Da: Emmanuel Levinas, "Il messianismo", Morcelliana 2002
pubblichiamo l'interessante e circostanziata Introduzione di Francesco Camera
La traduzione filosofica del contesto e delle espressioni linguistiche,
con le quali i maestri della tradizione talmudica discutono dell'attesa messianica, porta Levinas a concepire il
messianismo, prima ancora che come un tratto "particolare" del popolo ebraico e della sua storia, come una
struttura universale della "soggettività" o dell'umano in generale, che consiste nell'assunzione di
responsabilità nei confronti del prossimo. Ogni uomo deve essere Messia se vuole essere pienamente uomo. e può esserlo
ogni volta che ascolta la voce del comandamento etico e religioso che lo destina a servire l'altro uomo: che lo
"destina a servire l'universo" e ad instaurare la giustizia.
«Un maestro della scuola di Rabbi Ishmael ha insegnato: "Non
è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia?" (Ger
23, 29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure da un solo versetto scaturiscono sensi
molteplici».
b.Sanhedrin,34a.
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1. L 'idea messianica
torna su
I testi di Emmanuel Levinas raccolti in questo volume propongono alcune riflessioni su un tema di
grande interesse religioso, culturale e storico assai complesso: il messianismo. Essi tentano una delimitazione
concettuale (o filosofica) di questo fenomeno ed individuano nell'etica le condizioni preliminari dell'esperienza
salvifica per l'uomo contemporaneo. In questa prospettiva l' idea messianica viene ripensata al di là della classica
contrapposizione tra visioni utopistiche metastoriche e realizzazioni intrastoriche. Tuttavia, proprio per pervenire ad un
approfondimento concettuale di questa idea plurisignificante, Levinas non può ignorare che essa, fin dalle sue origini
remote nel mondo ebraico, è stata attraversata da una forte tensione tra immaginazione e realtà, tra presente e futuro.
E proprio per questo nel corso dei secoli i suoi sviluppi sono stati imprevedibili e sorprendenti, le sue molteplici
interpretazioni cariche di speranza e di simboli spesso contrastanti.
Il messianismo, nato in origine come privilegio della stirpe di Davide, come risposta a contingenze
politiche (quali la perdita dell' indipendenza nazionale da parte di Israele), si è affermato, soprattutto ad opera dei
profeti, come irresistibile spinta verso un futuro di giustizia qualitativamente diverso dal presente, capace di orientare
la storia e di alimentare la speranza di redenzione. Nel corso di questo processo i contenuti concettuali ed esperienziali
raggruppati dalla parola ebraica mashiach (1) si sono trasformati a contatto col cristianesimo,
dando vita a nuove configurazioni teologiche, per poi essere infine recepiti in forma secolarizzata dalle strutture di
pensiero della cultura occidentale (si pensi ad esempio ali 'idea di progresso).
Pienamente cosciente della molteplicità di significati e di configurazioni assunte dall'idea
messianica nel corso dei secoli, Levinas fa leva sulla specificità "particolaristica" del messianismo ebraico,
per operare subito dopo una traduzione dei suoi contenuti in una prospettiva "universalistica". L' originalità
della sua proposta consiste proprio in questa traduzione dei contenuti salvifici dell' idea messianica dal
particolare all'universale, resa possibile dal ricorso agli strumenti concettuali della filosofia. Attraverso questa
operazione ermeneutica il messianismo non è più soltanto un carattere specifico della stirpe di Davide, ma diventa una
struttura costitutiva dell'umano in quanto tale. È significativo rilevare che questa trasformazione passa attraverso la
lettura e il commento di alcuni brani tratti dal Talmud,(*) da quell' opera enciclopedica che per le genti di Israele
contiene la trascrizione della Torah (**) orale, che a sua volta costituisce un commento alla Torah scritta di
origine mosaica. Per comprendere meglio il senso di questa originale riproposizione dell'idea messianica dobbiamo quindi
soffermarci in primo luogo sull'importanza che essa assegna al commento talmudico.
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(*) [Talmud (lett. “studio”): Riunisce la Mishnà e la Ghemarà e
raccoglie l’insieme delle discussioni rabbiniche risalenti al periodo tra il IV e il VI secolo e.v. Ne esistono due
redazioni: una più ampia e autorevole, Babilonese (che raccoglie oltre a materiale giuridico e normativo, anche leggende,
vite di maestri, preghiere, detti, midrash ecc.); e una più breve, Palestinese o di Gerusalemme.NdR]
(**) [Torah (lett. “insegnamento”, “legge”): È la legge data da Dio a Mosè sul monte Sinai. La Torà
scritta consiste nei primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco): Bereshìt (in principio) Genesi; Shemòt
lett. Nomi Esodo; Vayikrà e [D-o] chiamò Levitico; Bemidbar lett. nel deserto Numeri; Debarim
lett. parole Deuteronomio. La Torà orale è la tradizione dei maestri raccolta nelle opere della
letteratura rabbinica e mai conclusa. Si può studiare la torah a quattro livelli, detti collettivamente Pardès.
Secondo il significato letterale: Peshàt; secondo il significato intimo e allusivo: Rèmez; secondo le
spiegazioni allegoriche, omiletiche o esegetiche: derùsh; penetrando il significato più profondo e nascosto: Sod.]
2. La tradizione del commento
torna su
L'originale proposta filosofica di Levinas si ricollega alla propria esperienza di ebreo lituano
assimilato alla cultura europea occidentale. L'appartenenza all' ebraismo costituisce per lui il terreno preriflessivo e
originario in cui sono depositate esperienze individuali e collettive che richiedono di essere tematizzate e chiarite
attraverso il ricorso alla filosofia. Infatti, solo in questo modo esse possono essere riconosciute non soltanto come
patrimonio storico di un determinato popolo, ma come valori che appartengono all 'umanità intera. Questa ispirazione di
fondo, che sostanzialmente intende "ridire" quanto è stato "già detto" dalla Bibbia ebraica nella
sua duplicità di tradizione scritta e di tradizione orale, è alla base sia di tutte le opere filosofiche levinassiane
sia di quel consistente gruppo di écrits confessionnels, comprendente un vasto numero di "letture e commenti
talmudici"(2). Nel lungo elenco di questi scritti i testi sul messianismo, che qui vengono
presentati in traduzione italiana, occupano un posto particolarmente significativo almeno per due ragioni: essi sono in
ordine cronologico i primi commenti dedicati da Levinas ad un testo talmudico e documentano quindi la forma più antica di
questo fortunato genere saggistico; inoltre essi furono redatti tra il 1960 e il 1961 in concomitanza con la pubblicazione
di Totalité et Infini(3), l'opera che contiene una prima sintesi della concezione
filosofica levinassiana, alla quale questi testi sono tematicamente collegati anche se in modo non immediatamente
evidente. Infatti, la ricerca che attraverso lo strumento del commento esplora il terreno dell' esperienza religiosa
costituisce lo sfondo della riflessione filosofica esplicita che, con metodo fenomenologico, difende il primato dell'etica
e critica l' ontologia. Questo intreccio fecondo riguarda in particolare anche il tema del messianismo. Un tema che la
filosofia levinassiana aveva affrontato di sfuggita in relazione al problema del tempo e che nelle pagine finali di Totalité
et lnfini era esploso con tutta la sua forza dirompente(4). Nella loro sinteticità quelle pagine, in cui si parla della
«coscienza messianica» e del «trionfo messianico», rimandano alla nozione di messianismo approfondita attraverso il
commento del trattato talmudico b.Sanhedrin. In questo modo il lettore è rinviato dalle puntuali analisi
fenomenologiche allo sfondo prefilosofico del testo talmudico, dalla "fatica del concetto" alla trama narrativa
di storie particolari apparentemente insignificanti. L' itinerario di pensiero dell' ebreo Levinas risulta pienamente
comprensibile solo tenendo presente questa duplicità di piani, che spesso si sovrappongono come due cerchi concentrici.
Questo intreccio tra Bibbia e filosofia suggerisce al lettore un percorso circolare, che non deve
separare la teoresi filosofica dall' esperienza religiosa, ma anzi deve seguire il rimando costante tra i due piani. Le
letture e i commenti contengono un implicito significato speculativo e le opere specificamente fIlosofiche mantengono
sempre un legame con la tradizione religiosa narrata nei trattati talmudici. «Il Talmud - scrive Levinas -
è la trascrizione della tradizione orale di Israele. Esso regola sia la vita quotidiana e rituale, sia il pensiero»(5).
Il costante riferimento al Talmud quindi non è dettato in primo luogo da preoccupazioni teologiche o da esigenze
di fiera edificazione religiosa ma ha un significato più profondo, in grado di orientare il pensiero verso l'ascolto e il
dialogo. La stessa struttura della pagina talmudica sembra essere particolarmente adatta a svolgere questa funzione. Essa
infatti si presenta come uno spazio dialogico, in cui i versetti biblici vengono letti dalla Mishnah (*)
e dalla
Gemara, e questa lettura interloquisce con le aggiunte dei tosefisti (**) e con quelle dei commentatori medievali. In
questo senso il Talmud è una tradizione vivente: nonostante la sua antichità, la continuità dello studio del
testo scritturale attraverso i commenti testimonia l' esistenza di una trasmissione ininterrotta, che si dispone all'
ascolto della parola originaria interpretandola in modi sempre nuovi.
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(*) [Mishnà: Dal verbo ebraico che significa “recitare le
lezioni”, “ripassare”. La Mishnà, che è il codice della tradizione orale, è divenuta una delle due parti
del Talmud (la seconda, è la Ghemarà). La redazione finale della Mishnà risale alla fine del II
secolo e.v. e comprende 63 trattati divisi in 6 ordini riguardanti la normativa cultuale, i rapporti sociali, il diritto
civile e penale, il matrimonio ecc.NdR]
(**) [Tosafot (pronuncia yiddish, tosefos; lett. “aggiunte”) Glosse marginali di commento al testo
talmudico di Rashì a opera dei suoi discepoli.NdR]
I commenti si sovrappongono ai commenti in una
polifonia di voci in dialogo tra loro, che interpellano il presente e moltiplicano le interpretazioni. Il Talmud è
quindi un testo aperto, in cui spesso le discussioni restano senza conclusioni, dando luogo ad una dialettica che
non approda ad una sintesi e che continua la tradizione dialogica del commento infinito. Per questo carattere di apertura
i diversi trattati non appartengono soltanto alla storia passata del popolo ebraico, ma si rivolgono anche al mondo di
oggi e alle sue problematiche. Essi non sono depositari di verità teologiche dogmaticamente definite, ma contengono un
messaggio pluralistico in divenire rivolto a tutti gli uomini, che è compito di esplicitare e contestualizzare.
Continuando la tradizione del commento, Levinas si ispira all'antica forma del midrash(6).
Questo particolare modello di esegesi, inteso in senso lato come spiegazione e ricerca applicata alla Scrittura, non
è soltanto un fortunato genere letterario che si suddivide in halakico (*) e haggadico, (**) ma rappresenta il modo in cui è
stata letta prevalentemente la Bibbia ebraica nel corso dei secoli in stretto rapporto con l' orizzonte storico degli
interpreti. Da questo punto di vista il modello midrashico fornisce anche un metodo ermeneutico, che guida il lettore al
di là del senso letterale (il senso semplice o peshat) e lo porta a scrutare il testo in profondità per
attualizzarlo e adattarlo alla situazione concreta dell'interprete, mettendo in luce i contenuti che sono particolarmente
rilevanti per il presente.
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(*) [Halakhà (lett. “via”): condotta, comportamento. La parte normativa
della Torà scritta e orale. Materiale giuridico dell’insegnamento della tradizione. Insieme di norme che
regolano la vita quotidiana. Esso veniva trasmesso oralmente da generazione generazione, ma fu poi scritto e divenne parte
della Mishnah e del Talmud. All’Halachà si contrappone l’Haggadah (narrazione) che comprende l’omiletica, le
narrazioni, leggende e sentenze.NdR]
(**) [Haggadà: Racconto, narrazione. Genere letterario che comprende i testi
narrativi della tradizione rabbinica. In particolare indica il testo che narra dell’esodo dall’Egitto e che viene
letto durante il sèder.NdR]
Per questa ragione Levinas privilegia il midrash omiletico, che mira a spiegare il testo
a scopo di edificazione morale e che ha come obiettivo primario l'applicazione pratica del contenuto. Infatti, l'obiettivo
primario delle "letture talmudiche" è trasmettere un insegnamento formato soprattutto da valori etici ad un
pubblico di ebrei assimilati che hanno perso il contatto con la tradizione. Scrive a questo proposito Levinas: «noi
assumiamo il testo talmudico, e l' ebraismo che ne traluce, come tali che contengano un insegnamento, e non come un
tessuto mitogeno di sopravvivenze. Per prima cosa dunque ci sforzeremo di leggerlo nel rispetto dei suoi dati e delle sue
convenzioni [...]. Solo in un secondo tempo cercheremo di tradurre il significato suggerito dai dati del testo in
linguaggio moderno, vale adire in problemi capaci di inquietare un uomo istruito nelle fonti spirituali che sono estranee
all' ebraismo e che, nel loro confluire, costituiscono la nostra civiltà. Le concezioni universali che sono da porre in
luce nell'apparente particolarismo in cui ci rinserrano i dati di ciò che, impropriamente, si chiama la storia di
Israele: ecco l'intento dominante della nostra esegesi»(7).
Secondo questa esplicita dichiarazione, l'ermeneutica levinassiana mira a cogliere i significati
generali che si trovano racchiusi nell'insieme dei dati particolari che formano il tessuto narrativo della pagina
talmudica commentata. Dopo la lettura del testo nella lingua originale e la sua versione in francese, il contenuto viene
sottoposto ad una sorta di attualizzazione, che mira a «tradurre in moderno la sapienza del Talmud»(8).
Questa traduzione attualizzante non è altro che una libera applicazione del modello midrashico all' intero testo
talmudico (alla Torah orale ); essa si basa sulla convinzione che le discussioni tra i maestri partono sempre dai
problemi della vita concreta che sono comuni agli uomini di tutte le epoche. Dopo questo primo approccio, Levinas compie
subito un passaggio ulteriore: passa ad esplicitare alcuni valori e significati universali racchiusi nel testo. Infatti,
come la Torah parla il linguaggio degli uomini, così il Talmud trasmette un insegnamento che riguarda la
vita di tutti e che quindi è universale: il primato dell' etica e della responsabilità per l' altro uomo.
Levinas è convinto che «discutendo sul diritto di consumare o non consumare "un uovo deposto
in giorno festivo" o sull'indennizzo dovuto per i danni prodotti da un "bue infuriato", i savi del Talmud
non discutono ne di uova ne di buoi, ma [...] mettono in questione idee fondamentali»(9). Lo sforzo
ermeneutico consiste allora nel risalire dai problemi rituali, propri della "particolarità" ebraica, a problemi
generali tematizzati dalla filosofia e riconducibili al problema del senso ultimo dell' esistenza e del comportamento
umano. In questo modo, attraverso la regola dell'universalizzazione, il Talmud incontra la cultura occidentale ed
in particolare il linguaggio concettuale della filosofia: «se il Talmud non è la filosofia, i suoi trattati sono
una fonte eminente delle esperienze di cui le filosofie si nutrono»(10). Levinas ritiene quindi che
molte pagine dei trattati talmudici si riferiscano a problematiche filosofiche: il pensiero dei maestri «procede da una
riflessione assai radicale per arrivare a soddisfare anche le esigenze della filosofia»(11). E proprio
per questo il contenuto dei testi talmudici può essere tradotto nel linguaggio filosofico. Questo rapporto con la
filosofia vale soprattutto per le parti haggadiche, che vengono preferite a quelle di argomento halakico perché sono
formate per lo più da racconti oda apologhi in cui intervengono personaggi che meritano di essere ascoltati soprattutto
per quello che fanno, per il loro comportamento nel contesto delle relazioni intersoggettive. In questo modo il primato
dell' agire e dell' etica viene testimoniato attraverso l' esperienza concreta e non è proclamato astrattamente come
principio all 'interno di un ragionamento, a dimostrazione che la tradizione del commento basata sull ' ascolto
costituisce un momento essenziale dell' ortoprassi ebraica. Sulla base di queste considerazioni Levinas può concludere
che nel pensiero rabbinico è presente «una ontologia aperta alla responsabilità per altri [pour autrui]»(12),
che insegna a mettere in discussione 1 'intera impostazione della filosofia occidentale: quel modo di pensare che per
secoli ha definito l'altro uomo a partire dall'io e che ha privilegiato il primato del sapere sull' agire.
In conclusione, le letture e i commenti talmudici levinassiani mirano nel complesso ad andare «al
di là del versetto»(13), al di là del significato letterale del testo, per individuare una
problematica di carattere generale che, secondo le intenzioni dell'interprete può (e deve) interessare la condotta di
vita di tutti gli uomini e quindi anche quella dei contemporanei. Tutte le letture sono dunque sostenute da una visione
filosofica di ampio respiro che, attraverso l'interpretazione di un testo antico, intende ricavare un significato
generale, collegando la particolarità dell' esperienza narrata all'universalità della condizione umana.
3. I tempi messianici e la storia torna
su
Come in altre fortunate letture talmudiche già note al lettore italiano, anche in questi testi sul
messianismo Levinas non vuole fornire un contributo esegetico specialistico, ma intende semplicemente mostrare che il
messianismo è un elemento specifico della storia religiosa ebraica che deve essere considerato un valore universale per
tutti gli uomini. Egli parte dalla constatazione che il termine messianismo è una «nozione complessa», che
«presenta diversi aspetti» tra di loro spesso contrastanti, ma che ha importanza per la vita intellettuale e per la
riflessione filosofica. Infatti, prima ancora che una nozione religiosa, il messianismo è per Levinas una categoria che
nel suo significato autentico poco o nulla ha a che vedere con le concezioni mitiche e popolari basate sulla figura di un
Messia personale dotato di poteri eccezionali, che irrompe nella storia mondana e mette miracolosamente fine alle violenze
o alle ingiustizie. Rifiutando questa concezione semplicistica (o "emozionale"), proveniente dalla tradizione
apocalittica, Levinas difende l' approccio "razionalista" proprio della tradizione rabbinica e collega le
tematiche dell' attesa messianica alle esigenze di giustizia e di liberazione proprie di ogni uomo e di ogni epoca storica(14).
Questo approfondimento concettuale si sviluppa attraverso la lettura e il commento di un testo
classico della letteratura rabbinica. Si tratta del trattato b. Sanhedrin, che si trova nel Talmud babilonese
ed appartiene al quarto ordine della Mishnah. Esso contiene per lo più disposizioni giuridiche, ma in alcune parti
dell'ultimo capitolo (il Capitolo XI) discute anche della partecipazione al mondo futuro e dell'attesa messianica. Levinas
sceglie alcuni brani di questo capitolo, che secondo lui sono particolarmente significativi al fine di mostrare come il
messianismo sia una categoria universale dell'umano. Il commento abbozza una prima definizione della nozione di
messianismo (paragrafo I), per passare a discutere le condizioni che rendono possibile la realizzazione dell'evento
salvifico (paragrafo II) e le inevitabili contraddizioni che esso comporta (paragrafo III); si concentra poi su una
critica del cosiddetto messianismo politico (paragrafo IV) e sulle qualità della personalità messianica (paragrafo V),
per concludere con la universalizzazione di queste qualità (paragrafo VI), che definiscono l'autentica nozione di
messianismo. La concatenazione di questi argomenti, che costituisce la trama speculativa del commento levinassiano, può
risultare più chiara seguendo da vicino il contenuto dei singoli paragrafi.
Un modo per iniziare a chiarire la nozione di messianismo è partire da una tesi del giudaismo
classico: dalla distinzione tra "epoca messianica" e "mondo avvenire". La prima sarebbe limitata nella
durata e precederebbe l'epoca definitiva, che consisterebbe nel compimento di tutte le profezie, nella pienezza della
salvezza e nella conseguente fine della storia. Questa tesi, presente nella letteratura talmudica fin dai primi Targumim
e poi discussa dai maestri amorei, viene riportata in b.Sanhedrin, 99a, da Rabbi Chijja, che parla a nome del
suo maestro Rabbi Jochanan. In un primo momento essa non sembra essere in contrasto con l' opinione esposta da un altro
maestro amoreo: Shemuel. In realtà, dietro questa distinzione, la pagina talmudica commentata allude ad una discussione
di più ampia portata, che riguarda la natura della redenzione messianica, a proposito della quale le posizioni dei due
maestri divergono sensibilmente. Per Rabbi Jochanan l'era messianica è intesa come una «cerniera tra due epoche», come
una sorta di periodo intermedio che mette fine a tutte le contraddizioni politiche e sociali e apre la strada ad una
dimensione spirituale e metastorica, spostata in un futuro indefinito e chiamata "mondo avvenire". Di
quest'ultimo tuttavia si sa ben poco ( «nessun occhio lo ha visto»: Is 64,3); sembra però che non abbia nulla a che
vedere con la storia dei popoli e col loro destino, ma riguardi piuttosto la salvezza dell' individuo nella sua dimensione
personale ed interiore, ossia il rapporto diretto dell'uomo con Dio. Per Shemuel invece l' epoca messianica mette fine
solo alle violenze politiche e proprio per questo non sopprime la socialità e la solidarietà nei confronti del prossimo,
ma anzi le valorizza sensibilmente. Per Shemuel quindi i tempi messianici fanno parte integrante della storia e coincidono
col tempo in cui ciascuno mantiene una relazione con l'altro uomo (con autrui), definito (con riferimento a Es 22,
20-23 e Dt 15, Il) come il povero bisognoso di aiuto, di offerta e di dono.
Queste due concezioni divergenti della natura della redenzione messianica - la prima metastorica, la
seconda intrastorica - si ritrovano anche nella discussione successiva, che si chiede a chi i profeti hanno promesso
l'epoca messianica e a chi invece il mondo avvenire. Rispondendo a questo interrogativo Rabbi Jochanan lega l'avvicinarsi
dei tempi messianici al merito, mentre Shemuel non crede che tutto dipenda dalla perfezione morale degli uomini. Per lui
«esiste qualcosa di estraneo all'individuo morale che deve essere innanzitutto eliminato affinché avvengano i tempi
messianici»(15). Per Rabbi Jochanan tutto dipende dal comportamento morale dell'uomo, per Shemuel
invece vi è qualcosa d'altro, un ostacolo che l'uomo con le sue sole forze non può eliminare e che è rappresentato
dalla violenza politica. Occorre quindi un intervento dall'esterno che aiuti l'uomo a superare i propri limiti. Da questo
articolato sviluppo della discussione si cominciano ad intravedere due diverse nozioni di messianismo: la prima, che
considera l'epoca messianica un evento che l' agire umano può avvicinare o allontanare; la seconda, che considera
la venuta del Messia come un evento incondizionato, improvviso e gratuito, che irrompe nella storia dal di fuori,
trasformandola totalmente.
Già in questa prima parte del commento, che intende sondare la complessa nozione di messianismo, la
posizione di Levinas sembra essere sufficientemente delineata. Egli rifiuta di pensare i tempi messianici esclusivamente
in funzione del mondo avvenire, perché in questo modo essi sarebbero finalizzati alla preparazione di quest'ultimo,
diventando una mera epoca di transizione. Per definire l'autentica nozione di messianismo l'idea di mondo avvenire sembra
dunque essere del tutto irrilevante. Essa sarebbe una rappresentazione mitica dell' aldilà e corrisponderebbe ad un
ideale di vita puramente contemplativo, proprio di uno spirito disincarnato che concepisce la salvezza come fatto
personale o privato. Lasciando da parte l'idea metastorica di mondo avvenire, Levinas si schiera invece con coloro che
definiscono i caratteri dell' epoca messianica in rapporto alle esigenze degli uomini che vivono nella storia. I tratti
distintivi del tempo messianico sono infatti la fine della violenza, l'instaurazione della pace e della giustizia sociale.
Anche in questo caso viene privilegiato il piano della socialità, della relazione intersoggettiva, «della solidarietà
economica con l'altro uomo», inteso come colui che soffre ingiustamente. L'attenzione verso l'altro uomo (verso autrui,
verso il prossimo) diventa quindi l' elemento essenziale per individuare l' autentica nozione di messianismo e per
precisarne il contenuto salvifico. Definendo l'epoca messianica sulla base dell'attenzione verso l'altro uomo, Levinas
valuta positivamente l'impegno e lo sforzo morale degli uomini che operano concretamente all' interno del divenire
storico; la storia è infatti il luogo in cui si intrecciano le relazioni intersoggettive e in cui nascono i conflitti che
richiedono l'impegno morale. Di conseguenza "i giorni del Messia" si distinguono dal "mondo avvenire"
perché hanno bisogno della «fecondità del tempo» e del «valore positivo della storia»(16): non
comportano la liberazione dal tempo, ma accadono nel tempo. Il rifiuto di una visione escatologica basata su un
termine ultimo, verso cui orientare la speranza messianica o in base al quale calcolare l'attesa, non potrebbe essere più
netto e deciso.
Le due concezioni del messianismo emerse dalla precedente discussione - quella che fa dipendere
l'evento messianico dall'agire dell'uomo e quella che lo concepisce come evento incondizionato - vengono approfondite da
Levinas nel secondo paragrafo del suo commento, con riferimento a b.Sanhedrin, 97b-98a. Qui si trovano di fronte le
posizioni di Shemuel e di Rav, due maestri amorei (*) del III secolo d. C. che riprendono una precedente discussione tra due
tannaiti (**) del I secolo: Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua. Il primo sostiene che Israele sarà liberato solo se farà
penitenza(17), il secondo, citando alcuni versetti biblici appropriati, sostiene invece che Israele
sarà redento solo per una libera iniziativa di Dio anche senza fare penitenza e compiere buone azioni. Da un lato quindi
la salvezza è condizionata, dall'altro è interamente gratuita. Anche qui dunque incontriamo l'alternativa tra una
posizione quietista ed una attivista.
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(*) [Amorà - amoraim così venne chiamato, al tempo dei Tannaim in epoca
talmudica (dal III al VI sec. e.v.), il "dicitore" in aramaico della Mishna, insegnata dal Tanna in ebraico.
Divenne l'appellativo dei rabbini studiosi del Talmud, che appunto commentarono in aramaico la Mishna, dando vita al
Talmud. Il periodo di attività degli ‘amoraìm è generalmente diviso in 8 generazioni. NdR]
(**) [Tanna - Tannaim: I Tannaim sono gli studiosi della Mishna, come
gli Amoraim sono gli studiosi del Talmud.NdR]
Con argomenti simili già prima Rav aveva sostenuto una tesi analoga a quella di Rabbi Eliezer,
mentre Shemuel aveva fatto valere l'importanza del lutto e della sofferenza quali condizioni già di per se necessarie e
sufficienti per la venuta dei tempi messianici. È in questo contesto, in cui si discute del ruolo che avrebbe la
sofferenza nell' approssimarsi della redenzione, che Levinas rimanda alla celebre haggadah (*) del Messia nascosto e
sofferente che si trova alle porte di Roma, riportata in b.Sanhedrin, 98a. Si tratta di un apologo che riassume la
concezione dell'attesa messianica secondo il pensiero del giudaismo rabbinico, che aiuta a mettere a fuoco la posizione di
Levinas. Secondo la narrazione talmudica, da un lato l'attesa rimane legata ad un termine incondizionato e quindi
imprevedibile, dall' altro, l'evento salvifico si compie già ora, nella misura in cui la Torah è
ascoltata, obbedita e praticata da ogni uomo. Il celebre apologo sottolinea quindi, accanto all'imprevedibilità, la
responsabilità etica del singolo: insegna che la venuta del Messia coincide con l'osservanza delle mitzwoth (**)
ed è
parte integrante della storia e della quotidianità di ogni uomo che ascolta la voce dei comandamenti. Secondo questa
prospettiva l'idea messianica non viene più rappresentata miticamente in riferimento ad una determinata persona dotata di
poteri (o qualità) eccezionali, ma subisce una spiccata "razionalizzazione": diventa un insieme di caratteri
etici che rientrano nella più generale idea filosofica di uomo(18).
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(*) [Haggadà: Racconto, narrazione. Genere letterario che comprende i testi
narrativi della tradizione rabbinica. In particolare indica il testo che narra dell’esodo dall’Egitto e che viene
letto durante il sèder.NdR]
(**) [Mizwà (pl. mitzwot; lett. “comandamento”): Precetto contenuto nella Torà, indica anche la
buona azione. Sono 613 i precetti della Tora, di cui 248 precetti positivi, 'ase, e 365 precetti negativi, lo
ta'ase.NdR]
Tornando alla disputa tra i maestri tannaiti, Levinas sottolinea l' importanza di una risposta di
Rabbi Jehoshua quando obietta al suo interlocutore che i deboli, coloro che sono alienati e che non hanno una sufficiente
consapevolezza di se, non potrebbero preparare l' evento messianico. Quanti sostengono che la redenzione dipende
dall'impegno personale devono ammettere che ogni uomo sia libero di impegnarsi con consapevolezza; di conseguenza
l'accentuazione della responsabilità morale e dello sforzo individuale non può dimenticare la libertà. Ma proprio qui
sta il punto: se infatti «la moralità esige la libertà assoluta [ ...] la possibilità di un mondo immorale si trova
dunque inclusa tra le condizioni della moralità»(19). Di fronte a questa possibilità prende forza la
tesi di Rabbi Jehoshua che «consiste nell'affermare brutalmente che la liberazione del mondo avverrà a una data fissa,
sia che gli uomini meritino o non meritino questa liberazione»(20). Tuttavia, per Levinas, non si
tratta di scegliere tra diverse opzioni o di operare una sintesi conciliante. Piuttosto le due posizioni dei maestri
devono essere mantenute in tensione dialettica. Infatti, l'impegno morale non è altro che la risposta dell'uomo
all'iniziativa salvifica di Dio, che irrompe nella storia "dal di fuori": «l 'uomo riceve la salvezza e nello
stesso tempo ne è l'artefice»(21).
Discutendo le tesi di Rabbi Eliezer e di Rabbi Jehoshua, Levinas prende le distanze
dall'interpretazione strettamente teologica della gheulla (Redenzione ndr) e concentra la sua attenzione sugli aspetti etici. Egli
sottolinea l'importanza dell'azione morale, ma non la considera semplicisticamente come un atto che richiede una
ricompensa. Si tratta piuttosto di vedere se l' azione da sola sia in grado di tradurre in pratica l'intenzione che la
ispira, o se invece non sia destinata ad esiti immorali senza un aiuto esterno che compensa le debolezze umane. In altre
parole, seguendo la discussione tra i due maestri tannaiti, Levinas intende proporre una riflessione di portata più
generale sul ruolo dell'individuo nella storia, sull'efficacia del suo sforzo personale, senza però dimenticare l’irruzione
dell' alterità e della trascendenza.
Il terzo paragrafo esamina, in una forma molto sintetica, alcune contraddizioni del messianismo. Tra
di esse la principale sembra essere quella espressa da alcuni maestri, che preferirebbero non partecipare ai tempi
messianici, oppure non vedere affatto la venuta del Messia. Infatti tale venuta sarebbe accompagnata da catastrofi
dolorose, da sconvolgimenti violenti, da guerre e da sofferenze, che molti vorrebbero evitare(22). Di
fronte a queste preoccupazioni, dibattute in più punti del trattato talmudico commentato, Levinas si sofferma in
particolare sull'immagine del Dio di giustizia, facendo notare come anche «nell' atto giusto vi è ancora una violenza
che fa soffrire. Anche quando l' atto è ragionevole, quando l' atto è giusto, comporta una violenza»(23).
La giustizia divina, collegata alla manifestazione messianica, può apparire all'uomo violenta, ed è questa alla fine la
contraddizione paradossale dell' evento messianico a parte hominis, ovvero il vero "prezzo del
messianismo", che tuttavia occorre pagare(24).
L'idea apocalittica del giudizio finale, che nell'instaurare la giustizia non può evitare la
violenza, potrebbe portarci a concludere che il messianismo sia ormai una credenza mitica che deve essere abbandonata.
Occorre allora andare «al di là del messianismo»? Si tratta di una domanda radicale, che mette in discussione anche
tutte quelle concezioni dell'attesa messianica basate su una escatologia secolarizzata, secondo le quali il progresso
storico condurrebbe senza rotture ad incontrare "i giorni del Messia". Per Levinas invece l'avvento dei tempi
messianici non può derivare esclusivamente dallo sforzo individuale, ma necessita di un elemento imprevedibile (e di
conseguenza traumatico o "violento") che va al di là dell'impegno umano. Nel contesto della lettura talmudica
rimane sottinteso che questo evento esteriore (su cui insiste Rabbi Jehoshua nel suo linguaggio teologico appoggiandosi a
Ger 30, 67) deve essere ricondotto alla relazione intersoggettiva. Esso corrisponde all'epifania del visage d'autrui, all'irruzione
traumatica dell' alterità e della trascendenza inscritte nel volto dell' altro uomo, trattate ampiamente nelle pagine
centrali di Totalité et Infini(25). Questo evento epifanico, che irrompe da un
"altrove" separato e invisibile, non è altro che la traduzione filosofica del decalogo ebraico: l'ingiunzione
del comandamento etico a non uccidere l' altro uomo, ma a servirlo secondo giustizia.
4. Il messianismo etico torna
su
Nei primi tre paragrafi (che riprendono una relazione tenuta nel 1960 dal titolo Temps
messianiques et temps historiques dans le capitre XI du traité "Sanhédrin") Levinas ha scandagliato alcuni
aspetti che formano la complessa nozione di messianismo, cercando di mostrare come tra l' avvento dei tempi messianici e
il divenire della storia mondana non debba esserci contrasto o esclusione. Nella seconda parte del suo commento (che
corrisponde agli ultimi tre paragrafi e che riprende un testo del 1961 originariamente intitolato Le messianisme d'après
un texte talmudique), Levinas tratteggia in modo più chiaro la sua personale concezione del messianismo, collegandola
al problema filosofico della relazione intersoggettiva e accentuandone la connotazione etica.
Seguendo il dialogo tra due maestri amorei (Rav Giddel e Rav Josef), riportato in b.Sanhedrin,
98b, Levinas prende posizione nei confronti di una certa concezione politica del messianismo, con l'intento di
superarla. Essa viene considerata inautentica e deve essere sostituita da una idea di redenzione di livello superiore. Il
messianismo connotato politicamente corrisponderebbe infatti alla liberazione dal dominio straniero, ma comporterebbe
anche la fine della storia o il suo epilogo(26). Inoltre per Israele il messianismo politico è sempre
stato legato alla figura del Re Messia, ossia ad una persona che realizza la liberazione per tutti gli ebrei, secondo una
prospettiva in cui ognuno viene salvato "per delega", anziché assumendosi la propria parte di responsabilità
personale.
Proprio a questa concezione si collega il detto, apparentemente enigmatico, di Rabbi Hillel, un
tannaita che in tutto il Talmud interviene solo per sentenziare che in futuro non ci sarà più alcun Messia per
Israele, perché l' epoca messianica si sarebbe già realizzata al tempo di Ezechia re di Giuda(27).
Commentando questa tesi nettamente amessianica o scettica, Levinas osserva che la salvezza ottenuta attraverso il re non
è la salvezza suprema e cita a questo proposito il libro di Samuele, dove si narra l'opposizione del profeta alle
aspirazioni politiche del popolo (1Sam 8). Per abbozzare una concezione autentica del messianismo occorre dunque andare
"al di là" delle forme spurie basate sull'idea di una mediazione politica intrastorica, legata ad una precisa
persona dotata di poteri eccezionali. La redenzione non può avvenire delegando l'aspirazione messianica personale all'
azione di un re che realizza (hegelianamente) l'universale nella storia del mondo: l'ebraismo «non offre dunque una
dottrina della fine della storia che domina il destino individuale. La salvezza non occupa un punto estremo della storia,
la sua conclusione. Essa resta possibile in ogni momento»(28). Anche in questo caso alla
concezione obsoleta del messianismo politico Levinas contrappone la sua concezione del messianismo etico: la venuta
del Messia è possibile in ogni momento, se ogni uomo (sia egli Hilik o Bilik, Tizio o Caio) risponde all' appello del
comandamento che lo destina ad essere responsabile nei confronti del prossimo.
Questa concezione del messianismo connotata eticamente emerge con maggior chiarezza dalla
discussione intorno alla personalità del Messia e ai suoi presunti "nomi propri", che occupa I'intero paragrafo
quinto. Commentando b.Sanhedrin, 98b, Levinas si imbatte nei quattro nomi principali, le cui iniziali formerebbero
il termine ebraico mashiach: Shilo, "pacifico", ovvero «colui a cui appartiene lo scettro del comando»;
Yinon, "germoglio", «colui che fa fiorire la giustizia»; Chanina, "pietà",
"misericordia", "amore"; Menahem, "consolatore". Questi nomi, che si appoggiano ad
altrettanti versetti scritturali, definiscono la figura personale del Messia nel senso che specificano le sue qualità e
le sue funzioni sia collettive che individuali. Essi quindi ci possono aiutare a delineare la concezione autentica del
messianismo e i suoi contenuti.
Ancora una volta, facendo riferimento alla lettera del passo talmudico, Levinas sottolinea come i
primi tre nomi assomiglino ai "nomi propri" di tre maestri di altrettante autorevoli scuole rabbiniche.
L'incontro col Messia sarebbe allora da ripensare sulla base della relazione tra allievo e maestro e i contenuti della
redenzione messianica sarebbero simili agli insegnamenti orali impartiti da colui che studia e spiega la Torah(29).
La relazione asimmetrica tra l'allievo e il maestro, una delle principali configurazioni della paradossale relazione
con autrui descritta con metodo fenomenologico nelle opere filosofiche(30), viene qui richiamata
per descrivere (non solo analogicamente) l'accadere della rivelazione messianica. Il Messia dunque non sarebbe una persona
eccezionale, dotata di poteri o caratteristiche individuali sovraumane, ma il maestro che, attraverso l'insegnamento,
trasmette i valori messianici di pace, giustizia, pietà e misericordia. In questa prospettiva, basata sulla trasmissione
di un insegnamento legato allo studio della Torah, si definisce anche il contenuto del messianismo: si tratta di un
evento che coagula un insieme di valori morali e che non è legato in modo unico ed esclusivo ad una persona precisa
portatrice di quei valori.
Tuttavia, se questa prospettiva sembra propendere per una figura impersonale di Messia, il quarto
nome (Menahem, "consolatore") sembra invece mettere l' accento proprio sull' aspetto individuale e
personale della vocazione messianica. Infatti, se il Messia ha nome Menahem, lo si può identificare col «lebbroso
della scuola di Rabbi» chiamando in causa il celebre capitolo 53 di Isaia, «la cui profezia sembra ai cristiani molto
precisa»(31). Per Levinas però questo testo scritturale non annuncerebbe un Messia individuale, bensì
«una forma di esistenza la cui individuazione non si dà in un essere unico»(32).
Che cosa intenda Levinas con questa affermazione a prima vista enigmatica si chiarisce subito dopo,
laddove egli sostiene che occorre andare al di là della «nozione di un Messia mitico che si presenta alla fine della
storia, per concepire il messianismo come una vocazione personale degli uomini»(33). In perfetta
sintonia con l'apologo haggadico narrato in b.Sanhedrin, 98a, per Levinas il Messia è infatti l'uomo che soffre,
nel senso che è colui che prende su di se la sofferenza degli altri, rendendone possibile la sopravvivenza. Si tratta di
un passo decisivo per mettere a fuoco la definizione levinassiana di messianismo in relazione al contesto della pagina
talmudica in cui il Messia è chiamato Menahem, "consolatore". Attraverso una audace lettura, Levinas
interpreta il detto di Rav Nachman (un maestro amoreo che, appoggiandosi al versetto di Ger 30, 21, aveva sostenuto che il
Messia sarebbe colui che governa Israele) spogliandolo di ogni significato politico e di ogni riferimento
"particolaristico". Il detto di Rav viene tradotto nel linguaggio filosofico perché esso in realtà
tocca un problema generale: la struttura della soggettività. Attraverso questa trasposizione ermeneutica, il
Messia è colui che (kantianamente) è sovrano nei confronti di se stesso, colui che - sottostando ad un comando interiore
che non proviene dall' esterno - offre liberamente se stesso per prendere su di sé tutte le sofferenze del mondo. Nella
prospettiva levinassiana questo significa passare da una concezione solipsistica (o egoistica) della soggettività, ad una
visione etica, basata sulla responsabilità nei confronti dell'altro uomo(34). In questo senso ogni
soggettività può e deve essere messianica: «Il Messia sono lo. Essere lo è essere Messia»(35). Il
Messia è allora «colui che ha preso su di sé la sofferenza degli altri. E chi prende in fin dei conti su di sé la
sofferenza degli altri se non l' essere che dice "lo"? Il fatto di non sottrarsi al peso che impone la
sofferenza degli altri definisce l'ipseità stessa. Tutte le persone sono Messia. [ ...] Il messianismo non è altro che
questo apogeo nell' essere, che è la centralizzazione, la concentrazione o la torsione su di sé dell'lo. E questo
significa concretamente che ciascuno deve agire come se fosse il Messia. Il messianismo non è dunque la certezza della
venuta di un uomo che arresta la storia. È il mio potere di sopportare la sofferenza di tutti. È l'istante in cui
riconosco questo potere e la mia responsabilità universale»(36). Attraverso questa interpretazione il
detto di Rav Nachman, che riprendeva l'idea politica di un Re Messia nato dal popolo e chiamato a governare Israele, viene
tradotto e universalizzato dal filosofo Levinas nell'idea della responsabilità etica che ogni uomo deve assumersi nei
confronti dell' altro uomo, indipendentemente dalle particolari convinzioni religiose o dalla appartenenza a specifici
contesti etnici e storici.
Questa concezione universalistica del messianismo viene difesa nel paragrafo conclusivo del commento, che si sofferma su b.Sanhedrin,
98b-99a. Facendo riferimento al detto di Rabbi Simlai, un altro maestro amoreo che (citando Am 5, 18) identifica il
giorno del Messia col «giorno delle tenebre», Levinas rifiuta ogni interpretazione apocalittica di questo accostamento e
polemizza con una certa concezione "idilliaca" del messianismo, legata al sogno di un perdono universale. Per
lui invece la metafora delle "tenebre" deve rimanere legata al giorno della redenzione messianica: essa allude
alla severità del giudizio che instaura la giustizia, Ma l'interpretazione levinassiana si chiede anche se la
contrapposizione tra luce e tenebre non accenni al fatto che vi sono persone incapaci di ricevere la luce della redenzione
messianica. È questo il senso della curiosa parabola del gallo e del pipistrello; essa insegna che «il Messia viene solo
per colui che attende» e che «non esiste una liberazione oggetti»(37). Non c’è quindi alcun Messia
per coloro che non sono capaci di cercare la luce, ossia per coloro che non sono pronti, che non lo attendono o che non
credono alla sua venuta(38).
Nel contesto della stessa pagina talmudica anche il secco scambio di battute tra Rabbi Abbahu e un
miscredente (o un sadduceo) - in cui ritorna ancora la contrapposizione figurata tra luce e tenebre - non viene letto
accentuando (o limitando) in senso "particolaristico" il privilegio messianico di Israele. Anche in questo caso,
con una lettura audace, che scava a fondo nel significato del testo e lo sollecita verso una originale interpretazione,
Levinas non intende la parola "Israele" in senso etnico o nazionalista. Sulla base di questa lettura radicale e
innovativa, le parole di Rabbi Abbahu annuncerebbero in realtà il carattere universale dell' evento messianico. E
questo «significa prima di tutto che Israele non misura la sua morale sulla politica, ma che la sua universalità è il
messianismo stesso»(39). Certamente la sensibilità messianica rimane inseparabile dalla coscienza di
una "elezione", ma quest'ultima deve essere tradotta in un linguaggio universale, trasponendola nella struttura
generale della soggettività e non limitandola all'interno dell'orizzonte particolare della storia ebraica. Ancora una
volta, proponendo il suo particolarismo universalista all'interno della storia, Levinas ribadisce la propria distanza
dalla concezione politica del messianismo che, pur promettendo una liberazione intrastorica, in realtà deresponsabilizza
l'individuo e comporta la fine dell' etica. Parlare di universalità significa invece chiamare in causa la responsabilità
del singolo nei confronti dell'altro uomo e proprio per questo Levinas può affermare, al di là del semplice nesso
etimologico, che «la vera universalità [ ...] consiste nel salvare l'universo»(40). È questa universalità
che caratterizza l'autentica nozione di messianismo e che definisce il suo contenuto salvifico.
La traduzione filosofica del contesto e delle espressioni linguistiche, con le quali i maestri della
tradizione talmudica discutono dell' attesa messianica, porta Levinas a concepire il messianismo, prima ancora che come un
tratto "particolare" del popolo ebraico e della sua storia, come una struttura universale della
"soggettività" o dell'umano in generale, che consiste nell' assunzione di responsabilità nei confronti del
prossimo. Ogni uomo deve essere Messia se vuole essere pienamente uomo. E può esserlo ogni volta che
ascolta la voce del comandamento etico e religioso che lo destina a servire l'altro uomo: che lo «destina a servire
l'universo» e ad instaurare la giustizia. La riproposizione dell'idea messianica, tentata da Levinas nell'epoca
dell'assimilazione e dell' emancipazione del popolo ebraico, non guarda quindi ad un mondo futuro al di là della storia e
del tempo, né si concentra sull' attesa di una persona unica ed eccezionale in grado di liberare questo mondo. La
speranza messianica invece può e deve realizzarsi nel presente dal momento che l' ebreo moderno accetta e riconosce il
corso storico, partecipandovi attivamente. Questo però comporta una necessaria ridefinizione dell' attesa messianica, in
modo che essa non finisca per risultare compromessa dalla partecipazione degli ebrei alla storia mondiale. Nell'epoca
dell'emancipazione e dell'assimilazione il messianismo risulta proponibile e praticabile soltanto se assume un severo
contenuto etico e una apertura (o una dilatazione) universale: se equivale al compito di realizzare la giustizia nella
storia, un compito che ogni uomo deve assolvere responsabilmente in prima persona.
In una pagina del trattato talmudico b. Taanit un Rabbi afferma che il giorno della pioggia
è più grande del giorno della resurrezione dei morti, poiché quest'ultimo riguarda soltanto i giusti, mentre della
caduta della pioggia beneficerebbero sia i giusti che gli ingiusti. Con questo paragone il pensiero rabbinico, parlando di
un evento meteorologico apparentemente banale, pone al centro il tema della giustizia. La caduta della pioggia dal cielo
viene messa in relazione con l'evento messianico che instaura la giustizia sulla terra. Il detto talmudico insegna quindi
che l'aspirazione ad una società giusta e la realizzazione della giustizia, al di là di ogni merito individuale e di
ogni retribuzione, sono valori universali che si estendono a tutti gli uomini. «È forse questo atteggiamento spirituale
- commenta Levinas - che possiamo chiamare messianismo ebraico»(41).
1. Il termine ebraico mashiach (da cui deriva la
parola greca Messias) significa propriamente "unto" e ricorre nell ' Antico Testamento come attributo della
maggior parte dei re di Israele o di Giuda (ha-melekh ha-mashiach, "il re unto"), presso i quali
l'unzione equivaleva aII'intronizzazione (cfr. ad esempio l'unzione di Davide, narrata in 1Sam 16, 3-12). Successivamente mashiach
viene riferito anche ai sacerdoti, ai patriarchi e ad alcuni profeti, intendendo l'unzione come consacrazione.
Soltanto a partire dall' epoca postesilica, e poi nel tardo giudaismo, il termine mashiach assume un significato
escatologico e viene ad indicare una personalità investita di una missione divina, chiamata a realizzare una promessa di
liberazione o di salvezza.
2. Si tratta nell'insieme di 26 «lectures, commentaires et discours talmudiques», la redazione dei quali si estende per
un arco di tempo che va dal 1960 al 1989. Per l'elenco completo di questi scritti in ordine cronologico e per le
indicazioni delle relative traduzioni italiane rimandiamo al nostro volume L 'ermeneutica tra Heidegger e Levinas, Morcelliana,
Brescia 2001, pp. 260-264.
3. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l'exteriorité, Nijhoff, La Haye 1961 [Totalità e Infinito.
Saggio sull'esteriorità, tr. it. di A. Dell' Asta, Jaca Book, Milano 1980).
4. Id., Totalità e Infinito, cit., pp. 295 ss. Il nesso tra la struttura escatologica del tempo e l'attesa
messianica viene preparato dalle analisi sviluppate in quest'opera alle pp. 225-253, dedicate a «la relazione etica e il
tempo». Si tratta di un tema già accennato precedentemente in E. Levinas, Dall'esistenza all'esistente, tr. it.
di P. Sossi, Marietti, Casale Monf. 1986, p. 83, in cui viene sviluppata una critica della continuità temporale facendo
riferimento all'irruzione del Messia, inteso come figura di rottura che rimanda all'alterità e alla trascendenza. Per
un approfondimento di questi aspetti, collegati alla concezione del tempo diacronico, ci sia consentito di rimandare
ancora al nostro volume L' ermeneutica tra Heidegger e Levinas, cit., pp. 197-229, (spec. pp. 212-218).
5. E. Levinas, Quattro letture talmudiche, tr. it. di A. Moscato, Il melangolo, Genova 1982, p. 26.
6. Il termine midrash deriva dal verbo darash, "cercare", "domandare",
"interrogare"; secondo la definizione di Esd 7, 10, indica il «rivolgersi alla Scrittura, per cercarvi la
risposta di Dio». Per un approfondimento rimandiamo al volume di G. Stemberger, Il Midrash. Uso rabbinico della
Bibbia, tr. it. di R. Fabbri, Dehoniane, Bologna 1992, (spec. pp. 25-32). Per l'importanza del commento nella
tradizione ebraica, quale fomla privilegiata dell'esegesi scritturale, si veda il saggio di G. Scholem, Rivelazione e
tradizione come categorie religiose dell'ebraismo, in Id., Concetti fondamentali dell'ebraismo, tr. it. di M.
Bertaggia, Marietti, Genova 1986, pp. 75-104.
7. E. Levinas, Quattro letture talmudiche, cit., p. 15.
8. Ivi, p. 35.
9. Ivi, p. 27.
10. Ibidem.
11. Id., Textes messianiques, in Difficile liberté. Essais sur le judaisme, Albin Michel, Paris 19833,
p. 94 [Il messianismo, tr. it. in questo volume, infra, p. 66].
12. Id., Nouvelles lectures talmudiques, Editions de Minuit, Paris 1996, p. 96.
13. Per la trattazione di questi aspetti relativi all'ermeneutica rimandiamo al fondamentale saggio di E. Levinas, Sulla
lettura ebraica delle Scritture, in Id., L' aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, tr. it. di G.
Lissa, Guida, Napoli 1986, pp. 179-196.
14. A questo proposito Levinas prende esplicitamente le distanze da G. Scholem, Per la comprensione dell'idea
messianica ne[['ebraismo, in Id., Concetti fondamentali de[['ebraismo, cit., pp. 105-147, che invece aveva
valorizzato le concezioni popolari (e personali) del Messia, diffuse soprattutto nelle correnti della mistica ebraica.
15. E. Levinas, Textes messianiques, cit., p. 90 [Il messianismo, tr. it. in questo volume, infra, p.
60].
16. Ivi, p. 94 [tr. it. cit., infra, p. 65].
17. Qui Levinas si trova ad affrontare il tema della teshuva {"pentimento" o "ritorno"), intesa
come via che può affrettare l'avvento della redenzione messianica, facendola giungere prima della data prefissata. Questo
argomento viene discusso in b.Sanhedrin, 97b-98a, e la sua base scritturale è data da Dt 30, 2; Sal 97, 7; Is
21,11-12. Non si tratta di intraprendere alcuna azione o impresa straordinaria, ma semplicemente di pentirsi per i propri
errori, impegnandosi a migliorare il proprio comportamento attraverso l’ azione. La tradizione rabbinica indica anche
altri precetti (mitzwoth) che contribuiscono ad avvicinare la venuta del Messia. In relazione alla prospettiva
levinassiana particolarmente importanti sono lo studio della Torah, la pratica della giustizia e della carità (la tzedaqa)
verso il povero e verso il bisognoso (ossia verso l’“altro uomo”).
18. Una analoga interpretazione del celebre apologo era già stata proposta da H. Cohen, L 'idea di messia, in Id.,
La fede di Israele è la speranza. Interventi sulle questioni ebraiche (1880-1916), a cura di P. Fiorato, La
Giuntina, Firenze 2000, p. 79. Cohen sostiene che nella pagina talmudica in questione l'idea messianica è presentata in
termini etici e questo confermerebbe che la virtù sarebbe il contenuto specifico della religione ebraica.
19. E. Levinas, Textes messianiques, cit., p. 105 [Il messianismo, tr. it. in questo volume, infra, p.
83].
20. Ibidem [tr. it. cit., ibidem].
21. Ivi, p. 98 [ tr. it. cit., infra, p. 71 ].
22. Riprendendo un filone dell ' apocalittica, nella letteratura rabbinica i tempi che precedono la venuta del Messia
vengono spesso descritti con tratti particolarmente preoccupanti (quali disgrazie, eventi nefasti, carestie e guerre).
Questi segni premonitori sono ricondotti alle cosiddette "doglie del Messia" (chevle Mashiach), cui si
accenna in b.Sanhedrin, 98b: «Cosa può fare una persona per evitare le doglie del Messia? Si occupi di Torah e
di atti di carità». Applicando anche qui il principio di universalizzazione, Levinas affronta questo tema collegandolo a
quello più generale del giudizio e della giustizia.
23. E. Levinas, Textes messianiques, cit., p. 108 [n messianismo, tr. it. in questo volume, infra, p.
87].
24. Anche su questo punto la posizione di Levinas si differenzia nettamente da quella di Scholem. Parlando del
"prezzo del messianismo", questi aveva messo l'accento sui costi che il popolo ebraico ha dovuto pagare ogni
volta che ha tentato di realizzare nella storia la speranza messianica: cfr. G. Scholem, Per la comprensione dell'idea
messianica nell'ebraismo, cit., p. 147. Per Levinas invece questi costi ( «la violenza che fa soffrire» ) sono
necessari e devono essere accettati quali inevitabili "contraddizioni" del messianismo stesso.
25. E. Levinas, Totalità e Infinito, cit., p. 220: «La presenza dell'altro che viene dall'altro mondo, ma mi
impegna nella fratemità umana [ ...] si presenta di primo acchito come assoluto. [ ...] Altri, che mi domina e mi giudica
nella sua trascendenza, è anche lo straniero, la vedova e l' orfano verso cui ho degli obblighi».
26. Secondo Levinas in questa visione politica del messianismo rientrerebbe anche la posizione di Maimonide, alla quale
accenna di sfuggita senza discuterla: cfr. E. Levinas, Textes messianiques, cit., pp. 83n. e 86 [Il messianismo,
tr. it. in questo volume, infra, pp. 50n. e 53].
27. Ivi, p. 111 [tr. it. cit., infra, p. 91 ].
28. Ivi, p. 114 [tr. it. cit., infra, p. 95]. Nella discussione, seguita all'esposizione della sua lettura
talmudica, Levinas precisa che egli non intende svalutare la dimensione politica tout court, ma rifiutarla soltanto
quando essa mette da parte I' azione morale. La critica al messianismo politico viene ripresa anche nel saggio Lo Stato
di Cesare e lo Stato di Davide, in E. Levinas, L'aldilà del versetto, cit., p. 274 s. Anche in queste pagine
(che risalgono al 1971) Levinas cita b.Sanhedrin, 99a, e commenta il detto di Rabbi Hillel, sottolineando come la
liberazione messianica «non rientri sotto l'idea di regalità». L'autentica concezione del messianismo deve quindi
essere separata dal riferimento alla figura del Re Messia e non deve avere nulla a che vedere con la liberazione politica
di uno Stato particolare. In questo caso, infatti, sarebbero salvati ad opera del re solo gli appartenenti a quello Stato
e ciascun uomo non sarebbe più responsabile ne della propria salvezza ne di quella di tutti gli altri.
29. E. Levinas, Textes messianiques, cit., pp. 116 [Il messianismo, tr. it. in questo volume, infra, p.
98].
30. Questo tema è affrontato in E. Levinas, Totalità e Infinito, cit., pp. 98-100, dove la relazione
intersoggettiva viene descritta a partire dal fenomeno dell'insegnamento, sottolineando l'asimmetria tra allievo e maestro
e soprattutto «l'esteriorità del Maestro».
31. Id., Textes messianiques, cit., p. 118 [Ilmessianismo, tr. it. in questo volume, infra, p. 102].
32. Ibidem [tr. it. cit., ibidem].
33. Ibidem [tr. it. cit., ibidem].
34. E. Levinas, Totalità e Infinito, cit., p. 251: «Dire "io" [ ...] significa possedere un posto
privilegiato rispetto alle responsabilità nelle quali nessuno mi può sostituire e dalle quali nessuno mi può liberare.
Non potersi sottrarre: ecco l'io».
35. Id., Textes messianiques, cit., p. 120 [Il messianismo, tr. it. in questo volume, infra, p. 105].
36. Ibidem [tr. it. cit., ibidem].
37. Ivi, p, 123 [tr. it. cit., infra, p. 109]
38. In questa interpretazione sembrerebbe riecheggiare l' obbligo halakico nei confronti dell'attesa messianica, inserito
nella preghiera delle diciotto benedizioni e codificato anche da Maimonide nel suo Mishneh Torah. Questi infatti
afferma che chiunque non crede nel Messia o non attende la sua venuta si pone in contrasto non solo con le affermazioni
dei profeti (cfr. ad esempio Is 60, 22), ma anche con tutti gli insegnamenti della Torah nel loro insieme: The
Code or Maimonides, libro XIV, tr. inglese a cura di A.M. Hershman, Yale University Press, New Haven 1949, Capitolo XI,
p. 238.
39. E. Levinas, Textes messianiques, cit., p. 127 [il messianismo, tr. it. in questo volume, infra, p.
115]. Per Levinas l'evento messianico non ha nulla a che vedere con la politica anche nel senso che non deve essere
condiviso da tutti come «una legge in uno Stato moderno», che è sintesi o accordo di molteplici opinioni
"particolari".
40. Ivi, p. 126 [tr. it.cit., infra, p. 114].
41. E. Levinas, Une religion d'adultes, in Id., Difficile liberté, cit., p. 38, in cui è presente il
riferimento a b.Taanit, 7a-7b. Questo saggio è particolarmente illuminante per comprendere come le riflessioni sul
messianismo siano strettamente collegate alla fondamentale ispirazione etica e religiosa del pensiero levinassiano.
Accenni espliciti alla concezione universalistica del messianismo si trovano anche in altre due letture talmudiche
posteriori: Chi gioca per ultimo? (1979), in E. Levinas, Al di là del versetto, cit., pp. 125-140 (spec. p.
139 s.), e Le Nazioni e la presenza di Israele (1987), in Id., Nell'ora delle Nazioni. Letture talmudiche e
scritti filosofico-politici, tr. it. di S. Facioni, Jaca Book 2000, pp. 105-122.
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