Verso il Giorno della memoria, è possibile costruire una storia
condivisa fra cristiani ed ebrei? Tenendo conto della tragedia, ma anche
dei Giusti. Non solo le vittime fanno la storia dell’Olocausto, ma anche
chi ha operato per il bene, tra cui molti cattolici. Il dramma della Shoah
ha instillato un «seme di resistenza» che va coltivato e fatto
germogliare nel dialogo tra le grandi religioni, soprattutto nelle
relazioni ebraico-cristiane
Nel pieno della tragedia del Ghetto di Varsavia, prossimo a soccombere
sotto il fuoco nazista, l'ebreo Yossi Rakover ha con sé tre bottiglie
incendiarie, da usare contro l'oppressore e, in un estremo disperato
sacrificio, anche contro se stesso. Pronto a morire, barricato nell'ultimo
edificio del Ghetto che ancora resiste, Yossi Rakover si rivolge a Dio e
gli chiede conto del suo silenzio di fronte alla tragedia del popolo
ebraico, annientato dalla furia nazista. Fiero di essere ebreo, di
appartenere «al più infelice dei popoli della terra», e non invece «di
appartenere ai popoli che hanno generato e cresciuto gli scellerati
responsabili» dei crimini contro gli ebrei, Yossi fa i conti con Dio.
«Credo nel Dio d'Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi
in lui». Dio dice di aver nascosto il suo volto, ma che cosa deve
capitare di peggio perché egli torni a mostrarlo? La vicenda di Yossi
Rakover, narrata in un volumetto di Zvi Kolitz pubblicato da Adelphi,
suggerisce alcune riflessioni.
Proprio la rabbia e la determinazione
dell'ultimo ebreo nel ghetto di Varsavia impone di chiedersi dove fossero
tutti gli altri: coloro (anche non pochi cristiani) che assistevano alla
Shoah in modo più o meno passivo; coloro che non avevano di questa
tragedia se non un vago sentore; coloro che avevano altre priorità, altre
strategie, altre esigenze che non porre fine alla barbarie anti-ebraica.
Proprio queste domande conducono a una conclusione: per varie ragioni il
mondo ebbe una consapevolezza assai tardiva della Shoah così come noi
oggi la conosciamo. Di ciò si è molto parlato in sede storiografica e
anche in una cerchia più ampia di studiosi e di pubblico. Non spetta a
noi dare un giudizio morale in merito alle complesse circostanze che hanno
prodotto questo fenomeno.
Giova invece soffermarsi da un lato sul valore
della Shoah come patrimonio collettivo, dall'altro sull'insegnamento che
se ne può trarre anche ai fini del dialogo tra vari popoli e religioni.
La ricchezza degli studi sulla Shoah (e l'esistenza di istituzioni
culturali ad essa dedicate) ne dimostra l'importanza e l'attualità; come
del resto testimoniano nuovi documenti e varie iniziative di cui la
"Giornata della Memoria" non è che un esempio.
Il numero
ingente di vittime e l'efferatezza dei crimini antiebraici rende del tutto
doveroso tener desta questa memoria. Va tuttavia aggiunto che,
nell'avvicinarci a questa storia, insieme alle vittime incontriamo anche i
salvati e i loro salvatori. Sulle motivazioni profonde che indussero da un
lato istituzioni confessionali (di cui moltissime cattoliche, Vaticano in
testa) e laiche (si pensi alla Croce Rossa Internazionale), e dall'altro
persone di buon cuore (tra cui moltissimi cattolici), a prendere
iniziative per salvare il maggior numero possibile di ebrei, abbiamo oggi
una ragguardevole mole di fonti: si pensi alle fonti vaticane (la
prestigiosa collana degli Actes et Documents du Saint-Siège, e la serie
non meno autorevole Inter Arma Caritas), o alle fonti archivistiche
(importanti quelle del Comitato internazionale della Croce Rossa,
esaminate da Stefano Picciaredda in un bel volume sulla Diplomazia
umanitaria); si pensi alle fonti riguardanti il World Jewish Congress e
altre organizzazioni di assistenza ebraiche; si pensi alla documentazione,
scritta e orale, raccolta da Martin Gilbert per il suo libro sui Giusti;
si pensi alle fonti orali raccolte da Alessia Falifigli per il suo libro
Salvàti dai conventi.
Da tutte queste fonti (succintamente ricordate) non
possiamo che concludere che la Shoah è ormai un patrimonio condiviso, in
particolare tra ebrei e cattolici. Una tale storia, infatti, accomuna le
vittime ai salvati, e costoro ai loro salvatori. Senza l'intervento di
questi ultimi Hitler avrebbe certamente mietuto molte più vittime. Il
dialogo ebraico-cristiano, più che essere periodicamente eroso da sterili
polemiche, dovrebbe quindi incentrarsi su questo patrimonio condiviso che
la memoria della Shoah ormai rappresenta. Quale insegnamento un tale
patrimonio di valori può impartire?
Il massimo insegnamento è forse la
doverosa attenzione da prestare ai fenomeni attuali. La Shoah, lo si è
detto proprio da queste colonne, è un evento unico ma non irripetibile.
Tutti gli altri genocidi del Novecento stanno a testimoniare che
l'efferatezza umana può riprodursi all'infinito, a qualsiasi latitudine;
e ai danni dello stesso popolo d'Israele.
Non a caso, nel suo primo
discorso al Corpo diplomatico, Papa Benedetto XVI ha richiamato
l'attenzione sul diritto d'Israele all'esistenza, oltre che sul diritto
dei palestinesi a «sviluppare serenamente le proprie istituzioni
democratiche per un avvenire libero e prospero».
Segno delle
preoccupazioni che destano sia le minacce dell'Iran, sia gli appelli di
Hamas alla «guerra santa» contro Israele; segno che le prediche di certi
imam nello stesso senso non vanno prese alla leggera. Siamo tutti chiamati
a riflettere costantemente su tali fenomeni per sventare il ripetersi di
crimini e di genocidi in nome della politica o della religione.
La Shoah
ha instillato un "seme di resistenza" che va coltivato e fatto
germogliare nel dialogo tra le grandi religioni monoteiste. Per quel che
concerne il dialogo ebraico-cristiano, la Shoah vuol anche dire molto di
più: giacché la sua storia s'interseca con quella dei salvati e dei loro
salvatori. Essa è quindi anche storia di quei Giusti che il «tribunale
del bene» di Yad Vashem a Gerusalemme continua ad onorare.