Dall'alto,
colpisce la costruzione a forma di testuggine
delle città israeliane. Le case in prima linea
dispiegate a semicerchio come scudi levati a
protezione della retrovia. Concepite come delle
roccaforti che devono essere sempre pronte a
difendersi da un nemico onnipresente che le
assedia da ogni lato. Un insieme urbanistico
compatto e rinchiuso su se stesso. In stridente
contrasto con il panorama che offrono le città
italiane, distribuite a goccia sull'insieme del
territorio, con una distribuzione abitativa in cui
prevale la separazione e la distinzione del
singolo, anziché l'unione e l'omogeneità della
collettività.
La paura dell'aggressione terroristica che permea la
vita degli israeliani in ogni sua manifestazione e in ogni suo minimo
dettaglio ha impresso il suo indelebile marchio nella progettazione
urbanistica. Era inevitabile che questo muro della paura, a fronte della
crescita del livello della minaccia, dalla sua dimensione psicologica
interiore si trasformasse in una realtà oggettiva
esteriore. Che gli israeliani non chiamano «wall», muro, come è in
voga tra i suoi critici, e neppure «barrier», barriera, come usano le
Nazioni Unite, ma semplicemente «fence», recinto. Per la precisione
«recinto di sicurezza anti-terrorismo». Perché correttamente al 94%
consta di tralicci e reti metalliche facilmente rimovibili. Soltanto il
6% del tracciato è costituito da un muro in cemento, esclusivamente
laddove si è ritenuto indispensabile separare fisicamente dei centri
israeliani e palestinesi contigui.
Da bordo di un piccolo
elicottero dell’«Israel Project» la vista dell'insieme del «recinto
di sicurezza», che una volta completato si svilupperà per 670 km, non
offre quell'immagine criminalizzante accreditata da gran parte dei mass
media internazionali. Soprattutto quando, cifre alla mano, si prende
atto che la sua costruzione ha salvato innumerevoli vite umane, sia
israeliani sia palestinesi. E' sufficiente considerare che nel 2005 le
vittime israeliane per attentati terroristici sono calate a 45, rispetto
alle 117 del 2004, il 60% in meno. Nello stesso periodo, secondo i dati
della Mezzaluna rossa palestinese, i palestinesi uccisi in azioni
militari israeliane sono calati a 255, rispetto agli 881 del 2004, il
62% in meno.
La separazione fisica tra
israeliani e palestinesi si è resa inevitabile nel momento in cui è
apparso del tutto evidente il fallimento di un progetto di pacifica
convivenza basato sul mantenimento dello status quo. Che si presentava
come una inestricabile contiguità e compenetrazione territoriale,
urbanistica, demografica ed economica.
Ricordo come la prima
volta che mi recai in Israele nel gennaio del 1988, all'indomani
dell'esplosione della prima Intifada delle pietre, era praticamente
impossibile individuare il confine tra Gerusalemme e, rispettivamente,
Betlemme e Ramallah. Perché vi era una continuità abitativa e
un'assenza di confini naturali, eccezion fatta per i posti di blocco
israeliani che cominciavano a spuntare per controllare il territorio.
Una realtà che aveva fatto immaginare a Abba Eban, l'ex ministro degli
Esteri israeliano, e anche al suo successore Shimon Peres, che si
potesse dar vita a una sorta di Benelux mediorientale, creando
un'entità politico-economica integrata tra Israele, la Giordania e il
futuro Stato palestinese. Un sogno che si è tragicamente infranto dopo
il tradimento di Arafat nel 2000, che ha privato i palestinesi di
un'opportunità storica per avere il loro Stato.
Chi di voi sa che il 75%
della popolazione israeliana è rinchiusa nella stretta fascia costiera
che va da Hadera a Ashdod, ampia non oltre 10 chilometri? Un ghetto nel
ghetto che lo stesso Abba Eban definì la «Auschwitz di Israele», dato
l'assedio e la minaccia di morte costante che grava sullo Stato ebraico.
Come non comprendere la priorità della sicurezza di Israele?
Piaccia o meno,ma il
tanto diffamato «muro» non solo ha salvato tante vite umane, ma
rappresenta
la base certa di un'identità nazionale, per gli israeliani e per i
palestinesi, che finora non aveva un riferimento territoriale. Non
perché il «muro» costituisce il tracciato dei confini definitivi, ma
perché
per la prima volta permette di individuare concretamente dei confini. La
separazione fisica è un passaggio inevitabile, un trauma che non si è
potuto evitare, per consentire ai due popoli di accreditare una
identità nazionale chiaramente autonoma e definitiva, ponendo delle
nuove basi per accettarsi come Stati indipendenti, ma non più nemici.