UN KAMIKAZE IN MENO
«MIO FIGLIO NO» IL GRIDO DI UNA PALESTINESE
Marina Corradi
Quelli di Hamas lo hanno giurato:
cento israeliani uccisi, per ogni loro capo ammazzato. Mentre, dopo la strage
dell'università di Gerusalemme, Sharon promette una «durissima reazione». La
ferocia di vendette e rappresaglie fa pensare alla sorte dei due popoli come a
un sasso, che rotola sempre più veloce verso un abisso, irrefrenabile verso il
nulla. Chi sta a guardare, attonito, trova nelle cronache di ieri solo un
appiglio - fragile, minimo - di speranza.
In un nastro registrato,
sequestrato dagli israeliani nel quartier generale di Arafat a Ramallah, si
ascolta il dialogo fra un uomo e una donna. L'uomo è un militante di Hamas,
reclutatore di giovani suicidi. Va cercandone altri, che carichi d'esplosivo si
facciano saltare fra la folla. È un grande onore, nella logica di Hamas, morire
sfracellando il nemico; non il nemico in divisa, ma quello inerme in giro a far
la spesa, col figlio in passeggino. E dunque nella telefonata l'uomo di Hamas
chiede a una donna che suo figlio s'immoli per la causa. Non è una donna
qualunque: è Abdel Aziz Rantizi, moglie di un dirigente di Hamas. Moglie di un
combattente, madre di Moahammed, già individuato come candidato kamikaze.
All'altro capo del filo, il cacciatore di ragazzi s'aspetta un «sì» fiero,
quasi orgoglioso. E invece, Abdel Aziz Rantizi è irremovibile. Suo figlio, uno
dei suoi figli volontario al macello? Il reclutatore insiste: sarà un eroe, sarà
un martire. E la donna: cercatene un altro. Mio figlio, no.
E così avremo un kamikaze in meno, e dieci o cento civili uccisi in meno, per
quel «no» rabbioso. Fossero cento, mille come lei. Per la causa palestinese,
certo, ma mai al punto di essere pronte ad annientarsi, in odio al nemico. Perché
cos'è, mandare i propri figli carichi di tritolo a far morire la gente per le
strade, se non annientamento puro, anche di sé? Cosa resta di un popolo che
scientemente, freddamente spedisce i suoi ragazzi al suicidio? Cosa resta negli
altri, in quelli che continuano a vivere, se non orrore e odio? Da dove
ricomincia, un popolo che, con i suoi figli, simbolicamente si suicida?
Si obietterà che è un no soltanto viscerale, quello della donna di Hamas; che
pure nell'odio, nel non dire «mai» ma «cercate un altro», ha semplicemente
prevalso l'istinto possente della madre, il non poter permettere che ciò che è
venuto, vivo, da lei, si annienti - più atroce ancora: si annienti, con il suo
consenso. Bene: solo viscerale istinto materno- ferino quasi, come quel lampo
che si intravvede negli occhi delle gatte che allattano, quando s'avvicina un
estraneo. Se anche è solo questo il no della donna di Hamas, di quanto è
immensamente superiore e più vitale e fecondo della virile spietatezza degli
uomini che promettono: cento morti, per ognuno dei loro.
A quel sasso che rotola verso l'abisso, alla voglia di nulla, si oppone per sua
natura l'anima femminile. Qualcosa non glielo permette. Qualcosa dentro, una
innata vocazione alla luce. Da millenni gli uomini si massacrano in una guerra
infinita. Da millenni le donne mettono al mondo figli. Sanno da sempre quanta
attesa e fatica e pazienza c'è voluta, per crescere ognuno di quei figli: che
nelle guerre degli uomini sono un nulla, e che un attimo basta a cancellare.
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