Nuovo Testamento è decisiva l'autorità di Gesù. Paolo utilizza queste tecniche con una frequenza particolare, specialmente nelle sue discussioni con avversari ebrei molto colti, siano essi cristiani o meno. Spesso se ne serve per combattere posizioni tradizionali nel giudaismo o per sostenere punti importanti della propria dottrina.27 Argomentazioni rabbiniche si incontrano anche nella lettera agli Efesini e nella lettera agli Ebrei.28 La lettera di Giuda è quasi interamente formata da spiegazioni esegetiche simili ai pesharim (« interpretazioni ») trovate nei rotoli di Qumran e in alcuni scritti apocalittici. Essa utilizza figure ed esempi come pure una struttura per concatenazione verbale, tutto in conformità con la tradizione giudaica di esegesi scritturistica. Una forma particolare di esegesi giudaica che si incontra nel Nuovo Testamento è quella dell'omelia pronunciata nella sinagoga. Secondo Gv 6,59, il discorso sul pane di vita fu pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. La sua forma ha molte corrispondenze con quella delle omelie sinagogali del I secolo: spiegazione di un testo del Pentateuco con l'appoggio di un testo dei profeti; ogni espressione del testo viene spiegata; vengono apportati dei leggeri aggiustamenti della forma per adattarli alla nuova interpretazione. Tracce dello stesso modello si trovano forse anche nell'uno o l'altro dei discorsi missionari negli Atti degli apostoli, in particolare nel discorso sinagogale di Paolo ad Antiochia di Pisidia (At 13,17-41).
4. Allusioni significative all'Antico Testamento 15. Il Nuovo Testamento utilizza spesso allusioni ad eventi biblici come mezzi per mostrare il significato di avvenimenti della vita di Gesù. I racconti dell'infanzia di Gesù nel vangelo di Matteo possono rivelare il loro pieno significato solo se letti sullo sfondo dei racconti biblici e post-biblici su Mosè. Il vangelo dell'infanzia secondo Luca è più in rapporto con lo stile di allusioni bibliche che si trova nel I secolo nei Salmi di Salomone o negli Inni di Qumran; i cantici di Maria, di Zaccaria e di Simeone possono essere paragonati ad alcuni inni di Qumran.29 Un certo numero di eventi della vita di Gesù, come la teofania al momento del battesimo, la sua trasfigurazione, la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque, sono similmente raccontati con allusioni intenzionali ad avvenimenti e racconti dell'Antico Testamento. La reazione degli ascoltatori alle parabole di Gesù (ad esempio a quella dei vignaioli omicidi, Mt 21,33-43 e paralleli) mostra che essi erano abituati all'uso di un'immagine biblica come tecnica per esprimere un messaggio o impartire una lezione. Tra i vangeli, quello di Matteo dà maggiormente prova di familiarità con le tecniche giudaiche di utilizzazione della Scrittura. Esso cita spesso la Scrittura alla maniera dei pesharim di Qumran; ne fa ampiamente uso per argomentazioni giuridiche o simboliche in un modo che, più tardi, diventerà corrente negli scritti rabbinici. Questo vangelo utilizza, più degli altri, i procedimenti del midrash narrativo nei suoi racconti (vangelo dell'infanzia, episodio della morte di Giuda, intervento della moglie di Pilato). L'uso molto diffuso dello stile di argomentazione rabbinico, specialmente nelle lettere paoline e nell'epistola agli Ebrei, attesta senza ombra di dubbio che il Nuovo Testamento proviene dalla matrice del giudaismo ed è impregnato della mentalità dei commentatori ebrei della Bibbia.
E. L'estensione del canone delle Scritture 16. Si chiama « canone » (dal greco kanōn, « regola ») la lista dei libri riconosciuti come ispirati da Dio e aventi un valore di regola per la fede e i costumi. L'argomento di cui ci occupiamo qui è quello della formazione del canone dell'Antico Testamento.
1. Situazione nel giudaismo Tra il canone ebraico delle Scritture 30 e il canone cristiano dell'Antico Testamento 31 esistono delle differenze. Queste venivano spiegate ammettendo generalmente che all'inizio dell'era cristiana esistessero nel giudaismo due canoni: un canone palestinese in ebraico, l'unico accettato in seguito dagli ebrei, e un canone alessandrino in greco, più esteso — chiamato i Settanta —, adottato dai cristiani. Recenti ricerche e alcune scoperte hanno messo in dubbio questa opinione. Oggi sembra più probabile che al tempo della nascita del cristianesimo, le raccolte chiuse dei libri della Legge e dei profeti esistessero in una forma testuale sostanzialmente identica a quella del nostro Antico Testamento attuale. La raccolta degli « Scritti », invece, non era così ben definita, in Palestina e nella diaspora ebraica, sia nel numero dei libri che nella forma del loro testo. Verso la fine del I secolo sembra che 22/24 libri fossero generalmente accettati come sacri,32 ma solo molto più tardi la lista diventerà esclusiva.33 Quando si fissarono i limiti del canone ebraico, i libri deuterocanonici non vi furono inclusi. Molti libri che facevano parte del terzo gruppo, mal definito, di testi religiosi, furono letti regolarmente da alcune comunità ebraiche nel corso dei primi secoli d.C. Tradotti in greco, essi circolavano tra i Giudei ellenisti, sia in Palestina che nella diaspora.
2. Situazione nella Chiesa primitiva 17. Essendo i primi cristiani per la maggior parte giudei della Palestina, « ebrei » o « ellenisti » (cf At 6,1), la loro visione della Scrittura doveva riflettere quella del loro ambiente, ma le nostre informazioni al riguardo sono scarse. In seguito, gli scritti del Nuovo Testamento fanno ritenere che nelle comunità cristiane circolasse una letteratura sacra più ampia del canone ebraico. Presi globalmente, gli autori del Nuovo Testamento manifestano una conoscenza dei libri deuterocanonici e di alcuni non canonici, perché il numero dei libri citati nel Nuovo Testamento oltrepassa non solo quello del canone ebraico, ma anche quello che si ipotizza fosse il canone alessandrino.34 Quando il cristianesimo si diffuse nel mondo ellenistico continuò a servirsi dei libri sacri che aveva ricevuto dal giudaismo ellenizzato.35 Sebbene i cristiani di espressione greca avessero ricevuto dagli ebrei le loro Scritture sotto la forma dei Settanta, non conosciamo questa forma con precisione, perché essa ci è pervenuta solo in manoscritti cristiani. Ciò che la Chiesa sembra aver ricevuto è un corpus di Scritture sacre, che erano, all'interno del giudaismo, sulla strada per diventare canoniche. Quando il giudaismo arrivò alla chiusura del proprio canone, la Chiesa cristiana era sufficientemente autonoma in rapporto al giudaismo da non esserne immediatamente influenzata. Fu solo in epoca posteriore che un canone ebraico ormai chiuso cominciò ad esercitare una sua influenza sul modo di vedere dei cristiani.
3. Formazione del canone cristiano 18. L'Antico Testamento della Chiesa antica assunse forme differenti nelle diverse regioni, come mostrano le varie liste dell'epoca patristica. La maggior parte degli autori cristiani a partire dal II secolo, così come i manoscritti della Bibbia del IV e dei secoli successivi, utilizzano o contengono un gran numero di libri sacri del giudaismo, compresi libri che non sono stati accettati nel canone ebraico. Solo dopo che gli ebrei ebbero definito il loro canone la Chiesa pensò a chiudere il proprio canone dell'Antico Testamento. Non abbiamo informazioni sul modo in cui si procedette e sulle ragioni addotte per includere o meno un determinato libro nel canone. È tuttavia possibile abbozzare ad ampi tratti la sua evoluzione nella Chiesa, sia in Oriente che in Occidente. In Oriente, a partire dal tempo di Origene (ca. 185-253), si cercò di conformare l'uso cristiano al canone ebraico di 22/24 libri, utilizzando per questo diverse combinazioni e stratagemmi. Origene stesso era inoltre consapevole dell'esistenza di numerose differenze testuali, talvolta considerevoli, tra la Bibbia in ebraico e quella in greco. Questo problema si aggiungeva a quello della differenza delle liste di libri. Gli sforzi compiuti allo scopo di conformarsi al canone e al testo ebraico non impedirono agli autori cristiani d'Oriente di utilizzare nei loro scritti libri che non erano stati ammessi nel canone ebraico, né di seguire per gli altri il testo dei Settanta. L'idea che il canone ebraico dovesse essere preferito dai cristiani non sembra aver prodotto sulla Chiesa d'Oriente un'impressione profonda, né duratura. In Occidente, si mantenne ugualmente un'utilizzazione più ampia dei libri sacri ed essa trovò in Agostino il suo difensore. Quando si trattò di selezionare i libri da includere nel canone, Agostino (354-430) basò il suo giudizio sulla prassi costante della Chiesa. All'inizio del V secolo, alcuni concili adottarono la sua posizione per compilare il canone dell'Antico Testamento. Sebbene questi concili fossero solo regionali, l'unanimità espressa nelle loro liste li rende rappresentativi dell'uso ecclesiale in Occidente. Per quanto riguarda le differenze testuali tra la Bibbia in greco e quella in ebraico, Girolamo basò la sua traduzione sul testo ebraico. Per i libri deuterocanonici egli si limitò generalmente a correggere la Vecchia [traduzione] Latina. A partire da allora la Chiesa in Occidente riconosce una duplice tradizione biblica: quella del testo ebraico per i libri del canone ebraico, quella della Bibbia greca per gli altri libri, il tutto in una traduzione latina. Basandosi su una tradizione secolare, il concilio di Firenze, nel 1442, e poi quello di Trento, nel 1564, hanno fugato, per i cattolici, dubbi e incertezze. La loro lista si compone di 73 libri, ricevuti come sacri e canonici, perché ispirati dallo Spirito Santo, 46 per l'Antico Testamento, 27 per il Nuovo Testamento.36 In questo modo la Chiesa cattolica ha ricevuto il suo canone definitivo, per la cui determinazione il Concilio si era basato sull'uso costante nella Chiesa. Adottando questo canone, più ampio di quello ebraico, esso ha preservato una memoria autentica delle origini cristiane, poiché, come abbiamo visto, il canone ebraico, più limitato, è posteriore all'epoca della formazione del Nuovo Testamento. | home | | inizio pagina |
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