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La città in cui Gesù e i suoi sono arrivati al termine dei loro viaggio, e dove, per la prima volta, Gesù ha assistito a un sacrificio sacro, è ingombra di fedeli giunti da ogni comunità ebraica, anche dall'estero. Scrive Jules Isaac: " ... Vi si ascoltano tutte le lingue; la folla invade tutto, sommerge tutto... ". Un mezzo secolo dopo Cristo, lo storico Flavio Giuseppe parlerà di due o tre milioni di pellegrini. Cifra, anche in questo caso, da non prendersi alla lettera, ma indicante soltanto una folla ingente. Dato che la popolazione di Gerusalemme ammontava allora a 270.000 anime, si può ipotizzare al massimo un numero raddoppiato.

Il che, del resto, rappresentava già un'affluenza enorme. I pellegrini che non avevano potuto trovar posto in case private s'accampavano per le strade o nei dintorni della città. " Cosi, scrive sempre J. Isaac, alla città di pietra se ne affiancava una di tende ".

In un'atmosfera di festa, religiosa e nazionale insieme, gli ebrei riuniti nella loro capitale celebravano un avvenimento decisivo nella loro storia: l'esodo dall'Egitto, e un momento particolarmente importante per il loro culto. La Pasqua celebrata a Gerusalemme rappresenta forse il momento culminante della vita ebraica in Palestina, in cui un'antichissima tradizione veniva ripresa e vivificata dalla fusione di due diverse feste.

" Mio padre era un arameo errante. Egli scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa ... ".

Questo passo del Deuteronomio (26,5) assilla ancora lo spirito di quanti, all'epoca del secondo Tempio, sono riuniti a Gerusalemme per la Pasqua, come quello di certi ebrei contemporanei.

Ciò sta ad indicare che la Pasqua esisteva già, in forma più pastorale, anche prima della schiavitù in Egitto. In origine si trattava della festa della prima- vera che, al momento dell'equinozio, evocava i giorni della creazione.

Dice Filone l'Ebreo: " In quei giorni, gli elementi della natura furono sceverati per ordinarsi armoniosamente fra di loro. Il cielo fu rivestito di splendore dal sole, dalla luna e dalla traiettoria di tutti gli astri, pianeti e stelle fisse. La terra si è abbellita delle diverse specie di piante, del verde che ricopriva valli e monti; ovunque un suolo fertile e ricco faceva germogliare i fiori. Per ricordare la creazione, ogni anno Dio fa tornare la primavera, e germogliare piante e fiori ".

Nel calendario normale, il mese di Nissan è il settimo dell'anno. Ma a causa del risveglio della natura che vi si produce e del richiamo alla creazione, all'epoca di Gesù, religiosamente parlando, veniva considerato il primo. Mentre quello di Tishri segna il capodanno civile, Nissan marca l'inizio dell'anno religioso. La stessa Bibbia, del resto, lo designa come primo.

La Pasqua, al pari delle altre feste giudaiche, richiama così il ritmo naturale delle stagioni e della vita pastorale condotta da quegli Aramèi nomadi divenuti, dopo la schiavitù d'Egitto e dopo il Sinai, il popolo del monoteismo.

In seguito, la tradizione riuniva le due feste. Da una parte pesah, o la Pasqua propriamente detta, vale a dire la festa del passaggio, evocante la liberazione e la partenza degli Ebrei verso il monte Sion ed il paese di Canaan; dall'altra, hag ha-massot, la festa degli Azzimi, e cioè di quel pane senza lievito di cui si sono nutriti gli Ebrei nella loro precipitosa fuga dall'Egitto. La fusione tra la più remota tradizione pastorale e due avvenimenti memorabili della storia ebraica, permea l'atmosfera festosa che avvolge Gesù e la sua famiglia.

Egli ha dunque assistito ai preparativi della festa. Ha visto l'enorme fiera di bestiame condotto a Gerusalemme dalle colline circostanti e delle spezie portate dalle carovane fin dalla Mesopotamia. Ma, dal mezzogiorno in poi, ogni lavoro è cessato.

La folla si riversa al mercato per far acquisto delle bestie destinate ai sacrifici o al consumo domestico, insieme alle erbe e alle spezie necessarie per il pasto del seder. All'ora terza, la tromba dei leviti annuncia alla città che è venuto il momento d'iniziare i sacrifici.

Come tutti i primogeniti d'Israele, anche Gesù digiuna, per riscattare, con questa astinenza, la morte dei primogeniti d'Egitto, decretata da Dio per costringere il Faraone a lasciar partire il suo popolo.

Fra breve, dopo il sacrificio, anch'egli parteciperà al pranzo pasquale, chiamato in Europa seder, ma che le comunità mediterranee chiamavano della haggadah, dal titolo del racconto fatto dal capo-famiglia durante il suo svolgimento.

In linea di massima, questo pasto rituale si fa in casa. I pellegrini che hanno potuto essere ospitati da famiglie del luogo lo consumano con i loro ospiti; gli altri per strada, nelle piazze o in campagna. " Quando scende la sera, dice Haïm Schauss, migliaia di agnelli vengono arrostiti nei cortili delle case, nelle vie, intorno alle tende. Nessuno è solo a quest'ora, neppure il più povero e derelitto. Padroni e servi, uomini e donne, giovani e vecchi, tutti vestiti a festa, sono oggi eguali e fratelli, adagiati sui cuscini mentre si mesce acqua e vino e circola il piatto con la carne, il pane azzimo e l'erba amara ".

È cosi che Gesù partecipa al suo primo pranzo pasquale a Gerusalemme, cui molti altri faranno seguito.

La cerimonia pasquale sarà infatti evocata sette volte dai Vangeli.

Due volte in quello di Luca: la prima, in occasione appunto del viaggio a Gerusalemme (2,41), la seconda per l'ultima Pasqua ebraica celebrata da Gesù prima della Passione (22,14):

" I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando Gesù ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo, secondo l'usanza... ecc. ".

" ... Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione... ".

Matteo parla pure due volte della Pasqua, ma solo dell'ultima celebrata da Gesù. Al c. 26,17, descrive la preparazione della cena pasquale, e cioè del seder, fatta dai discepoli il giorno degli azzimi:

" Il primo giorno degli azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: "Dove vuoi che ti prepariamo per mangiare la Pasqua?"... ecc. ".

Al c. 26,30 si parla invece del " canto dei salmi ", l'insieme dei quali forma lo hallel, uno dei momenti salienti della liturgia pasquale.

Marco, all'inizio del c. 14, evoca pure la Pasqua e la festa degli azzimi celebrata insieme: " ... Mancavano intanto due giorni alla Pasqua e agli Azzimi... ".

E finalmente anche il Vangelo di Giovanni segnala due volte l'avvicinarsi della festa di Pasqua, chiamandola " la festa degli ebrei ", celebrata da Gesù al suo arrivo in Galilea: " Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei... " (6,4); e ancora, dopo la risurrezione di Lazzaro: " ... E molti della regione andarono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi... " (11,55).

La festa del risveglio e della liberazione dall'Egitto scandisce dunque la vita di Gesù adolescente, e poi di Gesù missionario, come quella di ogni ebreo.

Le feste pasquali durano sette giorni. I primi due sono interamente festivi, comportando l'interdizione da qualsiasi lavoro o spostamento, autorizzati invece nei quattro seguenti; l'ultimo invece è ancora interamente festivo. Questa suddivisione della settimana pasquale in tre momenti distinti ci fa meglio comprendere l'itinerario del viaggio a Gerusalemme, com'è raccontato nel Vangelo di Luca.

I tre giorni preliminari di cammino terminano proprio la vigilia di Pasqua, nel preciso momento in cui il sacrificio rituale dà inizio alla festa. I due seguenti, e cioè il primo e il secondo del soggiorno a Gerusalemme, corrispondono alle due prime ferie, durante le quali Gesù e i suoi seguono gli uffici sacri nel tempio, e il fanciullo, che si prepara al suo bar-miswah, viene interrogato dai dottori. Nei quattro seguenti, quelli di mezza festa, sempre secondo Luca, avrebbe dovuto aver luogo il ritorno a Nazareth.

In realtà, dopo il primo giorno di cammino, accorgendosi dell'assenza di Gesù, Maria e Giuseppe erano tornati a Gerusalemme, ritrovandolo "dopo tre giorni " nel tempio: il che significa che i quattro di mezza festa previsti per il ritorno li avevano invece trascorsi in città. E trovandovisi, benché Luca non precisi nulla, si può ragionevolmente supporre che vi restassero ormai sino alla fine della settimana.

La liturgia di Pasqua ha inizio la vigilia con il seder che, vent'anni dopo, diverrà per Gesù l'Ultima Cena.

Questo pasto rimane sempre uno dei momenti più caratteristici della religiosità ebraica, uno dei più rivelatori della vocazione di Israele. Apparentemente si tratta di un pasto normale, e i discorsi che vi si fanno, per quanto rituali, non differiscono molto dalle semplici conversazioni familiari.

Tuttavia, nella sua autenticità e nel suo realismo, e mentre sembra considerare Dio stesso come ospite, il seder evoca il carattere sacro del mondo e della vita e la vocazione storica del popolo di Dio.

Prima di servire al loro uso normale, di sostentamento della vita, gli alimenti sono consacrati da benedizioni che ne rilevano la sacralità. Alcuni anzi, in virtù di un simbolismo quanto mai diretto, evocano addirittura le vicissitudini che attendono un popolo destinato a una missione che lo isolerà dal resto del genere umano. Certi momenti della cena, certi gesti, certe parole, richiamano finalmente il grande evento storico: la liberazione dall'Egitto, la traversata del deserto, di cui pesah fa memoria, o meglio che riattualizza di volta in volta.

Tutto questo crea un'atmosfera semplice e coinvolgente insieme, caratteristica della religiosità ebraica, e che, al tempo di Gesù, la distingueva indubbiamente da quella degli occupanti pagani. L'intervento di Dio nella storia si compie sempre con mezzi naturali. I miracoli, se ve ne sono, si verificano senza sconvolgere le leggi di natura, solo inserendovisi nel punto preciso in cui queste leggi parrebbero esitare sul corso da prendere. Il miracolo, segno di Dio, può influenzare l'ordine del suo universo, ma non contraddirlo.

La cena pasquale inizia normalmente. Prendendo posto a tavola, il capo-famiglia pronuncia la benedizione rituale sul vino, di cui i commensali bevono un primo sorso. Altre tre coppe circoleranno durante la cena: ognuno di questi gesti ha un senso particolare ed è preceduto da una speciale benedizione.

La prima coppa si riferisce al qiddush (santificazione della festa); la seconda alla haggadah (la liberazione dall'Egitto); la terza accompagna l'azione di grazie al termine del pasto; la quarta, finalmente, è quella dello hallel, i salmi di lode che concludono la cerimonia domestica di questa sera predestinata, significativa per tanti aspetti del nostro destino...

"... leverò la coppa della liberazione e invocherò il Nome dell'Eterno ... " (Sal 116).

La tradizione mette infatti in rapporto l'uso delle quattro coppe alle quattro espressioni adoperate dalla Torah al momento della promessa fatta da Dio a Mosé, di liberare Israele dalla schiavitù (Es 6,6-7):

" lo vi farò uscire dal paese d'Egitto, vi libererò dalla schiavitù, vi salverò con il braccio teso, vi prenderò come mio popolo ".

Poi, cerfoglio e prezzemolo vengono intinti nell'acqua salata o nell'aceto dicendo: " Benedetto Colui che ha creato i frutti della terra ": è un primo richiamo alle amarezze della vita, tanto spesso sperimentate da Israele.

Viene quindi diviso tra i commensali il pane azzimo, riservandone una piccola porzione che, avvolta in un panno, sarà consumata alla fine del pasto, insieme alla frutta.

Se questi semplici gesti preliminari non hanno nulla che evidenzi la singolare solennità di quel pasto preso in comune, la conversazione rituale che vi fa seguito - la haggadah - evocherà il grande evento storico di cui la Pasqua fa memoria. Il capo-famiglia assume allora il ruolo di cronista, mentre al più giovane dei presenti - il " fanciullo saggio " - spetta rivolgere le domande che dovrebbero esprimere il suo stupore giovanile. Così, la cena pasquale diventa una cerimonia domestica intesa alla formazione religiosa dei giovani. Con i mezzi più semplici, e senz'ombra di enfasi, la haggadah raggiunge spesso il sublime.

Il padre di famiglia inizia il dialogo rituale mostrando ai commensali un Pezzo di pane azzimo e dicendo:

" Ecco il pane di miseria che i nostri padri hanno mangiato nel paese d'Egitto. Chi ha fame venga e mangi: chi ha bisogno venga e faccia pasqua. Quest'anno da schiavi, l'anno venturo da uomini liberi ".

A questo punto il più giovane della famiglia domanda:

" Perché questa notte è diversa dalle altre? perché gli altri giorni Possiamo mangiare pane azzimo o pane lievitato, come vogliamo, e stanotte invece solo pane azzimo? perché le altre sere mangiamo ogni specie di verdure, e stanotte soltanto erbe amare? perché le altre sere non intingiamo nulla nel vino, e stanotte invece lo facciamo due volte? perché le altre sere man- giamo seduti o appoggiati, e stasera invece solo appoggiati?

Il Padre risponde allora evocando la liberazione dall’Egitto, secondo il racconto dell'Esodo (12,1 ss.): " Noi siamo stati schiavi del Faraone d'Egitto, e l'Eterno nostro Padre ci ha liberati da quella servitù con mano Potente e braccio teso ... ecc; ".

Al termine della narrazione, il padre alza la coppa e conclude.

" ... Ed è questa promessa che ci ha sostenuto, noi e i nostri padri! Poiché non un solo nemico ha tentato di sterminarci, ma molti l’hanno fatto. Il Santo però - benedetto sia! - ci salva dalle loro mani ".

Qui, ai giorni nostri, viene dialogato tra i commensali un canto dall'incerta origine, detto il Dayenu (" Ci sarebbe bastato "). L'ufficiante enumera, di strofa in strofa, le gesta di Dio in favore del suo popolo, e i commensali rispondono ogni volta " dayenu ", " ci sarebbe bastato ":

Di quanti prodigi ci ha ricolmati Iddio!

Se ci avesse tratti dall'Egitto
senza giudicare gli egiziani ...

dayenu!
Se avesse colpito a morte i loro primogeniti
senza consegnarci i loro beni ...

dayenu!
Se ci avesse consegnato i loro beni
senza aprire il mare dinanzi a noi ...


dayenu!

Se avesse aperto il mare dinanzi a noi
senza farcelo attraversare a piede secco ...


dayenu!

Se avesse sommerso i nostri nemici
senza provvedere per quarant'anni al nostro sostentamento nel deserto ...



dayenu!

Se avesse provveduto al nostro sostentamento
nel deserto senza nutrirci di manna ...


dayenu!

Se ci avesse nutriti di manna
senza concederci il riposo del sabato ...


dayenu!

Se ci avesse concesso il riposo del sabato
senza condurci ai piedi del monte Sion ...


dayenu!

Se ci avesse condotto ai piedi del monte Sion
senza darci la Legge ...


dayenu!

Se ci avesse dato la Legge
senza introdurci nel paese d'Israele ...


dayenu!

Se ci avesse introdotto nel paese d'Israele
senza erigere per noi la Casa d'elezione Tempio) ...

dayenu!

Come dobbiamo dunque rendere grazie a Dio per i tanti favori che ci ha elargiti!

Dopo varie spiegazioni e commenti biblici intorno all'agnello pasquale, al pane azzimo e alle erbe amare, il capo-famiglia pronunzia l'affermazione solenne, uno dei momenti culminanti del seder

" Di generazione in generazione, ognuno di noi ha il dovere di considerarsi come se fosse stato personalmente liberato dalla schiavitù d'Egitto. È scritto infatti: Tu darai questa spiegazione a tuo figlio: è a questo fine che l'Eterno ha agito in mio favore quando mi fece uscire dall'Egitto (Es 13,8). Non i nostri padri soltanto sono stati liberati, ma anche noi lo fummo. il Santo - benedetto sia! - ci ha liberati con loro, com'è scritto: Egli ci fece uscire dall'Egitto Per condurci qui e darci il paese promesso ai padri nostri (Dt 6,23).

Noi abbiamo dunque il dovere di ringraziare, cantare, lodare, glorificare, esaltare, celebrare, benedire, magnificare e onorare Colui che per noi e per i padri nostri ha compiuto tutti questi prodigi. Ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla desolazione alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre alla luce, dalla servitù alla salvezza. Cantiamo a Lui un cantico nuovo, alleluja! " -

Termina cosi la prima parte del seder. Viene Poi servito il pranzo. accompagnato dalle solite benedizioni sul vino e sulle abluzioni delle mani, più quelle sul pane azzimo e sulle erbe amare. Si beve quindi la terza coppa di vino, appoggiati sul gomito sinistro (atteggiamento padronale rispetto a quello degli schiavi). Viene riempita di vino anche la coppa destinata al profeta Elia, e aperta la porta per permettere sia all'inviato di Dio, sia al povero che passa, di entrare e condividere la mensa.

Finalmente, dopo la recitazione dei salmi di lode, viene letta la preghiera di adorazione già ricordata (nishmat kol haj).

La cerimonia si conclude bevendo la quarta coppa. Al seder propriamente detto fanno seguito la lettura di alcuni passi biblici e qualche canto, il più popolare dei quali è il Chad Gadyà, o Canto del capretto. Composto in aramaico, lingua usata in Palestina al tempo di Gesù, questa filastrocca popolare è stata redatta molto tempo dopo l’epoca del secondo Tempio.

Questo canto popolare è anche un'esaltazione della vita, dimostrando che chiunque l’insidia finisce per essere distrutto. Ed è inoltre un'allegoria della storia universale: i vari impèri che si sono contesi il dominio del mondo attraverso i secoli, e che tanto spesso hanno tentato di asservire o distruggere Israele, finiscono per essere essi stessi annientati: mentre il più debole - raffigurato dal capretto - sussisterà sempre.

" Il capretto comprato da mio padre per due denari..." simboleggia infatti il popolo di Israele, che Dio si è aggiudicato con le due Tavole della Legge.

L'indomani, Maria, Giuseppe e Gesù partecipano all'ufficio del primo giorno di Pasqua.

Al pari di ogni festa ebraica, quest'ufficio riprende le preghiere sinagogali di ogni sabato, con l'aggiunta di testi speciali.

In questo primo rito cui assiste nel Tempio, durante una cerimonia che indubbiamente lo esalta e lo turba insieme, Gesù è forse particolarmente colpito da certe frasi che, come attestano i vangeli, affioriranno poi nella sua predicazione.

Nella 'amidah, ad esempio, potrebbe ritenere in particolare l'annuncio della liberazione messianica: " Tu manderai alla tua posterità un redentore, in nome del tuo amore e della tua gloria ".

Altre benedizioni presentano temi che egli ripeterà pure un giorno, come quello che esalta l'umiltà: " Benedetto sii tu che domini gli arroganti ", o quello che canta la misericordia di Dio verso i diseredati: " Benedetto Iddio che riveste gli ignudi! ".

Nella preghiera di Mosé, uomo di Dio, vi sono parole applicate agli idolatri, che Gesù riprenderà in senso metaforico per designare gli increduli: "Hanno bocche e non parlano, occhi e non vedono, orecchi e non odono... " Ascolta inoltre un salmo (1 15) che più tardi ispirerà l'inizio del Padre nostro: " Non a noi, Signore, ma a te solo sia gloria! ".

Nell'inno di Davide, finalmente, ricorre un'espressione, del resto abituale nei testi profetici, specie in Ezechiele, che, esaltata e trasfigurata, echeggerà spesso nella predicazione di Gesù: " Il Figlio dell'Uomo ". Indicante inizialmente la comune condizione umana, nei vangeli diverrà sinonimo del Messia, o addirittura di Dio medesimo.

Nel corso di questo primo ufficio pasquale, vanno dunque delineandosi certi temi d'ispirazione, certi termini di vocabolario, che saranno domani quelli di Gesù.

Lo svolgimento del rito conduce all'evocazione storica della libertà riconquistata e dell'intervento di Dio nella liberazione di Israele. Dopo le prime benedizioni, l'ufficio si orienta dunque verso il suo particolare oggetto, celebrato da Mosé nel Cantico del Mar Rosso (Es 1 5): " lo canterò all'Eterno, che si è mostrato grande e misericordioso: ha precipitato in mare cavallo e cavaliere... " ecc.

Segue, come in ogni ufficio ebraico, la lettura della torah. La parashah del primo giorno di Pasqua è tratta dai capitoli dell'Esodo che ricordano l'uscita dall'Egitto (c. 12). La lettura seguente, la haftarah, è presa dal profeta Giosué (3,5 ss). Eccone il punto culminante:

" Giosué disse al popolo: "Santificatevi, perché domani il Signore compirà meraviglie in mezzo a voi". Poi disse ai sacerdoti: "Portate l'Arca dell'Alleanza e passate davanti al popolo... ". E l'Eterno disse a Giosué: "Oggi stesso comincerò a glorificarti agli occhi di tutto Israele: perché sappiano che, come sono stato con Mosé, così sarò ora con te" ".

La storia è dunque sempre presente e viva in questo ufficio di Pasqua, come in tutte le feste di Israele: la storia, il cui flusso è perenne, ma che per un ebreo del tempo di Gesù - e per Gesù stesso - costituisce il fondamento di ogni azione sacra.

Durante la settimana pasquale, un'altra haftarah evoca uno dei tempi più impressionanti del messaggio profetico: la visione di Ezechiele (Ez 31,1-14): " La mano del Signore fu sopra di me, e il Signore mi portò fuori in spirito, e mi depose nella pianura che era piena di ossa aride... " ecc.

Malgrado la pompa, che indubbiamente lo stupisce, la cerimonia di Pasqua dà a Gesù l'impressione di un equilibrio raggiunto fra cielo e terra: l'annuncio della vita avvenire e l'esaltazione di quella terrena. Al momento della lettura della Legge si proclama:

"Comunicaci la tua santità, perché possiamo ottenere, oltre a una vita felice quaggiù. La beatitudine eterna in quella futura…".

Quasi contemporaneamente vengono recitati gli ultimi versetti del Salmo 115: "Non sono i morti che lodano il Signore, né coloro che discendono nella fossa: ma noi, i vivi, diamo lode al Signore, ora e sempre. Alleluia!"


1 Tratto da: R. Aron, Così pregava l'ebreo Gesù, Marietti, 1992

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