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PAROLA E SILENZIO NELLA RIFLESSIONE
TEOLOGICA Teologia è sapienza dell'Amore e non amore della sapienza. Un giorno è stato chiesto a Kierkegaard chi fosse un professore di teologia: un professore di teologia è tale perché un altro è morto per lui. La teologia è "crocifissa", la teologia dice tacendo e tace parlando, è abitata dal paradosso, non è conoscenza luminosa ma resta una "Cognitio vespertina", si muove nella penombra della sera, essa accende un desiderio della luce. San Tommaso D'Aquino diceva che il vero maestro non è quello che risponde a tutte le domande, il vero maestro non è colui che cerca di rassicurarti con argomenti probanti ma è quello che ti accende il desiderio della ricerca e ti lascia solo a ricercare la risposta. La teologia resta abitata dal silenzio è sempre in punta di piedi sulla soglia del silenzio.
2. Sostenere la tesi paradossale: la Bibbia prima di essere
libro della Parola è libro del Silenzio Vorrei articolare la mia riflessione iniziale in tre grandi momenti. Il primo,
in cui situare gli scenari del tempo, la crisi della parola , nel tempo della modernità, per poter verificare questa crisi della
parola in quella che chiamo il caso serio, la vicenda teoretica di un pensatore, che certo appartiene in modo evidente alla storia
del pensiero filosofico - speculativo, ma che non cessa di intrigare la teologia cristiana, Martin Heidegger. Vorrei poi nella
seconda riflessione sostenere la tesi paradossale che la Bibbia, prima ancora di essere il libro della Parola è il libro del
Silenzio. Vorrei poi cogliere le conseguenze di questa riscoperta del silenzio nella parola e della parola nel silenzio, per il
nostro vivere e pensare da uomini e donne del nostro tempo, da credenti, chiamati a rendere ragione della loro speranza. Vorrei semplicemente evocare un quadro interpretativo per situare all'interno di
esso quello che chiamo con una parola tecnica la crisi del "logocentrismo" nella modernità, cioè la crisi
dell'assolutezza della parola nel tempo della modernità. Volendo descrivere le origini del nostro presente mi servo di tre
metafore. La metafora della luce, la metafore della notte, la metafora dell'aurora. È questa metafora della luce che ispira i grandi sistemi ideologici della modernità. Le ideologie infatti sono questi grandi racconti, nei quali si narra la storia della emancipazione dell'uomo e del mondo. "Sapere aude": abbi il coraggio di sapere, di conoscere, di usare la tua intelligenza, di essere colui/colei che si fa padrone del proprio destino. Qualunque sia il segno in cui il racconto è narrato, di destra o di sinistra per intenderci, l'ideologia è questa visione totale del mondo e della vita, è questa ebbrezza di luce che vuole portarti a realizzare il sogno di un tempo in cui sarai tu padrone del tuo presente e del tuo domani. Ma la metafora della luce è inevitabilmente una metafora tragica: perché quando si pretende, come pretese la modernità, di illuminare tutto e comprendere tutto, allora inesorabilmente la "luce" diviene sorgente di inaudita violenza. Ecco il doppio, ambiguo volto della modernità: il volto ammaliante della luce e dell'emancipazione, il volto tragico della violenza. Quando si vuole una luce totale che abbracci tutte le cose, inesorabilmente questa ebbrezza di totalità diventa nelle sue realizzazioni storiche, totalitarismo. È il frutto amaro dell'albero della conoscenza della modernità, la violenza totalitaria dei sistemi ideologici di destra e di sinistra. Dobbiamo cercare di capire perché l'ebbrezza della luce produce tanta violenza, perché quando tu vuoi spiegare ogni cosa, lasciando l'uomo solo con se stesso, autonomo finalmente davanti alla vita, alla morte, al dolore, tutto questo diventa violenza. Comincio ad insinuare qui la tesi che vorrei sostenere, che è poi la base di tutto quanto dirò sulla parola, il silenzio, la bellezza, e cioè che il tempo della modernità è un tempo violento, perché è il tempo del trionfo dell'identità, del soggetto esclusivo, del soggetto che vuol fare da solo. Non a caso la modernità produce un frutto che non si era conosciuto prima nella storia del mondo: l'ateismo. Che cos'è l'ateismo? Ce lo racconta Nietzsche, nella "Gaia scienza", nell' aforisma 125, dove racconta la storia dell'uomo folle, che si sveglia al mattino, quando ancora non è sorto il sole, e accende una lanterna. E, mentre il sole comincia a illuminare tutte le cose, va con la lanterna sulla piazza del mercato e comincia a gridare: «Dio è morto e noi l'abbiamo ucciso». Con questo aforisma Nietzsche vuol dire che quando noi abbiamo ucciso Dio per essere i padroni del mondo, abbiamo compiuto l'impresa più audace, ma comincia ad essere notte e fa freddo e tutto è un cadere nel nulla. Nietzsche non ha denunciato la morte di Dio ma l'infinita orfanezza che segue alla morte di Dio. Con questa metafora della lanterna dell'uomo folle, in realtà Nietzsche fa l'ironia del tempo della modernità. Che cos'è la lanterna che nella luce chiara del giorno vorrebbe illuminare il mondo? È la ragione, questa piccola nostra ragione che avrebbe voluto spiegare tutto e che ha voluto uccidere Dio. Horkeimer e Adorno (due autori che sfuggiti in America scrivono un
testo che diviene un emblema: Dialettica dell'Illuminismo - 1946) enunciano una
tesi: "La terra irrimediabilmente illuminata risplende di inesorabile
sventura". Questi due autori denunciano il volto ambiguo della modernità.
1.1.2. La metafora della notte Dunque il tempo della notte è il tempo della rinuncia ai grandi orizzonti di senso. La post-modernità è il tempo in cui ciò che è messo in crisi non è tanto il senso ma la ricerca del senso. Nel tempo della ideologia, nel tempo del sole moderno, ci si poteva scontrare in nome di un sogno di una speranza, di un orizzonte: nel tempo del post-modernità il grande dramma della notte è l'indifferenza, tutto è flebile, labile, caduco. La più grande seduzione è rappresentata dal chiudersi ognuno nella propria solitudine, nel proprio gruppo, nel proprio orizzonte particolare. Siamo nella notte del mondo, siamo nel tempo dell'esilio. Ed è bello citare il proverbio rabbinico: «I giovani chiedono al vecchio rabbino quando è cominciato l'esilio di Israele. E il vecchio rabbino risponde: l'esilio di Israele cominciò in giorno in cui Israele non soffrì più del fatto di essere in esilio». L'esilio non è la lontananza dalla patria, ma è quando non hai più la nostalgia struggente della patria perduta, quando l'indifferenza, l'accasarti nella notte ti rende insensibile al desiderio, nostalgia di ciò che darebbe senso alla tua vita.
La
crisi della post-modernità è insomma la perdita del gusto di cercare il senso per vivere e per morire. Gianni Vattimo
definisce così il tempo della post-modernità: « è il tempo della contaminazione, tutto è contaminato, nulla ha valore,
nulla ha senso. Perciò è il tempo della fruizione, tanto vale bruciare l'istante, vivere l'immediato». Ma proprio per questo è
inesorabilmente anche il tempo della frustrazione, in cui tutto ciò tu che raggiungi, che mordi fuggendo, ti lascia cadere
nel nulla, insoddisfatto di te. "Aurora" significa la ricerca di
segnali d'attesa, di una nuova inquietudine, di una possibile ricerca del senso perduto. Non è tanto una nostalgia del
passato, quanto un aprirsi a qualche possibilità nuova, inesplorata, a un nuovo avvento, ad un nuovo possibile orizzonte di
senso. Individuo dei segnali d'aurora in due processi che caratterizzano il nostro presente
La riscoperta dell'Altro come prossimo e immediato: "il ritorno al
concreto". Di fronte alla ragione forte, ideologica ci si accorge come sia
importante comprendere il volto dell'altro, la relazione con l'altro, il tu, il volto d'altri. Pensate alla filosofia di Levinas:
il volto d'altri che ti guarda ti fa capire che tu non sei tutto, che il senso della vita è fuori di te, non dentro di te. Solo
quando vivi il coraggio di un esodo da te senza ritorno, allora trovi il senso. Ritorno al nome dimenticato, il ritorno cioè a quel sogno di un'alterità ultima che possa accoglierti, che
possa essere approdo. Alcuni chiamano questo un ritorno religioso, ritorno della questione di Dio. C'è bisogno di cercare un
ultimo orizzonte, un'ultima patria. Claudio Magris dice che il passaggio dal moderno al post-moderno è utopia e disincanto: non più mancanza di Dio ma indifferenza quando non si soffre più della mancanza.
Perché la modernità è stata per eccellenza il tempo del logos, della parola? La ragione si esprime nella parola, il logos è il linguaggio della ragione. E allora capite che nel momento in cui si ha una fiducia sconfinata nella potenza della ragione, si ha una fiducia sconfinata nella potenza della parola. La modernità è stato il tempo dell'ebbrezza della parola. Ne volete un esempio drammatico? Tutte le ideologie sono state segnate dalla retorica della parola. Pensate ai discorsi dei grandi dittatori, alla retorica dei discorsi del duce per esempio. L'ideologia si consuma nell'ebbrezza della parola, nella pretesa di dire tutto, di risolvere tutto con la potenza di una ragione che si è fatta verbo. Ma capite bene come la crisi di questo sogno solare, dunque la notte che segue la luce della ragione, porti con sé la crisi stessa della parola. Siamo in un tempo di crisi della parola, in cui ciò che si affaccia è il silenzio rinunciatario, dal momento che le parole ci hanno tanto ingannato. Pensate al dramma della incomunicabilità come segnale della crisi della parola: molti autori di teatro e di letteratura del Novecento hanno fatto dell'incomunicabilità il cavallo di battaglia. Ma capite qual era la forza di questa protesta: cavalcare il cavallo della incomunicabilità significava denunciare la miopia della ragione ideologica. Significava dire che le parole non possono dire, non possono pretendere di cambiare tutto: c'è un'interruzione invalicabile, c'è un'irriducibilità dell'altro, che non è possibile risolvere. La crisi del logocentrismo della modernità è la crisi del mezzo attraverso
cui la ragione moderna presumeva di cambiare il mondo e la vita. Ecco allora dobbiamo ritrovare un modo di ascoltare in
silenzio e di riscoprire la parola.
Quanto detto finora ci porta a questa conclusione: riscoprire il silenzio e la parola nel loro reciproco fecondo rapporto, è un'urgenza assoluta del nostro tempo. Abbiamo bisogno di imparare nuovamente a parlare, ma a parlare nel senso di dire parole che vengano dal silenzio e che dimorino nel silenzio dell'ascolto dell'altro; imparare a tacere non nel senso di chiudersi nella prigionia delle nostre solitudini, ma di lasciarsi raggiungere dalla parola che evoca, che abita, che attira, che trasforma. 1.3. Il caso serio in Martin Heidegger
torna su Cosa avviene però? Perché Heidegger abbandona la teologia e consacra la sua vita alla filosofia? Perché egli dirà: « la filosofia è il coraggio dell'interrogazione radicale. Tu sei filosofo non quando hai paura di porre le vere domande, quando hai il coraggio di mettere tutto in discussione, anche te stesso, e quindi di porti la grande domanda sul fondamento stesso di tutto ciò che esiste. La teologia invece - dice il giovane Heidegger - è la disciplina dell'ascolto. Si è teologi quando si vive in ascolto della parola o del silenzio di Dio». Ecco perché per il giovane Heidegger non c'è mediazione: la filosofia e la teologia non possono mai sussistere insieme. Frutto della scelta radicale di Heidegger è Essere e tempo (1926) "Sein und Zeit", che è un'opera incompiuta la cui seconda parte non uscì mai. In Essere e Tempo è contenuto il tentativo di porre su tutto la domanda radicale, di guardare la realtà e di interrogarsi sul perché di essa. Heidegger chiude Essere e tempo con la prima parte in cui descrive il tempo nell'orizzonte dell'essere. Quello che non riuscirà mai a scrivere è la seconda parte, dove avrebbe dovuto capovolgere il processo, cioè avrebbe dovuto dire non più soltanto l'esserci delle cose, ma l'essere che sta dietro tutte le cose. E qual è la grande difficoltà? Che non si può dire l'Essere con le parole del nostro linguaggio, che sono sempre troppo corte, troppo brevi, che dicono il frammento ma non possono dire l'abisso che racchiude il frammento. Qui è la grande crisi di Heidegger. Pensate che egli scrive un'opera che non avrà mai il coraggio di pubblicare (sarà pubblicata dopo la sua morte nel 1989): l'opera si chiama Contributi di filosofia "Beiträge zur Philosophie", un'opera che scrive per dire a se stesso l'impossibilità dell'impresa che lui si era attribuita. Oggi riusciamo a capire il dramma di Heidegger proprio grazie a quest'opera. Il movimento estremo, culminante, tragico della prima fase della sua vita, quella in cui lui pretendeva di porre domande a tutto, di capire tutto, è la sua adesione al nazionalsocialismo. Come è possibile che un genio della portata di Heidegger abbia potuto prendere questo abbaglio? La risposta è che il nazismo, come tutte le forme ideologiche gli appariva come lo strumento più adeguato per dare una risposta alla domanda di voler interrogare tutto, capire tutto, dominare le cose. Insomma ciò che l'aveva affascinato del nazionalsocialismo era la violenza del voler domandare e possedere, che era in fondo l'anima teoretica del suo Essere e tempo. Questo è il grande dramma del cosiddetto "primo" Heidegger. Egli si sta rendendo conto che non basta porre la domanda, non basta voler possedere la cosa, l'esserci; si sta rendendo conto che potremo dominare il mondo, potremo imporre la violenza al mondo, ma il mondo ci sfuggirà. Heidegger sta capendo la tragedia a cui lui purtroppo ha detto il suo sì; e questo diventerà la lama profonda che lo porterà alla grande svolta. E la grande svolta è il cammino verso l'ascolto. Heidegger passa dall'ebbrezza della parola alla necessità di fare esperienza del silenzio, capisce che l'ubriacatura ideologica si esprime con le parole, ma che la scoperta dell'abisso della profondità delle cose si esprime nel silenzio e nell'ascolto. Heidegger giunge dunque a capire che non è la violenza della domanda, ma l'umiltà dell'ascolto, il luogo del possibile avvento della verità. La verità non si lascia catturare dalla violenza del domandare, dalla violenza dell'esserci e del possedere le cose nel mondo; la verità si dona e può essere accolta solo nella essenziale povertà dell'ascolto. Il tratto fondamentale del pensiero, dice l'Heidegger della svolta, non è l'interrogare, bensì l'ascoltare ciò che viene suggerito da ciò che deve farsi problema. Ecco la grande svolta: dal primato della domanda al primato dell'ascolto; dalla volontà del possedere la cosa, interrogando e possedendo, a questa essenziale povertà del lasciarsi raggiungere dall'atto del dire. "Il linguaggio parla in quanto dice, il suo dire scaturisce dal dire originario, il linguaggio parla quando raggiungendo tutte le contrade… in conseguenza noi ci porgiamo in ascolto del linguaggio": dunque, ascoltare la parola perché dietro la parola siamo raggiunti nella sua abissale verità. "Il tempo della notte del mondo (Welt Nacht)". "Essere poeta nel tempo della povertà: nel tempo della notte del mondo il poeta canta il sacro". Non si esce dalle secche dell'ideologia moderna se non sul cammino dell'ascolto. 2. LA BIBBIA COME LIBRO DEL SILENZIO E LIBRO DELLA PAROLA torna su Veniamo allora alla grande questione, quella che ci porta al cuore di tutto ciò che in questi giorni vorrei dirvi. Come può una religione della parola, come è il Cristianesimo, essere attuale in un tempo di declino della parola? Come possiamo annunciare come parola di Salvezza una religione tutta centrata sulla Parola? L'itinerario che io vi vorrei proporre è quello di scoprire che al centro della parola della rivelazione c'è in realtà il silenzio.
Vorrei svolgere questa riflessione anzitutto in rapporto all'Antico Testamento e poi in rapporto al centro e al cuore della fede cristiana, e cioè il Vangelo come parola del silenzio. Comincio dunque dalla riflessione sul primo testamento, Un autore ebreo, André Neher, ha scritto l'esilio della parola, in cui dimostra anzitutto che la Bibbia non è il libro della parola, ma del silenzio. il Dio biblico sin dall'inizio ci viene presentato Dio nel silenzio. Vi traccio innanzitutto una breve
fenomenologia del silenzio di Dio nella Bibbia, per poi presentarvi le due grandi concezioni di Dio all'interno della
Bibbia, e poi cercherò di capire con voi perché il Dio biblico veterotestamentario è silenzio. C'è anzitutto la silenziosa scrittura dei cieli. Salmo 19: «I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento». Dio parla attraverso il silenzio delle sue opere. Questa è una prima dimensione del silenzio di Dio. I cieli narrano la gloria di Dio, dunque non c'è bisogno di parole. È ciò che esiste, è questa natura, è questa terra, è questo cielo, che ci parlando, tacendo, del loro Creatore. Ecco un primo aspetto della fenomenologia del silenzio: la silenziosa scrittura dei cieli, quella che ci lascia stupiti di fronte alla bellezza del creato. Quindi è la natura che comunica nel silenzio Dio stesso. Ma c'è qualcosa di più profondo. Vediamo a proposito Elia e la sua storia (1Re 19). Elia è il profeta del monoteismo. Il suo nome El-ià, significa "solo Dio è Dio". Elia combatte l'idolatria e difende il primato di Dio nel tempo della sconfitta di Dio; laddove la regina Gezabele vuole imporre i Baalim, gli idoli, Elia difende Dio. E scopriamo una cosa paradossale. Elia dopo avere vinto lo scontro con i profeti di Ba'al sul monte Carmelo, viene perseguitato ancora, fugge, è stanco e vuole morire, perché gli sembra che tutto sia inutile. Ma il Signore gli fa mangiare un pane e grazie alla forza che quel pane gli dà, Elia cammina 40 giorni e 40 notti, fino a giungere all'Oreb, il momte santo, e sul monte farà l'esperienza di Dio. «Ecco il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto di fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco». Dunque il Signore non è in nessuno dei segni di potenza, né il fuoco, né il vento, né il terremoto. Dove abita Dio? «Dopo il fuoco ci fu un mormorio di vento leggero». La tradizione letterale è "la vice del silenzio". Elia conosce Dio nella voce del silenzio, anzi nel tenue silenzio. Che cosa significa questo? Che Dio non parla nei segni della potenza e della grandezza del mondo. Dio parla laddove la tua intelligenza e il tuo cuore non gli danno appuntamento, Dio parla sorprendentemente laddove è il "silenzio a parlarti di Lui, voce del silenzio.
Questa
è la seconda grande fenomenologia del Dio del silenzio. Quando non ce la fai, quando vorresti farla finita, quando tutto ti
sembra perduto e soltanto un pane, davanti a Dio, ti fa camminare verso il monte santo, Dio non ti parla nella potenza e
nella grandezza, ma nella sconfitta. Dio ti parla nel silenzio. Dunque se tu vuoi
fare l'esperienza di Dio, del Dio dei padri, devi conoscere il silenzio di Dio. Ecco quello che ci dice la fenomenologia del
Dio biblico. La domanda allora diventa questa: Dobbiamo ora capire qual è l'immagine che
Israele ha di Dio. Normalmente noi pensiamo che Israele abbia un'immagine di Dio, quella del patto, del Dio che si è
destinato liberamente all'uomo con l'alleanza. In realtà lo studio del silenzio nella Bibbia porta Neher a capire che nella
Bibbia ci sono almeno due concezioni di Dio. Quali sono? Per spiegarle uso le due metafore di André Neher.
Il "Dio dei ponti sospesi": il Dio che sull'abisso che ci separa da Lui, lancia il ponte della sua
parola (dabar). La parola è il grande ponte che unisce l'uomo a Dio. È il Dio che rassicura, che promette, che dà una certezza; da "gan"
(giardino) a "midbar" (deserto) a "dabar" (parola). La
Bibbia è il libro della Parola, la sua parola è luce, è calore, è forza che
trasforma il deserto in giardino. Accanto al Dio dei ponti sospesi c'è: Il "Dio delle arcate spezzate": il Dio che sull'abisso che ci
separa da lui lascia che noi ci sforziamo di gettare un arco che, tuttavia, resta sempre interrotto perché non riusciamo ad
afferrare Dio. Tutti i nostri tentativi di dire Dio naufragano sull'abissale distanza distanza che ci separa da lui. Questo è
il Dio del silenzio, il Dio che non riesci a dire, non riesci a capire. Per Neher questo Dio è il che si ritrova in tutti i
grandi momenti della fede. È il Dio a cui grida l'ebreo credente
entrando nelle camere a Gas dicendo (anì maamin) "Io credo".
La fede nasce in Gen 22 : l'akkedà di Isacco, quando Abramo è chiamato a offrire Isacco del suo cuore. E Abramo
si fida di Dio, nonostante il suo silenzio. Credere significa affidarsi perdutamente all'invisibile che ti chiama. Ma perché Dio fa questo? Perché Dio tace? Ecco la straordinaria risposta di André Neher, che è la risposta della tradizione ebraica: « Perché se Dio fosse solo il Dio della Parola ci accecherebbe con la sua luce. Dio è il Dio del silenzio, perché solo il silenzio di Dio è la condizione del rischio e della libertà». Se credere in Dio fosse solo rassicurazione, certezza, se Dio fosse solo il Dio dei ponti sospesi, allora noi crederemmo in Dio come in una ideologia che ci tranquillizza. Ma solo se Dio è il Dio dell'arcata spezzata, il Dio che tace quando vorresti udire la sua voce, allora la tua difficile libertà può credere il Lui. In altre parole il silenzio di Dio è lo spazio della nostra libertà. André Neher dice che ciò che conta nell'Ebraismo non è il risultato. Il compimento è nell'opera del piantare, non nel Messia. Ciò che importa al Giudaismo è l'incompiuto, incessante ritorno dell'uomo e di Dio a compiti oggi tanto più assillanti, n quanto ieri erano imprevedibili e domani saranno superati. In primavera si semina e in autunno si raccoglie, ma nessun autunno assomiglia all'altro, nessuna primavera ad un'altra primavera. Forse la primavera prossima il pane uscirà da questo solco, forse verranno la siccità e la grandine e non ci saranno che putredine e morte. L'essenziale non è nel raccolto, l'essenziale è nella semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza non è nel riso e nella pienezza, ma nelle lacrime, nel rischio e nel loro silenzio. Questa è la difficile libertà della fede ebraica - dice Levinas - credere in Dio anche nel tempo del silenzio di Dio. "Amare la Torah più di Dio significa credere in Dio, chi non ama la Torah più di Dio non crede in Dio", secondo la tradizione rabbinica. Questa frase dice una cosa straordinaria perché chi non fa questo crea Dio a sua immagine e somiglianza. Dio non è la risposta alle nostre domande; Dio è innanzitutto la sovversione delle nostre domande. Quando ritorni al Dio biblico e al Dio del Vangelo, ti accorgi che Dio è Dio soltanto se non è il Dio che corrisponde alle tue domande, ma che anzitutto le divora come il fuoco. 2.2. Il Dio biblico del Nuovo Testamento La parola di Dio è tutta intrisa del suo silenzio. E se non lo fosse, la Bibbia sarebbe il Capitale di Marx, sarebbe il manifesto di una ideologia, la pretesa di spiegare il mondo con la parola e il concetto; invece la Bibbia è una finestra sull'abisso, sull'infinito. Dio è fuoco divorante, Dio è l'inquietudine, il tormento; Dio è il Signore delle arcate spezzate, che ti lascia nell'attesa. Facciamo allora il passo seguente: nel Vangelo possiamo dire che il Dio di Gesù sia il Dio del silenzio? Al centro del Nuovo Testamento c'è la Parola venuta fra noi. Potremmo dunque dire che il Nuovo Testamento e l'ebbrezza della parola. Giovanni nel Prologo scrive: «la Parola si è fatta carne»: è lo scandalo abissale della parola che varca la distanza. È veramente il Dio dei ponti sospesi. Tuttavia, chi è questa "Parola"? Hans Urs Von Balthasar: «La Parola non è più Parola. Nella notte non chiede più di Dio, la notte che la copre non è una notte di stelle, non è silenzio di mille silenzi di amore, ma silenzio di attesa e di abbandono. Al centro della nostra fede c'è la Parola abbandonata, il Logos crocifisso». Il grido della Parola che muore, il paradosso dell'ora nona. Chi non ha capito questo non sa che cos'è il Vangelo. Che cosa significa questo? Che la Parola non è tutto, se la Parola ci dona la vita morendo, se è nell'abbandono della Parola che si dà la vita, significa che la Parola è la porta che rinvia ad un altro, e che l'Altro, chiamato Padre nella fede, potrebbe essere detto il "Silenzio". La parola procede dal silenzio. Gesù è la parola che procede dal silenzio. Il che significa che Gesù non è un manifesto ideologico che spiega il mondo; Gesù è la parola fatta carne, che rinvia ad un abissale silenzio, il silenzio del Padre. Questa parola che si dice nella carne può essere accolta solo in un modo: in un altro silenzio, il silenzio dello spirito che in noi lascia abitare la parola. Il Cristianesimo dunque è la fede in una Parola che sta sospesa tra due silenzi: il silenzio dell'origine e il silenzio del destino, il silenzio fontale e il silenzio dello Spirito che in noi lascia che la parola taccia e si dica nella vita. Il Verbo sta tra i due silenzi. Il cristianesimo è sospeso come Parola tra due Silenzi. C'è una Parola per dire tutto questo: apokalypsis e re-velatio. Re-velare significa "togliere il velo". Nei composti in latino ha un duplice senso: togliere o intensificare. La Rivelazione è una parola che rimanda a un abissale silenzio. Gesù non è la pubblicazione di Dio è la porta delle pecore, la parola che ci introduce negli abissali silenzi dell'altro. Quando Lutero tradurrà la parola Revelatio con Offenbarung (generare all'aperto), manifestazione totale di Dio, quando Dio ha detto tutto. "Offenbarungstheologie" in tedesco. Concludo con due citazioni. La prima è di S. Giovanni della Croce: «Il Padre pronunciò la sua parola in un eterno silenzio, perciò è in silenzio che essa deve essere ascoltata dagli uomini». Tu ascolti la parola non quando la ripeti chiassosamente, ma quando ti fai silenzio, perché la parola abiti in te, e questo silenzio accogliente è quello che il nuovo testamento chiama Spirito, chiama fede. L'altra citazione «alla parola si risponde con l'obbedienza della fede». Cosa significa obbedienza? Ob-audire vuol dire ascoltare quello che è sotto, quello che è dietro. Ascolti veramente la parola quando trasgredisci la parola, quando l'attraversi, quando fai violenza alla parola, perché la parola ti schiuda il segreto nascosto. Obbedire significa trasgredire, cioè, nel senso etimologico, trans-gredior, fare il passo oltre. Qui nasce l'ermeneutica. Il testo noi non la leggiamo come i fondamentalisti, come se fosse tutto detto, il testo noi lo leggiamo come un invito alla trasgressione. Non pronunciare mai la parola senza prima aver camminato lungamente nei sentieri del silenzio. Solo se avrai trasgredito nel silenzio la parola, e sarai giunto al silenzio, oltre la parola, da cui essa proviene, e sarai entrato in quel silenzio, la parola sarà in te feconda. Al centro del Cristianesimo c'è la Parola come porta del Silenzio e il grande dovere del cristiano è la trasgressione, non la volgare trasgressione di fare quello che più ci aggrada, ma la difficile, tragica trasgressione di obbedire alla parola, cioè di corrispondere alla parola, ascoltandola nel silenzio e penetrando nel silenzio. Sulla tomba di Bloch: "Pensare significa trasgredire", mai avrebbe detto questo se non avesse avuto tra le mani la Bibbia. PENSARE TRA ESODO E AVVENTO torna su Abbiamo visto come il silenzio abiti al centro del libro della
parola. Ciò che ora vorrei fare è cogliere le conseguenze che questo comporta per il nostro modo di vivere, di pensare, di
amare. Lo farò seguendo sette punti, che poi in realtà sono otto. Finalmente arriviamo al sesto punto. Il pensiero, se in generale è un pensiero
agonico, tragico, pacificato nella lotta, non può fare a meno dell'esistenza. La vita del pensiero è il pensiero della vita.
Quando veramente lotti con l'altro e il tuo pensiero è lotta con l'altro, allora tu pensi la vita. Il pensiero non è un gioco.
Applicando questo alla teologia, possiamo affermare che il pensiero della fede non può essere un esercizio accademico
sull'asettico oggetto di ciò che tu credi. Il pensiero della fede è pensiero militante; ecco perché la teologia ha bisogno
della santità, ha bisogno della preghiera, ha bisogno dell'amore, del servizio. Allora la teologia non è solo dotta fides, la
teologia è dotta charitas, dotta spes. La teologia è, nella formula che io amo, compagnia, memoria e profezia. La
teologia è compagnia perché è dotta charitas: amandoti, non posso non pensare il tuo dolore, le tue domande. È
memoria perché dotta fides: amandoLo, non posso non pensare le Sue trasgressioni, il Suo esodo. È profezia perché è dotta
spes: amandovi e amandoLo non posso non trasgredire la morte, verso l'ultimo orizzonte e l'ultima patria.
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