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Lo scrittore Amos Oz interviene a «Torino spiritualità» «Fra israeliani e palestinesi una nuova epoca di ascolto dell'altro»  

Oltre il fanatismo. «Bisogna cercare di vincere la tentazione di sbeffeggiare chi ci sta di fronte, come fa un certo pacifismo militante. Serve una riconciliazione» 

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Vuoi fare qualcosa di concreto contro il fanatismo crescente? Comincia tu per primo a metterti nei panni degli altri. A Gaza come in ogni angolo del mondo. O magari (come nel suo nuovo libro che sta per uscire in Italia) anche in un villaggio di fantasia che però ricorda da vicino qualcosa di molto concreto. È la ricetta su cui Amos Oz, celebre scrittore israeliano appena insignito in Germania del prestigioso Premio Goethe, protagonista ma anche coscienza critica della galassia pacifista di Gerusalemme, ha dialogato ieri sera con Enzo Bianchi e Miriam Mafai al teatro Carignano a Torino nell'ambito di «Torino spiritualità».
Amos Oz, perché oggi così poche persone sono in grado di compiere un gesto apparentemente così semplice come mettersi nei panni degli altri?
«Perché viviamo in un asilo infantile globale, in un mondo dove la gente pensa sostanzialmente a giocare, a consumare e a divertirsi. Anche i poveri subiscono il lavaggio del cervello dei gadget. In una realtà del genere non ci si mette nei panni degli altri. A parte quando dobbiamo vendere loro qualche cosa. È l'unico momento in cui ci chiediamo davvero che cosa prova l'altro».
Dunque, visto che il mondo è infantile, lei adesso con «D'un tratto nel fondo del bosco», sceglie la terapia del genere "fantasy".
«Un momento. Ho già scritto "Come curare un fanatico": si può vendere quello nelle farmacie. Questo nuovo libro è un racconto, non una terapia. Non penso che raccontare storie abbia bisogno di scuse esteriori: è un'esperienza primordiale, come respirare. Certo, può darsi che quando leggiamo un romanzo siamo più portati a immaginare l'altro. Ma è un invito. Si può accettare o gettare nella spazzatura. Tutto quello che posso fare, quando scrivo un nuovo libro, è dire: siediti, ho una storia per te».
Il libro, però, prende di mira l'abitudine di sbeffeggiare l'altro, un'altra forma di fanatismo?
«Se parlassi sempre di fanatismo diventerei fanatico io stesso. Detto questo è vero, è una storia su come la beffa e il sarcasmo possano a volte trasformare la gente in persone ancora più sole di quanto siano già. Lo vede anche lei: il sarcasmo è il tono prevalente nei discorsi di oggi. Io stesso lo uso spesso, insieme all'ironia. Buttare tutto in battuta è legittimo quando l'altro è potente, o sicuro di sé, o arrogante. Ma se l'altro è vulnerabile, insicuro, più debole di noi, è un'arma iniqua».
Lei ha scritto più volte che il fanatismo può annidarsi anche nel mondo pacifista. Dove in particolare?
«Conosco persone del movimento pacifista talmente militanti nelle proprie convinzioni su come costruire la pace da impegnarsi in guerre molto serie con le altri pacifisti. Li chiamano colombe, ma che razza di colombe sono quelle che combattono in continuazione l'una contro l'altra? Il punto è che nessuno è davvero immune dal fanatismo. Anche se non ogni forma di fanatismo è un pericolo mortale».
Dove stanno i segni di una riconciliazione possibile nel Medio Oriente di oggi?
«Nella possibilità di capire che cosa spaventa l'altro. Non nello sbocciare improvviso di un amore vicendevole. La riconciliazione non avverrà gettandosi in lacrime nelle braccia dell'altro dicendo: fratello, ciò che abbiamo fatto è stato terribile. Oggi vedo un po' più di attenzione verso le paure e i bisogni dell'altro. E questa è un'ottima cosa. Israele è fuori da Gaza: è un buon inizio. La leadership palestinese sta usando un nuovo linguaggio rispetto ai tempi di Arafat: è un altro buon inizio. Questo, ovviamente, rende i fanatici da entrambe le parti più nervosi e più pericolosi. Siamo solo all'inizio: non mi aspetto miracoli, ma un cambiamento molto lento. Un pragmatismo triste, non entusiasta. La comprensione che non tutti potranno avere tutto quello che vogliono e forse nemmeno quello che gli servirebbe. Bisognerà attraversare dolorose crisi d'astinenza, da entrambe le parti».
Che cosa ha provato a vedere alla televisione i coloni barricati nelle sinagoghe di Gaza, prima, e le stesse sinagoghe bruciate dai palestinesi, poi?
«I coloni hanno sofferto davvero vedendo infrangersi il loro sogno. E io non posso gioire quando il sogno di qualcuno si infrange; nemmeno quando penso che quel sogno fosse pericoloso. Quando invece ho visto alcuni palestinesi incendiare le sinagoghe ho pensato che queste persone stavano incendiando anche il futuro della Palestina. Perché una Palestina fanatica, carica di odio, violenta, non otterrà mai la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Bruciare quelle sinagoghe è stato un atto di barbarie, una risposta a una sete di vendetta. Ma la vendetta chiama solo altra vendetta».
Che cosa ricorderà, domani, la società israeliana dello storico agosto 2005?
«Dipenderà molto dalla risposta dei palestinesi. Se considereranno il ritiro da Gaza come il primo sintomo della disintegrazione di Israele e aumenteranno la violenza, allora la società israeliana si indurirà e ricorderà questo passaggio come un grave errore. Ma se dall'altra parte lo si considererà davvero un primo passo verso la soluzione dei due Stati, allora c'è davvero una buona possibilità che la maggioranza degli israeliani possa riconoscere che sì, ritirarsi da Gaza è stata la cosa giusta».
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L'autore                                                                            torna su

Classe 1939, Gerusalemme, Amos Oz è una delle più potenti voci della letteratura israeliana. Ed è impegnato da sempre nel dibattito politico a favore del processo di pace. L'ultimo, sorprendente libro uscito in Israele, con il titolo Sipur al Abava ve al Hoshekh (Una storia di amore e di tenebra), e che ha avuto un enorme successo di critica e di pubblico, che verrà pubblicato in Italia da Feltrinelli.
Racconta l'infanzia di Oz e i personaggi della sua famiglia, proveniente dalla Russia, in una Gerusalemme sullo sfondo dell'Europa in piena catastrofe della Seconda guerra mondiale. Ma il romanzo autobiografico è anche il racconto del dramma del matrimonio tra sua madre e suo padre la madre si è tolta la vita quando Oz aveva 13 anni).
Una storia di amore e di tenebra è un libro che segna una svolta nella produzione letteraria di Amos Oz. Per anni, Oz si è costruito l’immagine di un "ebreo nuovo", venuto dal nulla, forse dal mare o dal deserto. Un ebreo pioniere che dissoda la terra e che ha rotto i ponti con la Diaspora europea, "inerte davanti ai suoi carnefici". Il suo mondo, da combattente nelle guerre del 1967 e 1973, era tutto tra kibbutz, riva del Mediterraneo e Gerusalemme.
Nel suo ultimo romanzo autobiografico Oz rivela invece, senza pietà, la verità su se stesso e la sua famiglia. Racconta le sue origini tra Odessa e Vilnius, capitali della Diaspora askenazita. Descrive i tic piccolo-borghesi del padre. Confessa come parenti rimasti nel vecchio continente siano stati uccisi nella Shoah. Ha capito che non si può sopravvivere senza radici.
"È la storia di un amore deluso, frustrato. I miei genitori, cosi come i miei nonni erano europei. Così si definivano. Erano fedeli all'Europa. Sfortunatamente a quei tempi nessuno definiva se stesso europeo. C'erano i patrioti italiani, o quelli ungheresi, il patriota pangermanico o panslavico. Gli unici europei in Europa, 75 anni fa, erano gli ebrei, come la mia famiglia."

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Il Libro                                                                                  torna su

Le tre lezioni che Amos Oz ha tenuto a Tubinga in Germania. Un tema: il fanatismo. Una domanda: come curarlo? Una risposta: l’esercizio salutare del compromesso."Come curare un fanatico? Inseguire un pugno di fanatici su per le montagne dell’Afganistan è una cosa. Lottare contro il fanatismo è un’altra. Completamente diversa. L’attuale crisi mondiale in Medio Oriente o in Israele/Palestina non discende dai valori dell’Islam. Non è da imputarsi, come dicono certi razzisti, alla mentalità araba. Assolutamente no. Ha invece a che fare con l’antica lotta fra fanatismo e pragmatismo. Fra fanatismo e pluralismo. Fra fanatismo e tolleranza.

Il fanatismo nasce molto prima dell’Islam, del cristianesimo, del giudaismo. Viene prima di qualsiasi stato, governo o sistema politico. Viene prima di qualsiasi ideologia o credo. Disgraziatamente, il fanatismo è una componente sempre presente nella natura umana, è, se così si può dire, un gene del male." Amos Oz
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Giovedì 22 settembre                                                                torna su
Ore 21.00, Torino - Teatro Carignano
“Fondamenti e fondamentalismi” La riconciliazione oltre il fanatismo
Dialogano Enzo Bianchi e Amos Oz - Introduce e modera Miriam Mafai

La fede nei propri fondamenti, senza il riconoscimento dei fondamenti degli altri, genera solo odio. Esperienze e riflessioni a confronto contro ogni fanatismo ma soprattutto l’incontro oltre ad un’analisi delle cause del fanatismo, vuole parlare di riconciliazione. Che cosa significa riconciliarsi a livello individuale, sociale e politico, quali modificazioni nell’agire e nel pensare sono necessarie? Che cosa significa nell’ambito di una riconciliazione, la parola verità? Non ci può essere riconciliazione se non c’è un’elaborazione della memoria e del passato, ma soprattutto se non c’è l’acquisizione della verità. Una verità che deve sapere contenere in sé i diversi punti di vista e permettere ad essi di coesistere.


v. recensione precedente:
Una storia di amore e di tenebra

   
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