Nuovo allestimento del Museo dell'Olocausto: 
la memoria può includere altri eccidi?
 

Il mausoleo di Yad Vashem sarà inaugurato alla presenza di 30 capi di Stato e di governo martedì prossimo Le pietre su cui si cammina, i lampioni, i binari del tram sono gli stessi del ghetto di Varsavia: così il ricordo diventa esperienza

Le pietre su cui si cammina sono quelle originali della via Leszno. Ma anche i lampioni, i binari del tram, i suoni che si ascoltano sono gli stessi del ghetto di Varsavia. Come le immagini e le parole del documentario nazista sulla comunità ebraica. Sembra davvero di esserci dentro. E invece siamo a Gerusalemme nel nuovo museo di Yad Vashem, che dopo dieci anni di lavori verrà inaugurato alla presenza di 30 capi di Stato e di governo martedì prossimo.

Non si tratta di un semplice ampliamento del vecchio memoriale della Shoah, ma di un percorso completamente nuovo. Costato 40 milioni di dollari, si estende su una superficie di 4.200 metri quadri, quattro volte più grande cioè dello spazio espositivo aperto 31 anni fa destinato a chiudere i battenti dopo il 27 marzo, quando la nuova struttura aprirà le porte al pubblico. È soprattutto l'idea di fondo a colpire: il viaggio nella Shoah deve essere un'esperienza anche sensoriale. Ospitato in un gigantesco prisma integrato nel Monte Hertzl, il nuovo percorso è fatto per portare al massimo grado il coinvolgimento del visitatore. Parte sperimentando la vita quotidiana nel ghetto di Varsavia, ma a un certo punto è costretto a dare le spalle a quel mondo e a scendere nel cuore della montagna. Non mancano ovviamente i dati di contesto, ma in tutto il percorso il focus è sulle testimonianze personali. Cento schermi trasmettono in continuazione i racconti di 60 sopravvissuti. Fino ad arrivare alla Sala dei nomi, l'ambiente circolare destinato a ospitare le notizie sui sei milioni di vittime, ora parte integrante del museo. Sono circa tre milioni i nomi finora conosciuti, ma il posto vuoto è lasciato anche per tutti gli altri. Da qui poi si torna a salire fino all'uscita del prisma. Dove ci si ritrova davanti, all'improvviso e nella luce, una veduta panoramica della Gerusalemme moderna.

Il nuovo museo vuole esprimere il passaggio del testimone tra chi ha conosciuto per esperienza diretta la Shoah (e quindi poteva accontentarsi di un approccio più tradizionale) e le nuove generazioni. Non a caso, dopo la cerimonia di martedì che vedrà a Gerusalemme anche il segretario generale dell'Onu Kofi Annan (fatto eccezionale dopo anni di relazioni tese tra Israele e le Nazioni Unite), a Yad Vashem è già in calendario un altro appuntamento. Dal 3 a 9 maggio si terrà un grande raduno internazionale di ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento. Che arriveranno con i loro figli e nipoti.

Ma tutto questo sta anche rilanciando in Israele il dibattito sul tema della memoria. Dalle colonne del quotidiano "Haaretz" a lanciare il sasso è stato Tom Segev, l'autore di Il settimo milione, il saggio che analizza con gli occhi dei «nuovi storici» i rapporti tra la Shoah, l'identità e le politiche di Israele. «A molti in questo Paese - ha scritto Segev qualche settimana fa - non piace che l'eredità dell'Olocausto appartenga a tutti; le decine di milioni di dollari che sono stati investiti recentemente a Yad Vashem esprimono più di ogni altra cosa l'idea che il più grande museo al mondo sull'Olocausto deve essere a Gerusalemme e non a Washington o a Berlino». Il direttore di Yad Vashem, Avner Shalev, gli ha risposto negando l'esistenza di una preoccupazione di questo tipo. Ma la settimana scorsa, sempre sulle colonne di "Haaretz" nel dibattito è intervenuto anche Michael Berenbaum, il progettista dello U.S. Holocaust Memorial Museum di Washington, aperto nel 1993. Difendendo il valore positivo della competizione, a partire dall'idea che il contesto in cui nasce un museo influenza la narrazione. 

Però anche Berenbaum pone ai curatori di Yad Vashem la questione del rapporto tra la specificità della Shoah e il suo significato universale: «Sarà la memoria ebraica - si chiede lo studioso americano - così grande da essere al tempo stesso giudeocentrica e inclusiva? Una generazione fa - conclude - poteva bastare imparare dalla Shoah che il mondo intero è contro di noi, che la debolezza spinge al vittimismo e dunque che il popolo ebraico deve contare solo sulle sue forze e perciò deve sviluppare una forza adeguata per sopravvivere nel mondo contemporaneo. Oggi queste lezioni sono ancora valide, ma non bastano più».
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[Fonte Avvenire del 10 marzo 2005]

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