L'olocausto nella liturgia ebraica in un convegno a Roma 
     Irene Fornari, "Ma la Shoà non è una religione"

 



È stato Rav Scialom Bahbout ad aprire in maniera insolita e al tempo stesso toccante l'incontro 'I religiosi nell'inferno della Shoà' organizzato al Pitigliani con alcuni esponenti della rivista Lettera Internazionale nell'ambito delle manifestazioni per la 'Giornata mondiale della Shoà': Rav Bahbout ha iniziato il suo intervento intonando alcuni versi del salmo 23: "Anche se andrò nella valle oscura / non temerò il male / perché tu sei con me". "Queste parole - spiega Rav Bahbout - accompagnarono molti ebrei che entravano nei campi di sterminio, e rappresentano quindi nella loro semplicità la posizione dei religiosi e di gran parte del popolo ebraico di fronte allo sterminio nazista". 

Ma ciò che ha differenziato la Shoà da altri eventi luttuosi - che pure hanno colpito nel corso della storia gli ebrei - è, secondo lo studioso, l'ineluttabilità dell'avvenimento: mentre "negli altri casi agli ebrei era lasciata la possibilità di convertirsi, questa volta l'ebreo che abiurava formalmente la propria fede veniva ugualmente inviato nel campo di sterminio". 

Quello che è importante notare è, sottolinea ancora Bahbout, che anche durante la Shoà i rabbini dell'epoca non hanno mai smesso di adottare la Torà ed è "forse l'insegnamento più grande che possiamo ricevere da questa tragedia". Rav Bahbout ritiene che la Shoà resterà esclusivamente nella memoria ebraica, "perché gli altri non hanno imparato tutta la lezione". Un altro punto su cui si è soffermato lo studioso è il fatto che i rabbini non abbiano voluto assegnare all'Olocausto un ruolo più importante di quello che ha avuto, perché per l'ebraismo l'importante è il "Kiddush Hashem" cioè la santificazione del nome di D-o, e quindi consacrare la vita e non la morte. Proprio per questo la Shoà non deve essere trasformata nel motivo fondante della vita ebraica e dunque "lo sterminio verrà integrato nella liturgia ebraica, ma nei tempi e nelle modalità soliti".

L'unico insegnamento che, secondo Rav Bahbout, è possibile trarre dalla Shoà è "come non dobbiamo comportarci, anche se non siamo in grado di capire il male e dobbiamo astenerci dal fornire ogni interpretazione". Quello che bisogna evitare, ha concluso Rav Bahbout, è che altri si possano appropriare della Shoà, che "deve restare un momento della nostra storia". Della stessa opinione anche Rav Riccardo Di Segni, che ha posto l'accento sui recenti tentativi da parte del cristianesimo di "attenuare o confondere la specificità ebraica delle vittime dello sterminio e la responsabilità cristiana dalla parte dei persecutori". Allo stesso tempo, Rav Di Segni mette in guardia sulla possibilità di istituire una "religione dell' Olocausto", che si fondi esclusivamente sul genocidio nazista: la Shoà deve essere intesa non come "un'eccezione, un accidente di questo secolo, ma come seguito e culmine di una storia di tre millenni"(1). Per Rav Di Segni la Shoà deve essere ricordata come uno degli eventi che fanno parte della storia ebraica, uniti da uno stesso filo e non esaminati separatamente.

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(1) Senza voler sminuire la portata, la drammaticità e l'ingiustizia delle persecuzioni subite dagli ebrei nel corso dei secoli ad opera del cristianesimo, dobbiamo tuttavia fare un distinguo importante: ricordiamoci che il nazismo non è certo figlio del cristianesimo; lo è, se mai, di un certo tipo di paganesimo reviviscente in una forma aberrante e patologica. Ricordiamoci anche di quanti cristiani sono stati vittime del nazismo e del fatto che - come risulta da molti documenti - se la terribile ideologia della morte non fosse stata sconfitta, i cristiani - senza distinzione di confessioni - avrebbero seguito la stessa sorte degli ebrei.

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