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PAROLA E SILENZIO NELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA
Bruno Forte

   Teologia è sapienza dell'Amore e non amore della sapienza. Un giorno è stato chiesto a Kierkegaard chi fosse un professore di teologia: un professore di teologia è tale perché un altro è morto per lui. La teologia è "crocifissa", la teologia dice tacendo e tace parlando, è abitata dal paradosso, non è conoscenza luminosa ma resta una "Cognitio vespertina", si muove nella penombra della sera, essa accende un desiderio della luce. San Tommaso D'Aquino diceva che il vero maestro non è quello che risponde a tutte le domande, il vero maestro non è colui che cerca di rassicurarti con argomenti probanti ma è quello che ti accende il desiderio della ricerca e ti lascia solo a ricercare la risposta. La teologia resta abitata dal silenzio è sempre in punta di piedi sulla soglia del silenzio.

1. Quadro della problematica

a. Gli scenari del tempo
b. La crisi del "logocentrismo" della modernità
c. Il caso serio di Martin Heidegger

2. Sostenere la tesi paradossale: la Bibbia prima di essere libro della Parola è libro del Silenzio
3. Cogliere le conseguenze della riscoperta della Parola e del Silenzio (pensare tra Esodo
    e Avvento)

1. QUADRO DELLA PROBLEMATICA

   Vorrei articolare la mia riflessione iniziale in tre grandi momenti. Il primo, in cui situare gli scenari del tempo, la crisi della parola , nel tempo della modernità, per poter verificare questa crisi della parola in quella che chiamo il caso serio, la vicenda teoretica di un pensatore, che certo appartiene in modo evidente alla storia del pensiero filosofico - speculativo, ma che non cessa di intrigare la teologia cristiana, Martin Heidegger. Vorrei poi nella seconda riflessione sostenere la tesi paradossale che la Bibbia, prima ancora di essere il libro della Parola è il libro del Silenzio. Vorrei poi cogliere le conseguenze di questa riscoperta del silenzio nella parola e della parola nel silenzio, per il nostro vivere e pensare da uomini e donne del nostro tempo, da credenti, chiamati a rendere ragione della loro speranza.

1.1. Gli scenari del tempo        
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   Vorrei semplicemente evocare un quadro interpretativo per situare all'interno di esso quello che chiamo con una parola tecnica la crisi del "logocentrismo" nella modernità, cioè la crisi dell'assolutezza della parola nel tempo della modernità. Volendo descrivere le origini del nostro presente mi servo di tre metafore. La metafora della luce, la metafore della notte, la metafora dell'aurora.

1.1.1. La metafora della luce

   Le origini del nostro presente sono in quel tempo che in tutte le lingue europee è connesso alla parola della luce: l'Illuminismo. Il primo inizio del nostro oggi è stato questo tempo della luce nuova, tempo della modernità. Che cos'è questa luce del tempo moderno? È la luce della ragione che illumina tutte le cose e che si vuole imporre alla realtà, perché ogni cosa sia baciata dalla luce finalmente liberante di un pensiero adulto ed emancipato. Fuor di metafora la parola luce vuol dire emancipazione.Ve ne do la definizione che ne da Karl Marx nella Questione giudaica :«l'emancipazione è ricondurre il mondo e tutti i rapporti all'uomo e fare dell'uomo non più l'oggetto, ma il soggetto della propria storia, del proprio destino». In altre parole tu sei emancipato non quando qualcuno gestisce per te la tua vita, ma quando prendi il tuo destino nelle tue mani, quando ti fai signore e protagonista del tuo domani, quando rischi in prima persona l'avventura di vivere e morire.

   È questa metafora della luce che ispira i grandi sistemi ideologici della modernità. Le ideologie infatti sono questi grandi racconti, nei quali si narra la storia della emancipazione dell'uomo e del mondo. "Sapere aude": abbi il coraggio di sapere, di conoscere, di usare la tua intelligenza, di essere colui/colei che si fa padrone del proprio destino. Qualunque sia il segno in cui il racconto è narrato, di destra o di sinistra per intenderci, l'ideologia è questa visione totale  del mondo e della vita, è questa ebbrezza di luce che vuole portarti a realizzare il sogno di un tempo in cui sarai tu padrone del tuo presente e del tuo domani. 

   Ma la metafora della luce è inevitabilmente una metafora tragica: perché quando si pretende, come pretese la modernità, di illuminare tutto e comprendere tutto, allora inesorabilmente la "luce" diviene sorgente di inaudita violenza. Ecco il doppio, ambiguo volto della modernità: il volto ammaliante della luce e dell'emancipazione, il volto tragico della violenza. Quando si vuole una luce totale che abbracci tutte le cose, inesorabilmente questa ebbrezza di totalità diventa nelle sue realizzazioni storiche, totalitarismo. È il frutto amaro dell'albero della conoscenza della modernità, la violenza totalitaria dei sistemi ideologici di destra e di sinistra. Dobbiamo cercare di capire perché l'ebbrezza della luce produce tanta violenza, perché quando tu vuoi spiegare ogni cosa, lasciando l'uomo solo con se stesso, autonomo finalmente davanti alla vita, alla morte, al dolore, tutto questo diventa violenza. 

   Comincio ad insinuare qui la tesi che vorrei sostenere, che è poi la base di tutto quanto dirò sulla parola, il silenzio, la bellezza, e cioè che il tempo della modernità è un tempo violento, perché è il tempo del trionfo dell'identità, del soggetto esclusivo, del soggetto che vuol fare da solo. Non a caso la modernità produce un frutto che non si era conosciuto prima nella storia del mondo: l'ateismo. Che cos'è l'ateismo? Ce lo racconta Nietzsche, nella "Gaia scienza", nell' aforisma 125, dove racconta la storia dell'uomo folle, che si sveglia al mattino, quando ancora non è sorto il sole, e accende una lanterna. E, mentre il sole comincia a illuminare tutte le cose, va con la lanterna sulla piazza del mercato e comincia a gridare: «Dio è morto e noi l'abbiamo ucciso».

   Con questo aforisma Nietzsche vuol dire che quando noi abbiamo ucciso Dio per essere i padroni del mondo, abbiamo compiuto l'impresa più audace, ma comincia ad essere notte e fa freddo e tutto è un cadere nel nulla. Nietzsche non ha denunciato la morte di Dio ma l'infinita orfanezza che segue alla morte di Dio. Con questa metafora della lanterna dell'uomo folle, in realtà Nietzsche fa l'ironia del tempo della modernità. Che cos'è la lanterna che nella luce chiara del giorno vorrebbe illuminare il mondo? È la ragione, questa piccola nostra ragione che avrebbe voluto spiegare tutto e che ha voluto uccidere Dio. 

   Horkeimer e Adorno (due autori che sfuggiti in America scrivono un testo che diviene un emblema: Dialettica dell'Illuminismo - 1946) enunciano una tesi: "La terra irrimediabilmente illuminata risplende di inesorabile sventura". Questi due autori denunciano il volto ambiguo della modernità.

   Il tempo della modernità è un tempo violento perché è il tempo del trionfo della modernità: non a caso il frutto prodotto dalla modernità è l'ateismo. 

1.1.2. La metafora della notte

   La notte è ciò che segue al tramonto della luce. Se la luce è la metafora dello spirito moderno, la notte è la metafora della "post-modernità", cioè di questo tempo in cui la ragione forte della modernità si riscopre come una ragione debole, incerta, inquieta. La notte è un tempo di naufragio. Hans Blumemberg definisce così la modernità: "naufragio con spettatore". Egli parte da un testo di Lucrezio del De Rerum Natura, in cui si racconta la scena dello spettatore che sta sulla terra ferma e guarda all'orizzonte sul mare una nave che sta facendo naufragio. Lo spettatore vive sentimenti di terrore, di spavento, ma anche di consolante conforto (come dire: "meno male che non ci sono io"). Ora questa metafora è per Blumenberg la metafora del tempo della classicità, del tempo in cui si poteva ancora guardare al naufragio del mondo pensando di avere la terra ferma sotto i piedi;
oggi lo spettatore è il naufrago stesso, il moderno è ancora uno che pensa di avere una terra sotto i piedi: la sua ragione. Il post-moderno è invece colui che si trova sulla nave del naufragio e lì deve cercare di costruire con i pezzi rimasti un'altra scialuppa per poter sopravvivere

   Dunque il tempo della notte è il tempo della rinuncia ai grandi orizzonti di senso. La post-modernità è il tempo in cui ciò che è messo in crisi non è tanto il senso ma la ricerca del senso. Nel tempo della ideologia, nel tempo del sole moderno, ci si poteva scontrare in nome di un sogno di una speranza, di un orizzonte: nel tempo del post-modernità il grande dramma della notte è l'indifferenza, tutto è flebile, labile, caduco. La più grande seduzione è rappresentata dal chiudersi ognuno nella propria solitudine, nel proprio gruppo, nel proprio orizzonte particolare. Siamo nella notte del mondo, siamo nel tempo dell'esilio. Ed è bello citare il proverbio rabbinico: «I giovani chiedono al vecchio rabbino quando è cominciato l'esilio di Israele. E il vecchio rabbino risponde: l'esilio di Israele cominciò in giorno in cui Israele non soffrì più del fatto di essere in esilio». L'esilio non è la lontananza dalla patria, ma è quando non hai più la nostalgia struggente della patria perduta, quando l'indifferenza, l'accasarti nella notte ti rende insensibile al desiderio,  nostalgia di ciò che darebbe senso alla tua vita. 

   La crisi della post-modernità è insomma la perdita del gusto di cercare il senso per vivere e per morire. Gianni Vattimo definisce così il tempo della post-modernità: « è il tempo della contaminazione, tutto è contaminato, nulla ha valore, nulla ha senso. Perciò è il tempo della fruizione, tanto vale bruciare l'istante, vivere l'immediato». Ma proprio per questo è inesorabilmente anche il tempo della frustrazione, in cui tutto ciò tu che raggiungi, che mordi fuggendo, ti lascia cadere nel nulla, insoddisfatto di te.

1.1.3. La metafora dell'aurora

   "Aurora" significa la ricerca di segnali d'attesa, di una nuova inquietudine, di una possibile ricerca del senso perduto. Non è tanto una nostalgia del passato, quanto un aprirsi a qualche possibilità nuova, inesplorata, a un nuovo avvento, ad un nuovo possibile orizzonte di senso. Individuo dei segnali d'aurora in due processi che caratterizzano il nostro presente

  • La riscoperta dell'Altro come prossimo e immediato: "il ritorno al concreto". Di fronte alla ragione forte, ideologica ci si accorge come sia importante comprendere il volto dell'altro, la relazione con l'altro, il tu, il volto d'altri. Pensate alla filosofia di Levinas: il volto d'altri che ti guarda ti fa capire che tu non sei tutto, che il senso della vita è fuori di te, non dentro di te. Solo quando vivi il coraggio di un esodo da te senza ritorno, allora trovi il senso. 

  • Ritorno al nome dimenticato, il ritorno cioè a quel sogno di un'alterità ultima che possa accoglierti, che possa essere approdo. Alcuni chiamano questo un ritorno religioso, ritorno della questione di Dio. C'è bisogno di cercare un ultimo orizzonte, un'ultima patria.

   Claudio Magris dice che il passaggio dal moderno al post-moderno è utopia e disincanto: non più mancanza di Dio ma indifferenza quando non si soffre più della mancanza.


1.2. La crisi del "logocentrismo" della modernità       
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   Perché la modernità è stata per eccellenza il tempo del logos, della parola? La ragione si esprime nella parola, il logos è il linguaggio della ragione. E allora capite che nel momento in cui si ha una fiducia sconfinata nella potenza della ragione, si ha una fiducia sconfinata nella potenza della parola.

   La modernità è stato il tempo dell'ebbrezza della parola. Ne volete un esempio drammatico? Tutte le ideologie sono state segnate dalla retorica della parola. Pensate ai discorsi dei grandi dittatori, alla retorica dei discorsi del duce per esempio. L'ideologia si consuma nell'ebbrezza della parola, nella pretesa di dire tutto, di risolvere tutto con la potenza di una ragione che si è fatta verbo. Ma capite bene come la crisi di questo sogno solare, dunque la notte che segue la luce della ragione, porti con sé la crisi stessa della parola.

   Siamo in un tempo di crisi della parola, in cui ciò che si affaccia è il silenzio rinunciatario, dal momento che le parole ci hanno tanto ingannato. Pensate al dramma della incomunicabilità come segnale della crisi della parola: molti autori di teatro e di letteratura del Novecento hanno fatto dell'incomunicabilità il cavallo di battaglia. Ma capite qual era la forza di questa protesta: cavalcare il cavallo della incomunicabilità significava denunciare la miopia della ragione ideologica. Significava dire che le parole non possono dire, non possono pretendere di cambiare tutto: c'è un'interruzione invalicabile, c'è un'irriducibilità dell'altro, che non è possibile risolvere.

   La crisi del logocentrismo della modernità è la crisi del mezzo attraverso cui la ragione moderna presumeva di cambiare il mondo e la vita. Ecco allora dobbiamo ritrovare un modo di ascoltare in silenzio e di riscoprire la parola.

   Sono due le grandi sfide che vengono a noi da questi scenari descritti:

  • La sfida di ritrovare i sentieri del silenzio; non il silenzio della rinuncia, della incomunicabilità, della infinita solitudine, ma il silenzio come spazio dell'ascolto, dell'incontro, del dono

  • Dall'altra parte di bisogno di riscoprire la Parola in un tempo stanco di parole. Ecco allora la domanda: come dire la Parola a una cultura che non ha più certezze forti, legate al Logos, a una cultura tentata dalla rinuncia ad ogni forza del dire, in cui tutto sembra risolversi nella comunicazione volgare e rassicurante della persuasione mediatica? Noi viviamo in un tempo di "mediocrazia" , formula che ormai ha sostituito quella di democrazia. Non è più il consenso del popolo, ma è la persuasione del popolo attraverso il sistema mediatico a vincere.

   Quanto detto finora ci porta a questa conclusione: riscoprire il silenzio e la parola nel loro reciproco fecondo rapporto, è un'urgenza assoluta del nostro tempo. Abbiamo bisogno di imparare nuovamente a parlare, ma a parlare nel senso di dire parole che vengano dal silenzio e che dimorino nel silenzio dell'ascolto dell'altro; imparare a tacere non nel senso di chiudersi nella prigionia delle nostre solitudini, ma di lasciarsi raggiungere dalla parola che evoca, che abita, che attira, che trasforma.

1.3. Il caso serio in Martin Heidegger        torna su

   E allora ecco il caso serio che vorrei sia pur brevissimamente evocarvi, come verifica di tutto quello che vi ho detto. Martin Heidegger nasce come studente di teologia cattolica a Friburgo e per due anni studierà teologia cattolica. Molto più avanti negli anni Heidegger dirà che senza la sua provenienza teologica non sarebbe mai giunto sul cammino del pensiero; si sente totalmente debitore alla teologia. E aggiunge: «Provenienza significa sempre futuro». Heidegger vedrà negli ultimi anni come ultimo sbocco del suo pensiero, una parola teologica, che non si sentirà però mai capace di dire. 

   Cosa avviene però? Perché Heidegger abbandona la teologia e consacra la sua vita alla filosofia? Perché egli dirà: « la filosofia è il coraggio dell'interrogazione radicale. Tu sei filosofo non quando hai paura di porre le vere domande, quando hai il coraggio di mettere tutto in discussione, anche te stesso, e quindi di porti la grande domanda sul fondamento stesso di tutto ciò che esiste. La teologia invece - dice il giovane Heidegger - è la disciplina dell'ascolto. Si è teologi quando si vive in ascolto della parola o del silenzio di Dio». Ecco perché per il giovane Heidegger non c'è mediazione: la filosofia e la teologia non possono mai sussistere insieme.

   Frutto della scelta radicale di Heidegger è Essere e tempo (1926) "Sein und Zeit", che è un'opera incompiuta la cui seconda parte non uscì mai. In Essere e Tempo è contenuto il tentativo di porre su tutto la domanda radicale, di guardare la realtà e di interrogarsi sul perché di essa. Heidegger chiude Essere e tempo con la prima parte in cui descrive il tempo nell'orizzonte dell'essere. Quello che non riuscirà mai a scrivere è la seconda parte, dove avrebbe dovuto capovolgere il processo, cioè avrebbe dovuto dire non più soltanto l'esserci delle cose, ma l'essere che sta dietro tutte le cose. E qual è la grande difficoltà? Che non si può dire l'Essere con le parole del nostro linguaggio, che sono sempre troppo corte, troppo brevi, che dicono il frammento ma non possono dire l'abisso che racchiude il frammento. Qui è la grande crisi di Heidegger. Pensate che egli scrive un'opera che non avrà mai il coraggio di pubblicare (sarà pubblicata dopo la sua morte nel 1989): l'opera si chiama Contributi di filosofia "Beiträge zur Philosophie", un'opera che scrive per dire a se stesso l'impossibilità dell'impresa che lui si era attribuita. 

   Oggi riusciamo a capire il dramma di Heidegger proprio grazie a quest'opera. Il movimento estremo, culminante, tragico della prima fase della sua vita, quella in cui lui pretendeva di porre domande a tutto, di capire tutto, è la sua adesione al nazionalsocialismo. Come è possibile che un genio della portata di Heidegger abbia potuto prendere questo abbaglio? La risposta è che il nazismo, come tutte le forme ideologiche gli appariva come lo strumento più adeguato per dare una risposta alla domanda di voler interrogare tutto, capire tutto, dominare le cose. Insomma ciò che l'aveva affascinato del nazionalsocialismo era la violenza del voler domandare e possedere, che era in fondo l'anima teoretica del suo Essere e tempo. Questo è il grande dramma del cosiddetto "primo" Heidegger. Egli si sta rendendo conto che non basta porre la domanda, non basta voler possedere la cosa, l'esserci; si sta rendendo conto che potremo dominare il mondo, potremo imporre la violenza al mondo, ma il mondo ci sfuggirà. Heidegger sta capendo la tragedia a cui lui purtroppo ha detto il suo sì; e questo diventerà la lama profonda che lo porterà alla grande svolta. E la grande svolta è il cammino verso l'ascolto. Heidegger passa dall'ebbrezza della parola alla necessità di fare esperienza del silenzio, capisce che l'ubriacatura ideologica si esprime con le parole, ma che la scoperta dell'abisso della profondità delle cose si esprime nel silenzio e nell'ascolto.

   Heidegger giunge dunque a capire che non è la violenza della domanda, ma l'umiltà dell'ascolto, il luogo del possibile avvento della verità. La verità non si lascia catturare dalla violenza del domandare, dalla violenza dell'esserci e del possedere le cose nel mondo; la verità si dona e può essere accolta solo nella essenziale povertà dell'ascolto. Il tratto fondamentale del pensiero, dice l'Heidegger della svolta, non è l'interrogare, bensì l'ascoltare ciò che viene suggerito da ciò che deve farsi problema. Ecco la grande svolta:  dal primato della domanda al primato dell'ascolto; dalla volontà del possedere la cosa, interrogando e possedendo, a questa essenziale povertà del lasciarsi raggiungere dall'atto del dire.

  "Il linguaggio parla in quanto dice, il suo dire scaturisce dal dire originario, il linguaggio parla quando raggiungendo tutte le contrade… in conseguenza noi ci porgiamo in ascolto del linguaggio": dunque, ascoltare la parola perché dietro la parola siamo raggiunti nella sua abissale verità. "Il tempo della notte del mondo (Welt Nacht)". "Essere poeta nel tempo della povertà: nel tempo della notte del mondo il poeta canta il sacro". Non si esce dalle secche dell'ideologia moderna se non sul cammino dell'ascolto.

2. LA BIBBIA COME LIBRO DEL SILENZIO E LIBRO DELLA PAROLA   torna su

   Veniamo allora alla grande questione, quella che ci porta al cuore di tutto ciò che in questi giorni vorrei dirvi.

   Come può una religione della parola, come è il Cristianesimo, essere attuale in un tempo di declino della parola? Come possiamo annunciare come parola di Salvezza una religione tutta centrata sulla Parola? L'itinerario che io vi vorrei proporre è quello di scoprire che al centro della parola della rivelazione c'è in realtà il silenzio.


2.1 "La religione della Parola come religione del Silenzio".

   Vorrei svolgere questa riflessione anzitutto in rapporto all'Antico Testamento e poi in rapporto al centro e al cuore della fede cristiana, e cioè il Vangelo come parola del silenzio. 

   Comincio dunque dalla riflessione sul primo testamento, Un autore ebreo, André Neher, ha scritto l'esilio della parola, in cui dimostra anzitutto che la Bibbia non è il libro della parola, ma del silenzio. il Dio biblico sin dall'inizio ci viene presentato Dio nel silenzio.

   Vi traccio innanzitutto una breve fenomenologia del silenzio di Dio nella Bibbia, per poi presentarvi le due grandi concezioni di Dio all'interno della Bibbia, e poi cercherò di capire con voi perché il Dio biblico veterotestamentario è silenzio.

2.1.1. La fenomenologia del silenzio di Dio nella Bibbia

   C'è anzitutto la silenziosa scrittura dei cieli. Salmo 19: «I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento». Dio parla attraverso il silenzio delle sue opere. Questa è una prima dimensione del silenzio di Dio. I cieli narrano la gloria di Dio, dunque non c'è bisogno di parole. È ciò che esiste, è questa natura, è questa terra, è questo cielo, che ci parlando, tacendo, del loro Creatore. Ecco un primo aspetto della fenomenologia del silenzio: la silenziosa scrittura dei cieli, quella che ci lascia stupiti di fronte alla bellezza del creato. Quindi è la natura che comunica nel silenzio Dio stesso.

   Ma c'è qualcosa di più profondo. Vediamo a proposito Elia e la sua storia (1Re 19). Elia è il profeta del monoteismo. Il suo nome El-ià, significa "solo Dio è Dio". Elia combatte l'idolatria e difende il primato di Dio nel tempo della sconfitta di Dio; laddove la regina Gezabele vuole imporre i Baalim, gli idoli, Elia difende Dio. E scopriamo una cosa paradossale. Elia dopo avere vinto lo scontro con i profeti di Ba'al sul monte Carmelo, viene perseguitato ancora, fugge, è stanco e vuole morire, perché gli sembra che tutto sia inutile. Ma il Signore gli fa mangiare un pane e grazie alla forza che quel pane gli dà, Elia cammina 40 giorni e 40 notti, fino a giungere all'Oreb, il momte santo, e sul monte farà l'esperienza di Dio. «Ecco il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce, ma il Signore non era nel vento. Dopo il  vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto di fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco». Dunque il Signore non è in nessuno dei segni di potenza, né il fuoco, né il vento, né il terremoto. Dove abita Dio? «Dopo il fuoco ci fu un mormorio di vento leggero». La tradizione letterale è "la vice del silenzio". Elia conosce Dio nella voce del silenzio, anzi nel tenue silenzio.

   Che cosa significa questo? Che Dio non parla nei segni della potenza e della grandezza del mondo. Dio parla laddove la tua intelligenza e il tuo cuore non gli danno appuntamento, Dio parla sorprendentemente laddove è il "silenzio a parlarti di Lui, voce del silenzio.

  Questa è la seconda grande fenomenologia del Dio del silenzio. Quando non ce la fai, quando vorresti farla finita, quando tutto ti sembra perduto e soltanto un pane, davanti a Dio, ti fa camminare verso il monte santo, Dio non ti parla nella potenza e nella grandezza, ma nella sconfitta. Dio ti parla nel silenzio. 

   Infine un terzo modello del silenzio del Dio biblico è un Dio che tace laddove vorresti che la sua parola si facesse sentire, lo scandalo del Dio nascosto davanti alla sofferenza dei suoi figli: Is 8,17 "Io ho fiducia nel Signore che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe e spero in lui". Lettera dell'ebreo del Ghetto: "Tu non riuscirai a farmi perdere la mia fede in te, nonostante tutto quello che hai fatto ai tuoi figli, io ti amo perdutamente". Il testo è stato scritto da un ebreo in Argentina oggi a New York e non quindi da un ebreo del Ghetto di Varsavia.

   Dunque se tu vuoi fare l'esperienza di Dio, del Dio dei padri, devi conoscere il silenzio di Dio. Ecco quello che ci dice la fenomenologia del Dio biblico. La domanda allora diventa questa:

2.1.2. Perché Dio tace?

   Dobbiamo ora capire qual è l'immagine che Israele ha di Dio. Normalmente noi pensiamo che Israele abbia un'immagine di Dio, quella del patto, del Dio che si è destinato liberamente all'uomo con l'alleanza. In realtà lo studio del silenzio nella Bibbia porta Neher a capire che nella Bibbia ci sono almeno due concezioni di Dio. Quali sono? Per spiegarle uso le due metafore di André Neher.

  • Il "Dio dei ponti sospesi": il Dio che sull'abisso che ci separa da Lui, lancia il ponte della sua parola (dabar). La parola è il grande ponte che unisce l'uomo a Dio. È il Dio che rassicura, che promette, che dà una certezza; da "gan" (giardino) a "midbar" (deserto) a "dabar" (parola). La Bibbia è il libro della Parola, la sua parola è luce, è calore, è forza che trasforma il deserto in giardino. Accanto al Dio dei ponti sospesi c'è:

  • Il "Dio delle arcate spezzate": il Dio che sull'abisso che ci separa da lui lascia che noi ci sforziamo di gettare un arco che, tuttavia, resta sempre interrotto perché non riusciamo ad afferrare Dio. Tutti i nostri tentativi di dire Dio naufragano sull'abissale distanza distanza che ci separa da lui. Questo è il Dio del silenzio, il Dio che non riesci a dire, non riesci a capire. Per Neher questo Dio è il che si ritrova in tutti i grandi momenti della fede. È il Dio a cui grida l'ebreo credente entrando nelle camere a Gas dicendo (anì maamin) "Io credo". La fede nasce in Gen 22 : l'akkedà di Isacco, quando Abramo è chiamato a offrire Isacco del suo cuore. E Abramo si fida di Dio, nonostante il suo silenzio. Credere significa affidarsi perdutamente all'invisibile che ti chiama. 

   Ma perché Dio fa questo? Perché Dio tace? Ecco la straordinaria risposta di André Neher, che è la risposta della tradizione ebraica: « Perché se Dio fosse solo il Dio della Parola ci accecherebbe con la sua luce. Dio è il Dio del silenzio, perché solo il silenzio di Dio è la condizione del rischio e della libertà». 

   Se credere in Dio fosse solo rassicurazione, certezza, se Dio fosse solo il Dio dei ponti sospesi, allora noi crederemmo in Dio come in una ideologia che ci tranquillizza. Ma solo se Dio è il Dio dell'arcata spezzata, il Dio che tace quando vorresti udire la sua voce, allora la tua difficile libertà può credere il Lui. In altre parole il silenzio di Dio è lo spazio della nostra libertà. André Neher dice che ciò che conta nell'Ebraismo non è il risultato. Il compimento è nell'opera del piantare, non nel Messia. 

   Ciò che importa al Giudaismo è l'incompiuto, incessante ritorno dell'uomo e di Dio a compiti oggi tanto più assillanti, n quanto ieri erano imprevedibili e domani saranno superati. In primavera si semina e in autunno si raccoglie, ma nessun autunno assomiglia all'altro, nessuna primavera ad un'altra primavera. Forse la primavera prossima il pane uscirà da questo solco, forse verranno la siccità e la grandine e non ci saranno che putredine e morte. L'essenziale non è nel raccolto, l'essenziale è nella semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza non è nel riso e nella pienezza, ma nelle lacrime, nel rischio e nel loro silenzio. 

   Questa è la difficile libertà della fede ebraica - dice Levinas - credere in Dio anche nel tempo del silenzio di Dio. "Amare la Torah più di Dio significa credere in Dio, chi non ama la Torah più di Dio non crede in Dio", secondo la tradizione rabbinica. Questa frase dice una cosa straordinaria perché chi non fa questo crea Dio a sua immagine e somiglianza. Dio non è la risposta alle nostre domande; Dio è innanzitutto la sovversione delle nostre domande. Quando ritorni al Dio biblico e al Dio del Vangelo, ti accorgi che Dio è Dio soltanto se non è il Dio che corrisponde alle tue domande, ma che anzitutto le divora come il fuoco.

2.2. Il Dio biblico del Nuovo Testamento

   La parola di Dio è tutta intrisa del suo silenzio. E se non lo fosse, la Bibbia sarebbe il Capitale di Marx, sarebbe il manifesto di una ideologia, la pretesa di spiegare il mondo con la parola e il concetto; invece la Bibbia è una finestra sull'abisso, sull'infinito. Dio è fuoco divorante, Dio è l'inquietudine, il tormento; Dio è il Signore delle arcate spezzate, che ti lascia nell'attesa.

   Facciamo allora il passo seguente: nel Vangelo possiamo dire che il Dio di Gesù sia il Dio del silenzio? Al centro del Nuovo Testamento c'è la Parola venuta fra noi. Potremmo dunque dire che il Nuovo Testamento e l'ebbrezza della parola. Giovanni nel Prologo scrive: «la Parola si è fatta carne»: è lo scandalo abissale della parola che varca la distanza. È veramente il Dio dei ponti sospesi.

   Tuttavia, chi è questa "Parola"? Hans Urs Von Balthasar: «La Parola non è più Parola. Nella notte non chiede più di Dio, la notte che la copre non è una notte di stelle, non è silenzio di mille silenzi di amore, ma silenzio di attesa e di abbandono. Al centro della nostra fede c'è la Parola abbandonata, il Logos crocifisso». Il grido della Parola che muore, il paradosso dell'ora nona. Chi non ha capito questo non sa che cos'è il Vangelo. Che cosa significa questo? Che la Parola non è tutto, se la Parola ci dona la vita morendo, se è nell'abbandono della Parola che si dà la vita, significa che la Parola è la porta che rinvia ad un altro, e che l'Altro, chiamato Padre nella fede, potrebbe essere detto il "Silenzio". La parola procede dal silenzio. Gesù è la parola che procede dal silenzio. Il che significa che Gesù non è un manifesto ideologico che spiega il mondo; Gesù è la parola fatta carne, che rinvia ad un abissale silenzio, il silenzio del Padre.

   Questa parola che si dice nella carne può essere accolta solo in un modo: in un altro silenzio, il silenzio dello spirito che in noi lascia abitare la parola. Il Cristianesimo dunque è la fede in una Parola che sta sospesa tra due silenzi: il silenzio dell'origine e il silenzio del destino, il silenzio fontale e il silenzio dello Spirito che in noi lascia che la parola taccia e si dica nella vita. Il Verbo sta tra i due silenzi. Il cristianesimo è sospeso come Parola tra due Silenzi.

   C'è una Parola per dire tutto questo: apokalypsis e re-velatio. Re-velare significa "togliere il velo". Nei composti in latino ha un duplice senso: togliere o intensificare. La Rivelazione è una parola che rimanda a un abissale silenzio. Gesù non è la pubblicazione di Dio è la porta delle pecore, la parola che ci introduce negli abissali silenzi dell'altro. Quando Lutero tradurrà la parola Revelatio con Offenbarung (generare all'aperto), manifestazione totale di Dio, quando Dio ha detto tutto. "Offenbarungstheologie" in tedesco.

   Concludo con due citazioni. La prima è di S. Giovanni della Croce: «Il Padre pronunciò la sua parola in un eterno silenzio, perciò è in silenzio che essa deve essere ascoltata dagli uomini». Tu ascolti la parola non quando la ripeti chiassosamente, ma quando ti fai silenzio, perché la parola abiti in te, e questo silenzio accogliente è quello che il nuovo testamento chiama Spirito, chiama fede.

   L'altra citazione «alla parola si risponde con l'obbedienza della fede». Cosa significa obbedienza? Ob-audire vuol dire ascoltare quello che è sotto, quello che è dietro. Ascolti veramente la parola quando trasgredisci la parola, quando l'attraversi, quando fai violenza alla parola, perché la parola ti schiuda il segreto nascosto. Obbedire significa trasgredire, cioè, nel senso etimologico, trans-gredior, fare il passo oltre. Qui nasce l'ermeneutica. Il testo noi non la leggiamo come i fondamentalisti, come se fosse tutto detto, il testo noi lo leggiamo come un invito alla trasgressione.

   Non pronunciare mai la parola senza prima aver camminato lungamente nei sentieri del silenzio. Solo se avrai trasgredito nel silenzio la parola, e sarai giunto al silenzio, oltre la parola, da cui essa proviene, e sarai entrato in quel silenzio, la parola sarà in te feconda. 

   Al centro del Cristianesimo c'è la Parola come porta del Silenzio e il grande dovere del cristiano è la trasgressione, non la volgare trasgressione di fare quello che più ci aggrada, ma la difficile, tragica trasgressione di obbedire alla parola, cioè di corrispondere alla parola, ascoltandola nel silenzio e penetrando nel silenzio.

   Sulla tomba di Bloch: "Pensare significa trasgredire", mai avrebbe detto questo se non avesse avuto tra le mani la Bibbia.

PENSARE TRA ESODO E AVVENTO          torna su

     Abbiamo visto come il silenzio abiti al centro del libro della parola. Ciò che ora vorrei fare è cogliere le conseguenze che questo comporta per il nostro modo di vivere, di pensare, di amare. Lo farò seguendo sette punti, che poi in realtà sono otto.

     La prima tappa l'ho chiamata la sfida dell'interruzione.
     Nella vita si trovano risposte vere quando si hanno domande vere. lo non avrei timore di dire che la domanda vera è la domanda dell'infinito dolore del mondo. E poiché di questo dolore la sentinella è la morte, vorrei dire che il pensiero nasce dal dolore, il pensiero è figlio della morte.

      Quando non c'è sofferenza, non c'è neanche pensiero e quando c'è pensiero vero, ci sarà anche dolore. Il pensiero è agonia, perché è lottare con la morte, lottare con la ferita ineludibile del dolore. A proposito, vi leggo questo testo di Hegel: «Non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione, anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare se stesso nell'assoluta devastazione (...). Lo spirito è questa forza perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell'essere»1. Hegel ci sta dicendo che il pensiero nasce dalla scissione e solo dove c'è la ferita dell'anima si diventa pensanti.

      Hegel prosegue: «la coscienza di questa scissione è la coscienza infelice. La coscienza infelice è la coscienza di sé come essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione»2. Qual è la via che Hegel propone? «Soltanto nell'autocoscienza come concetto dello spirito, la coscienza raggiunge il suo punto di svolta: qui essa, movendo dalla variopinta parvenza dell'al di qua sensibile e della vuota notte dell'al di là ultrasensibile, si inoltra nel giorno spirituale della
presenzialità»3. In altre parole cominci a vivere veramente, quando cominci a pensare, quando la tua esistenza diventa coscienza a se stessa. Fuggire il pensiero è certo fuggire il dolore, ma fuggire il dolore è fuggire l'amore, è fuggire la vita, è fuggire il senso.

Non abbiate paura di soffrire il pensiero, di lottare con questa domanda radicale. È questo che rende la nostra vita degna di essere vissuta. Possiamo constatare che non c'è una parola capace di rispondere a tutte le domande.

Ecco il secondo punto: se è vero che il pensiero nasce dal dolore, se è vero che il dolore è la categoria universale, che siamo diversi dagli altri per il possesso, ma siamo solidali per la povertà, allora la nostra condizione è una condizione esodale. L'uomo è un mendicante del cielo, un viandante, un pellegrino. Siamo sempre in cerca di una patria intravista, ma non posseduta.

Heidegger dà questa definizione straordinaria dell'uomo: l'uomo è la sentinella della silenziosa quiete del transitare dell'ultimo Dio». Diventi veramente umano, quando nel silenzio fai spazio all'ascolto di questo brivido, di questo passaggio, che è la ferita di Dio nella tua vita.

Veniamo così al terzo momento.
Se l'esistenza è esodo, che spazio ha in questa esistenza il silenzio? lo chiamo qui il silenzio provenienza e attesa della parola. Il silenzio, nell'uomo viandante, nel pellegrino del senso, è anzitutto attesa: il silenzio nasce allo stupore davanti alla inspiegabilità della vita, del dolore. Quindi il silenzio è in qualche modo il grembo dell'avvento di Dio, dove tu fai silenzio perché la ferita della morte, la ferita del dolore ti hanno colmato di stupore, di attesa, di invocazione.

Ma la Bibbia ci fa capire che il silenzio è anche un'altra cosa. Il silenzio non è solo il silenzio umano dell'attesa. Il silenzio è la provenienza, è l'origine. C'è un'immagine bellissima della tradizione biblica e mistica: l'immagine del grembo. Giovanni, nel capitolo 13, scrive che il discepolo amato era seduto al fianco di Gesù. Il testo greco è En to kolpo tou Iesou, "il discepolo che sta nell'utero di Gesù". Dunque, il grembo è notte, silenzio, assenza di visione, di suoni, di colori. Questo significa che il silenzio è provenienza. La nostra patria, da cui veniamo e a cui torniamo, è questo grembo notturno.
Siamo al quarto punto. Che cos'è la parola? La parola non è altro che l'avvento del silenzio. Vorrei anche chiamare questo punto: le trasgressioni di Dio. Dio esce dal silenzio attraverso un triplice esodo. Cristo è colui che vive una triplice trasgressione, un triplice esodo. Cristo è Colui che esce da Dio,  Cristo è Colui che esce da se, Cristo è Colui che esce verso Dio.

Questo è il Cristo. Il Cristo è Colui in cui si condensano le trasgressioni di Dio. È l'uomo libero che si destina alla morte per amore. È il crocefisso risuscitato dal Padre che ritorna a Lui nella gloria. «Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato»4. «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato»5.

Anche la vita del discepolo è un triplice esodo: uscire da Dio, nel senso di dipendere dal Suo silenzio; uscire da noi stessi, nel senso di essere donne e uomini liberi; uscire verso Dio, nel senso di trasgredire la morte nella speranza.

Ecco allora il quinto punto, che vorrei chiamare le trasgressioni dell'uomo. Tutto quello che abbiamo detto cosa comporta per il nostro pensiero? Non è più possibile dire: Cogito ergo sum. Dovremmo dire piuttosto: Cogitor ergo sum; amor ergo sum. lo esisto non perché penso, non perché amo, ma perché scopro di essere pensato, di essere amato. Scopro che la mia casa non è la mia, ma è la casa dell' Altro in cui io esisto, da cui io vengo. Nell'abisso del silenzio di esistere, io scopro di essere donato a me stesso.
Pensare fra esodo e avvento significa riconoscersi pensati, significa riconoscere di "essere in". Significa vivere le trasgressioni dell'uomo. Siate trasgressivi! Non vi sto invitando alla banale rivolta, ma ad osare le cose più alte, di varcarne i confini dopo averne sofferto tutto l'infinito dolore. Vi sto invitando a pensare fino fondo, per andare al di là dello stupore della ragione, aprendovi al paradosso della fede.

La fede è lotta, è resa, è agonia. Se la fede non fosse agonia, sarebbe possesso, ideologia. Ma se, credendo, ti misuri con l' Altro inquietante, da cui ti senti custodito e avvolto, allora la fede non può non essere agon, che significa lotta, combattimento. Sapete che questa parola in greco ha la stessa etimologia della parola agape, cioè amore nel senso più alto. L'amore è lotta, e se non è così tu hai fatto dell'altro un possesso, l'hai ridotto alla tua misura. L' amore che non sia agonico è egoismo. Se la fede è agonica, come non sarà agonico il pensiero della fede? Come pensare che la teologia possa essere un pensiero riposato e riposante? La teologia è passione. Ma proprio se il pensiero della fede è un pensiero agonico tra esodo e avvento è anche un pensiero della resa e della pace. Questo è il paradosso dell'amore: l'amore ti fa felice uccidendoti. È gioia nella misura in cui è morte e quanto più tu muori nell'amore, tanto più ritrovi te stesso: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà».

  Finalmente arriviamo al sesto punto. Il pensiero, se in generale è un pensiero agonico, tragico, pacificato nella lotta, non può fare a meno dell'esistenza. La vita del pensiero è il pensiero della vita. Quando veramente lotti con l'altro e il tuo pensiero è lotta con l'altro, allora tu pensi la vita. Il pensiero non è un gioco. Applicando questo alla teologia, possiamo affermare che il pensiero della fede non può essere un esercizio accademico sull'asettico oggetto di ciò che tu credi. Il pensiero della fede è pensiero militante; ecco perché la teologia ha bisogno della santità, ha bisogno della preghiera, ha bisogno dell'amore, del servizio. Allora la teologia non è solo dotta fides, la teologia è dotta charitas, dotta spes. La teologia è, nella formula che io amo, compagnia, memoria e profezia. La teologia è compagnia perché è dotta charitas: amandoti, non posso non pensare il tuo dolore, le tue domande. È memoria perché dotta fides: amandoLo, non posso non pensare le Sue trasgressioni, il Suo esodo. È profezia perché è dotta spes: amandovi e amandoLo non posso non trasgredire la morte, verso l'ultimo orizzonte e l'ultima patria.

    Il settimo punto può essere definito pensare in ecclesia. Karl Barth dice: «Il luogo della teologia in rapporto alla parola di Dio e ai suoi testimoni non si trova in un qualsiasi posto nel vuoto, ma, molto concretamente, nella comunità». Diceva Mesters, quando lo incontrai diciotto anni fa in Brasile: «Dobbiamo credere che un popolo ignorante ci può insegnare le cose di Dio».
    La teologia nasce dalla comunità, vive per la comunità.

    Vi avevo detto che erano sette punti, ma in realtà sono otto. L'ottavo siete voi. A voi rilancio la palla del gioco e la sfida della domanda.

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[Estratto da una 'Settimana di Camaldoli' del 2001]


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