Il
popolo giudeo e la lingua ebraica intrattengono da tre millenni una
relazione straordinaria: essi sono cresciuti insieme. Hanno vissuto un
lungo periodo di fusione, poi amori contrastati con separazioni dolorose e
ritrovamenti appassionati.
Il nome stesso della lingua è significativo:
l'ivrit, è la lingua dell'ivri, dell'Ebreo - cioè, secondo le
etimologie, sia il discendente di Ever (Éber, antenato di Abramo) sia l'attraversatore
che viene dall'altra parte (ever) del fiume. E, nell'epoca
contemporanea, quando i padri fondatori del sionismo hanno cercato un
vocabolo per designare il "nuovo giudeo" il cui destino sarà
legato a quello della rinascita d'Israele, la parola Ebraico è quella che
essi hanno scelto del tutto naturalmente.
Legame
passionale, dunque, in cui la lingua non è un mezzo di comunicazione ma
esprime la quintessenza della persona.
Come ogni
storia d'amore, anche questa ha il suo romanzo delle origini. Cominciamo dunque
dall'inizio. Il testo biblico attribuisce al patriarca Abramo origini
caldeo-mesopotamiche; nello stesso tempo le radici dell'ebraico risalgono
alla madre delle lingue semitiche, l'accadico che, originario della
Mesopotamia, si espande nell'insieme del Vicino-Oriente e si mescola ai
dialetti locali. Nella terra di Canaan, ciò darà l'ebraico pre-biblico
le cui tracce più antiche figurano nelle tavolette trovate a Tell
el-Amarna, la cui datazione risale al quattordicesimo secolo prima
dell'era cristiana.
L'iscrizione
di Siloe, scoperta alla fine del secolo scorso e che data 700 a.C.
all'incirca, riferisce lo scavo di un tunnel voluto dal re Ezechia per
alimentare d'acqua la città di Gerusalemme. Due squadre di operai sono
all'opera, provenienti rispettivamente dalla città e dalla sorgente.
L'iscrizione descrive il momento emozionante in cui le due squadre si
congiungono: "Allorché i minatori levarono il piccone e non
c'erano più di tre cubiti da traforare, si udiva la voce di coloro che si
chiamavano tra loro"
Un po' più
tardivi, diversi ostraca (da ostracon, "ostrica" in
greco; coccio recante iscrizioni) ci informano sulla lingua usata dagli
autori e nello stesso tempo sui problemi ai quali essi fanno fronte. Così
un ostracon di Lakhish attesta una corrispondenza tra un
funzionario di nome Hoshayahou e il suo "Signore" Yaosh,
il comandante di Lakhish; siamo all'epoca del profeta Geremia, quando il
regno di Giuda era alle prese con Nabucodonosor.
In questi
documenti la scrittura è alfabetica con caratteri vicini al fenicio. Ma
la lingua è quella della Bibbia, tale e quale noi la conosciamo. E a
ragione: in quest'epoca la codificazione dei primi capitoli del testo
biblico è già in corso. Ai brani più antichi, che sono caratterizzati
da un ritmo magico (il cantico del mare, la profezia di Bilam o il cantico
di Deborah), si aggiungono tra il VII ed il VI secolo il magnifici
discorsi dei profeti. Questa lingua evolve naturalmente lungo i secoli e
subisce l'influenza delle altre lingue della regione. Influenza rafforzata
dall'esilio babilonese (586 a.C.) e sensibile nei capitoli della Bibbia
che sono stati trascritti durante il periodo del Secondo Tempio (a partire
dal 538 a.C.).
La
canonizzazione della Bibbia
L'aramaico,
lingua dominante del Vicino-Oriente, si sostituisce progressivamente
all'ebraico nell'uso quotidiano. In seguito vi si aggiungerà il greco,
soprattutto nelle classi agiate. Il libro di riferimento rimane tuttavia
la Bibbia ebraica. Questa conosce un lungo processo di canonizzazione,
cioè di definizione formale del contenuto. Il canone della Torah nel
senso stretto del termine (i cinque primi libri della Bibbia, o
Pentateuco) è senza dubbio anteriore all'esilio di Babilonia. Il canone
dei Profeti daterebbe all'inizio del III secolo prima dell'era cristiana,
mentre gli altri scritti (Ktuvim) che formano la terza parte della Bibbia
sono intervenuti più tardi ancora.
In questo
processo di canonizzazione che è durato svariati secoli, numerosi
testi sono stati scartati (alcuni troveranno posto nella versione cattolica
della Bibbia) ed altri, ben più numerosi, sono stati perduti per sempre.
I testi conservati, al termine di questo processo, coprono un millennio di
civilizzazione e sono lontani da una omogeneità sia di vocabolario che di
grammatica. L'insieme, tuttavia, forma un libro che si legge con
continuità e le cui diverse componenti definiscono la lingua della
Bibbia.
Questa
lingua - a ben considerare - non si chiama ancora l'ebraico. Chiamata in
Isaia "lingua di Canaan", o ancora"lingua giudea"
cioè lingua del regno di Giuda, essa nella letteratura talmudica è
designata dall'espressione "lingua santa" (si tratta
allora di distinguere la lingua biblica dagli idiomi in uso a
quell'epoca). Essa non prenderà il suo nome attuale se non quando è stata presa coscienza della sua unicità profonda, una unicità che non si
riferisce tanto alla sua struttura sintattica quanto alla sua funzione
simbolica. La denominazione "ebraico" sarà allora adottata per
designare non questo o quello strato linguistico ma la lingua del popolo
giudeo nella sua continuità. L'ebraico fonda la Bibbia ed è fondato da
essa; la lingua e il libro, custoditi dagli ebrei al pari dei gioielli
più preziosi, serviranno loro come viatico in tutti i paesi in cui
saranno dispersi.
Una
lingua vivente
In Terra
d'Israele, abbiamo visto, le dominazioni politiche e le influenze
culturali hanno tolto all'ebraico il suo ruolo esclusivo di mezzo di
comunicazione. Nella vita quotidiana le persone sono ricorse ad altri
linguaggi. L'ebraico non sparì fintantoché i Giudei rimasero la
maggioranza nel paese e mantennero vivo il desiderio di restaurarvi la
propria indipendenza. Sembra anche che esso si trasformi e si arricchisca
degli apporti di altre lingue. I manoscritti del mar Morto - scoperti da
mezzo secolo e tuttora oggetto di studio e di controversie - indicano che
alla fine del periodo del secondo tempio, due mila anni fa circa, la
lingua ebraica classica coesiste, almeno sotto forma scritta, con un
ebraico piuttosto moderno. Quest'ultimo ci è conosciuto sotto la
denominazione di "ebraico della Mishna", dal nome del
codice della legge giudaica la cui redazione finale è datata alla fine
del secondo secolo dell'era cristiana.
Gli esperti
oggi considerano che questo ebraico, benché ritenuto come "la
lingua dei Saggi", in quel momento conserva ancora le
caratteristiche di una lingua popolare. Tuttavia, il peso crescente della
comunità della diaspora relativamente al numero di ebrei residenti in
Terra d'Israele e poi lo schiacciamento da parte di Roma delle ultime
rivolte giudaiche, mettono termine a questa evoluzione. La Guemarà, il
commentario della Mishna compilato tra il terzo ed il quinto secolo
e che con essa costituisce il Talmud, è redatto in aramaico. Con la
perdita dell'autonomia giudaica in Terra d'Israele, la lingua ebraica
sembra aver perduto la sua caratteristica di lingua parlata.
L'ebraico
resta pertanto, contro tutte le apparenze, una lingua vivente. Lungo tutto
il Medio-Evo esso è oggetto degli studi dei sapienti ebrei. Essi lo
dotano di una grammatica, fino allora inesistente - o, più esattamente,
essi estraggono regole grammaticali latenti nei desti antichi, che
permetteranno di meglio leggerli e di scriverne di nuovi -. I saggi ebrei
sviluppano anche sistemi di vocalizzazione, da cui il sistema detto di
Tiberiade, inventato nell'VIII secolo, che si imporrà nella globalità
del mondo ebraico.
Poiché la
scrittura dell'ebreo antico non indicava che le consonanti. Procedimento
economico e logico, dal momento che ognuno sapeva pronunciare le parole.
In caso di dubbio, qualche aggiunta di lettere (presenti già nell'ebraico
biblico) permetteva di risolvere il problema. Ma quando l'ebraico cessa
di essere una lingua parlata, la questione diviene critica: Non si sapeva
più come pronunciare a colpo sicuro - e, peggio ancora, ragione
dell'esistenza di numerosi dubbi -, lo stesso senso delle parole poteva
prestarsi a confusione. Si immaginano dunque dei simboli, posti a lato
delle lettere o sotto di esse, destinati a colmare questa carenza (1).
La vocalizzazione obbediva a regole che costituivano un sottoinsieme
della grammatica ebraica. Lo stesso testo biblico fu vocalizzato
retroattivamente (ad eccezione dei rotoli della Torah, che conservano la
loro forma originale) e si aggiungono segni necessari alla recitazione
cantilenata dei testi.
Così,
grazie al lavoro dei masoreti (dal termine ebraico massora, tradizione),
l'ebraico fu sia rinforzato nella sua struttura tradizionale, sia
arricchito de regole che ne facilitarono la trasmissione.
Poemi
religiosi e poesia erotica
La storia
d'amore che unisce il popolo ebreo alla lingua ebraica acquista quindi
tutto il suo significato. Esiliati dalla loro terra ma mai cessando di
sperare il ritorno a Sion, gli ebrei si aggrappano alla loro lingua come a
un simbolo di identità. Essi, non soltanto pregano in ebraico tre volte
al giorno, non soltanto i testi sui quali si basa la loro cultura sono
scritti principalmente in ebraico (più una parte in aramaico, l'antica
lingua popolare divenuta paradossalmente una sorta d'estensione sapiente
dell'ebraico), ma continuano a corrispondere in questa lingua da un paese
all'altro.
Ed essi
continuano a creare in ebraico. Poemi religiosi, alcuni dei quali (i
pyutim) assumono una forma rituale molto elaborata e altri, come quelli di
Yehouda Halevi, sono meraviglie di freschezza. Anche poesie profane, con
canzoni e poemi erotici che si moltiplicano nella Spagna dell'Età d'Oro.
Testi filosofici e scientifici molto numerosi, che coprono tutte le
discipline allora tenute in considerazione. Commentari rabbinici, trattati
di pensiero ebraico, cronache, opere di fantasia. In una parola, una
letteratura che si estende su un arco di secoli e che, per la sua
abbondanza, varietà e qualità ben sta alla pari con quella prodotta da
qualsivoglia popolo durante lo stesso periodo. Con la differenza che il
popolo ebraico vive disperso e che le persecuzioni da una parte, la
pressione dell'ambiente dall'altra, riducono poco a poco il campo in cui
si esercita l'influenza dell'ebraico.
Un
compagno segreto
Si può dire, dunque,
dell'ebraico ciò che si dice del sabato: gli ebrei
l'hanno conservato ed esso li ha conservati. Lingua di cultura e di
religione, di comunicazione e di riflessione, esso è rimasto il perno
della continuità ebraica. La lettera ebraica ha sempre esercitato sugli
ebrei un fascino che non ha alcun equivalente tra le altre culture.
L'ebraico
rappresentava ciò di cui gli ebrei erano stati privati da generazioni: la
capacità di esprimere essi stessi, senza ostacoli, i loro propri
termini, in rapporto al mondo. Qualunque fosse il comportamento dei propri
vicini non ebrei - benevolo od ostile, rispettoso o pieno di disprezzo,
l'ebreo non tornava pienamente se stesso se non nel momento in cui
rientrava nel suo focolare, nella sua sinagoga, nella sua aula di studio.
L'ebraico letto, pregato o cantato era allora il suo compagno segreto. Una
vera e propria storia d'amore.
Spesso il
rinnovamento della lingua ebraica viene attribuito alla rinascita dello
Stato d'Israele. C'è una gran parte di verità in questo: l'esistenza di
un centro in cui l'ebraico si parla, si vive e si trasmette ha svolto
senza dubbio un ruolo essenziale per questa lingua - e per il patrimonio
di cui essa è portatrice -. Tuttavia si può anche rovesciare la
proposizione. La volontà di ravvivare la sorgente ebraica del giudaismo,
il desiderio di creare in ebraico una nuova letteratura che abbracci ogni
tematica, l'aspirazione naturale ad un nuovo uomo "ebreo"
affrancato dalle catene dell'esilio: tutte espressioni d'un rinnovamento
che hanno preceduto il sionismo politico e sono indissolubili dai suoi
progressi ulteriori. In questo mese in cui gli ebrei d'Israele e del resto
del mondo commemorano la rinascita dello Stato ebraico, era dunque
necessario ricordare quest'altra storia d'amore che ogni ebreo porta nel
suo cuore.
(1)
Nell'ebraico contemporaneo, la vocalizzazione
non è più utilizzata che per i testi d'insegnamento dell'ebraico e per
la poesia. Tuttavia, nel caso in cui potrebbe sorgere ambiguità sul
significato di una parola precisa, si aggiungono le vocali. La scrittura
detta "piena", il cui uso si generalizza, permette allo stesso
modo di precisare il senso con l'aiuto dei caratteri abituali, senza
ricorrere alla vocalizzazione.
Fonte:
L'arche, mensile dell'ebraismo francese, n.518 - aprile 2001
- p.32-38, Henri Pasternak (Tradotto per Le nostre Radici da
Maria Guarini) |
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