27 gennaio
2006
PERCHÈ NON ACCADA PIÙ
di Giorgio Gomel
[Dalla bella rivista di vita e cultura
ebraica "Keshet", n. 2-3, maggio-giugno 2002 (disponibile anche
nel sito: www.keshet.it), riprendiamo il seguente testo. Giorgio Gomel,
economista e saggista, é cofondatore del gruppo "Martin Buber -
ebrei per la pace"]
È importante dal punto di
vista esistenziale, umano, che nel celebrare la Giornata della Memoria e nel
discutere del suo significato partecipino all’incontro organizzato dal
Centro di cultura ebraica di Roma generazioni di persone coeve alla Shoah,
altri, come me, nati immediatamente dopo, e altri assai più giovani. Dirò
prima qualcosa sul concetto di "memoria" così come io lo
interpreto e sulla differenza fra "memoria" e "storia".
La distinzione, a mio avviso, é semplice: la "memoria" é memoria
di un unico evento ed é qualcosa di soggettivo, mentre la
"storia" ambisce a ricostruire il contesto, a guardare ai fenomeni
in maniera più oggettiva, al di là dell’esperienza del singolo. A oltre
cinquant’anni dalla Shoah, dalla liberazione, con il trascorrere
del tempo e con la scomparsa dei testimoni diretti, dei deportati, dei
sopravvissuti, il problema di come conservare e trasmettere la memoria resta
una questione di importanza capitale. Da un lato perché questa memoria con
il tempo si disincarna nel racconto impersonale della storia, diventa
appunto "storia". E dall’altro perché le singole vicende degli
individui pur nella loro unicità possono in qualche modo essere rivissute
nel racconto, nella narrazione.
Il racconto, l’esperienza individuale possono essere uno degli strumenti
più efficaci di conservazione e trasmissione della memoria. Pensiamo alla
letteratura, alla narrativa in questi anni: é molto positivo che ci sia un
proliferare, da Primo Levi in avanti, anche in Italia, di libri e
testimonianze di autori italiani o più spesso tradotti da altre lingue, da
Aldo Zargani (1) a Saul Friedlaender (2), da Janina Bauman (3) a Simha
Guterman (4). La vitalità di questa produzione letteraria va in senso
contrario alle tesi che ritengono che la Shoah in quanto male assoluto sia
qualcosa di indicibile, di irrappresentabile.
Vi é poi l’esigenza di comprendere storicamente la Shoah. Il tema
é molto complesso, appartiene agli storici. La lettura ottimista, in cui
fondamentalmente mi ritrovo, é quella di Elie Wiesel, quando in uno dei
suoi scritti dice che la Shoah é una sfida alla comprensione umana,
ma che, assimilando la lezione di quell’orrore, l’umanità può sperare
di non ricadervi. Quindi c’é in un certo senso una pedagogia, un impegno
educativo, che ne scaturisce. Qualche anno fa é uscita in Italia una
collana dal titolo "Insegnare Auschwitz", ispirata dall’idea
delle lezioni da trarre, ricordando, interpretando, approfondendo quell’orrore,
al fine di trovare i modi per cui l’umanità non vi ricada.
Ritengo che i due canali fondamentali per trasmettere la memoria, in una
società che con difficoltà ricorda, che tende a rimuovere e banalizzare il
male, siano da un lato la narrazione, il racconto individuale, dall’altro
il confronto con il presente. Quest’ultimo é molto importante per le
generazioni più giovani, per offrire loro il senso concreto di un legame
tra la vicenda dello sterminio nazista e situazioni di violenza, di offesa
ai diritti umani, di eccidi di massa che accadono oggi, pur con tutte le
differenze con la Shoah.
Che cosa ci insegna la Shoah e a quali fini é importante oggi
conservare e trasmettere la memoria, in particolare per noi ebrei? La prima
lezione é che la Shoah é stata davvero una catastrofe per il popolo
ebraico. La distruzione sistematica degli ebrei d’Europa, organizzata con
gli strumenti della macchina industriale-tecnologica, ha annientato circa un
terzo degli ebrei del mondo, circa la metà degli ebrei europei, ma
soprattutto, al di là dei sei milioni di ebrei assassinati, ha distrutto
una civiltà, quella dell’ebraismo centro ed est-europeo. Ha distrutto la
"nazione" ebraica in Polonia, Lituania, Slovacchia, Romania,
Ungheria, Ucraina - una quasi nazione per comunanza di territorio, di
lingua, di storia, pur frammentata in molteplici comunità, divisa in più
Stati e in condizioni di minoranza oppressa e perseguitata. L’ebraismo
oggi nel mondo é altra cosa da quello degli anni Venti o Trenta del secolo
scorso: esso é essenzialmente Israele da una parte e l’ebraismo americano
e occidentale dall’altra. Israele é uno Stato indipendente dove gli ebrei
in quanto maggioranza esercitano il potere di governo e ricercano la
normalità della pace e della sicurezza, "come le altre nazioni".
Il resto é l’ebraismo occidentale, in America in primis, e in Europa
occidentale - società pluraliste, multiculturali in cui la dimensione
religiosa si va attenuando, l’appartenenza religiosa non é più l’elemento
determinante del vivere individuale e collettivo, l’identità ebraica si
affievolisce.
La seconda lezione é il fatto che lo sterminio nazista é avvenuto nell’Europa
cristiana, istigato e organizzato da un regime che godeva del consenso di
larga parte della nazione più civile e più istruita dell’Europa. Ciò ci
riporta a Hannah Arendt, alla sua visione del totalitarismo e delle sue
degenerazioni - un sistema politico in cui l’individuo-massa é gregario,
obbediente all’autorità. Di qui la "banalità del male" della
Arendt, in cui l’individuo é granello inerte e servile della macchina
burocratico-totalitaria dello sterminio. La sconfitta del nazismo e dell’orrore
dei campi di sterminio non hanno impedito il ripetersi negli ultimi cinquant’anni
di genocidi e stragi di massa, pure in circostanze nettamente differenti
dalla Shoah, anche nel cuore dell’Europa, sotto la spinta di
ideologie aberranti. L’impegno a cui siamo chiamati é quindi quello di
rimuovere le condizioni che hanno reso nuovamente possibili tali orrori. Gli
strumenti stanno nella difesa della democrazia, nella tutela dei diritti
umani, nel ripudio dello sciovinismo e del razzismo. La terza lezione
riguarda il modo in cui noi ebrei dobbiamo agire a fronte dell’antisemitismo.
Sartre asseriva che l’antisemitismo non é un problema degli ebrei bensì
degli antisemiti. Ma occorre ricordare che sono gli ebrei che soffrono da
anni, da generazioni, le conseguenze dell’antisemitismo.
L’antisemitismo é, tuttavia, anche l’indice di un malessere della
società, dei pericoli per la democrazia, dell’affermarsi di fenomeni di
intolleranza. È importante ricordare che lottare contro l’antisemitismo
non é un favore che la società fa agli ebrei, ma un dovere verso se
stessa, se vuole restare un luogo di convivenza democratica. L’ostilità
verso lo straniero e il diverso, la passività verso rigurgiti di razzismo
sono sintomi del degrado del vivere civile cui bisogna opporsi perché il
silenzio, l’indifferenza, rischiano di dare agli imitatori odierni del
nazismo vigore, insolenza, senso di impunità.
In questo qual é il compito specifico di noi ebrei? Il primo é quello di
diffondere la cultura ebraica come antidoto all’intolleranza e al
pregiudizio che di ignoranza si nutre. Non basterà certamente questo, ma é
una condizione necessaria. Ed esaltare anche il senso positivo della
"doppia appartenenza". L’essere ebrei e italiani, con il
trattino (ebrei-italiani o ebrei-americani o ebrei-francesi), l’affermare
un’identità plurale, vanno vissuti come un qualcosa di positivo, di
benefico, di arricchente per la società. Il secondo dovere di noi ebrei é
quello di testimoniare la memoria, così come intende fare la Giornata della
Memoria di recente istituita, in ambiente anche non ebraico, pubblico.
Il terzo dovere é di non autoghettizzarci, di non cedere qualche volta al
vittimismo dell’isolamento, del sentirsi dispersi, disancorati dal resto
della società, quasi fossimo gli unici a lottare contro il male dell’antisemitismo;
é quindi importante saperci collegare con altre forze nella tutela della
diversità, dei diritti delle minoranze. L’ultimo punto che voglio
trattare sugli insegnamenti della Shoah, é che vi é un interesse
particolare di noi ebrei a lottare contro la discriminazione in generale. Vi
é un interesse oggettivo che si connette con la nostra condizione
esistenziale, con la nostra storia di popolo, giacché molte volte nella
storia forme di razzismo o di sciovinismo si sono poi riflesse nell’odio
antiebraico. Vi é quindi un interesse oggettivo degli ebrei a lottare
contro forme di discriminazione quand’anche esse non colpiscano
direttamente o immediatamente gli ebrei, a vivere in società che siano
multiculturali, in cui le differenti identità siano rispettate, legittimate
a convivere, viste come un beneficio per tutti. Ma c’é poi un qualcosa di
soggettivo, un dovere di noi ebrei in quanto portatori della memoria di
essere particolarmente sensibili a fenomeni di intolleranza e
discriminazione al di fuori di noi, di essere solidali con i deboli per la
nostra stessa esperienza storica di profughi.
Le navi cariche di curdi e albanesi che arrivano sulle nostre sponde non
evocano forse assonanze emotive con la nostra storia? Come non ricordare le
navi dei sopravvissuti alla Shoah che nel ’46-’47 cercavano di
varcare il Mediterraneo per andare in Palestina e venivano poi respinti o
internati dagli inglesi? Oppure, prima della seconda guerra mondiale, gli
ebrei che cercavano di fuggire nel resto dell’Europa, in Svizzera, Spagna,
Francia o negli Stati Uniti ? C’é un libro dal titolo La barca é piena
che racconta la storia della fuga disperata degli ebrei verso la Svizzera:
"la barca é piena" - dicono le autorità elvetiche - il Paese é
troppo pieno, non si possono accogliere altri profughi.
Osserva A. B. Yehoshua: "Noi, in quanto vittime del microbo nazista,
dobbiamo essere portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda da cui
ogni popolo può essere affetto e in quanto portatori di anticorpi dobbiamo
innanzitutto curare il rapporto con noi stessi. Poiché dietro di noi c’é
una sofferenza così terribile, potremmo essere indifferenti a ogni
sofferenza meno violenta della nostra. Chi ha molto sofferto può non
rendersi conto del dolore degli altri, e questo é un comportamento del
tutto naturale. Come alfieri dell’antinazismo dobbiamo acuire la nostra
sensibilità e non diminuirla. Perché dobbiamo ricordarci che il fatto di
essere stati vittime non é sufficiente per conferirci uno status morale. La
vittima non diventa morale in quanto vittima. L’Olocausto al di là delle
azioni turpi nei nostri confronti non ci ha dato un diploma di eterna
rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma non ha reso morali le
vittime. Per essere morale, bisogna compiere degli atti morali e per questo
affrontiamo degli esami quotidiani" (5).
Nel guardarci dentro nel rapporto con gli altri, dovremmo comprendere che
non seguiamo gli insegnamenti profondi di Yehoshua. Nel rapporto con i
palestinesi, la cecità di molti ebrei israeliani, ma anche di noi stessi
ebrei diasporici, rispetto alle scelte politiche sbagliate di Israele, alle
violazioni dei diritti umani, riflette l’istinto a negare la verità
quando essa é dolorosa. Tutto ciò trova un substrato psicologico nel fatto
di essere stati come ebrei perseguitati e di sopportare sulle nostre spalle
il carico della persecuzione. Questo ci dà inconsapevolmente un senso di
"immunità", di superiorità morale che si traduce in mancanza
autistica di comprensione e di compassione per le sofferenze degli altri. La
moralità va conquistata invece sul campo ogni giorno con azioni concrete;
essa non é un attributo naturale che viene dall’essere vittime o eredi di
vittime.
Questo mi conduce a un ultimo punto che lascio alle riflessioni dei lettori.
Mi é stato suggerito dalla lettura di un libro straordinario di Tom Segev,
giornalista israeliano di "HaAretz" (6). Il libro prende le mosse
dagli anni Venti, discutendo come il movimento sionista si atteggiasse nei
confronti dell’antisemitismo nazista, come esso abbia vissuto l’inizio
delle deportazioni, la Shoah; poi il rapporto con i profughi che
immigravano in Palestina dopo la guerra, la commemorazione della Shoah
in Israele, la nascita di Yad Vashem, e così via. Secondo Segev, la memoria
é diventata una specie di religione civile in Israele, con un suo rituale
codificato; essa é un elemento di coesione e di definizione dell’identità
collettiva del paese.
Israele é lo Stato degli ebrei profughi e perseguitati, il luogo di rifugio
e di riscatto dopo gli orrori della Shoah. Storicamente, questo é
probabilmente vero, fino al punto che forse Israele non sarebbe nato senza
la Shoah, ma la memoria della Shoah come elemento di coesione
e di identità é un fenomeno abbastanza recente, sviluppatosi
essenzialmente negli anni Sessanta-Settanta, in particolare dopo la guerra
dei sei giorni e accentuatosi negli anni Ottanta, con l’affermarsi di
posizioni nazionaliste e antiarabe. Della memoria si é fatto da parte di
alcuni anche un uso politico strumentale. Nel conflitto con gli arabi e con
i palestinesi é diventato conveniente equiparare gli avversari di oggi ai
nazisti di ieri, considerare Arafat novello Hitler. "L’eredità dell’Olocausto,
così come é insegnata nelle scuole e alimentata nelle cerimonie ufficiali
di commemorazione, spesso incoraggia lo sciovinismo degli israeliani e l’opinione
che lo sterminio nazista degli ebrei giustifichi ogni atto che contribuisca
alla sicurezza di Israele, inclusa l’oppressione della popolazione nei
territori occupati da Israele nella guerra dei sei giorni" (7).
Ironicamente, negli anni precedenti la Shoah era al contrario
qualcosa da espungere dalla memoria collettiva di Israele perché l’israeliano
si autorappresentava come l’uomo nuovo, il sionista, il halutz, del tutto
diverso nel suo ethos dall’ebreo della diaspora, visto come anormale,
vinto dalla storia e destinato a sparire. La stessa memoria era qualcosa da
eliminare.
Anche per gli ebrei diasporici la Shoah ha costituito un elemento di
coesione e di identità comunitaria assai forte. Per molti ebrei non
osservanti, la dualità fra memoria della Shoah e Stato di Israele é stata
l’elemento fondante della propria identità ebraica. Con l’attenuarsi
fatale del ricordo, con la distanza storica rispetto al genocidio nazista e
alla nascita di Israele come luogo di riscatto e di salvezza per il popolo
ebraico perseguitato questo elemento é destinato ad affievolirsi. Rammento
qui le parole del direttore dell’Istituto di storia della scienza e delle
idee dell’Università di Tel Aviv, Yehuda Elkana, egli stesso un
sopravvissuto alla Shoah. La sua é una risposta radicale, che pone
dubbi, interrogativi. Il titolo dell’articolo che suscitò all’epoca
grande fermento in Israele é "Dimenticare" (8). "Per noi
stessi non vedo un compito educativo più grande che impegnarci nel
costruire il nostro futuro in questa terra senza sbandierare ogni giorno i
simboli orrendi, le cerimonie strazianti e le lezioni deprimenti della Shoah.
L’elemento politico e sociale più profondo che motiva la maggior parte
della società israeliana nel suo rapporto con i palestinesi é un’angoscia
esistenziale, alimentata da un’interpretazione particolare della lezione
della Shoah e dalla predisposizione a ritenere che tutto il mondo sia
contro di noi, che noi siamo le vittime eterne. In questa antica credenza,
condivisa da molti di noi in Israele oggi, io vedo la vittoria tragica e
paradossale di HitIer.
Due nazioni, parlando metaforicamente, sono emerse dalle ceneri di Auschwitz:
una minoranza che dice che ciò non deve accadere mai più, e una
maggioranza spaventata ed ossessionata che dice: ’questo non deve accadere
mai più a noi. Se queste sono le due uniche possibili lezioni, io sono
molto più vicino alla prima. Vedo la seconda come catastrofica. La storia,
la memoria collettiva sono certamente una parte inseparabile di ogni
cultura, ma il passato non deve diventare l’elemento determinante del
futuro di una società e del destino di un popolo".
Ritengo anch’io con Elkana che la prima lezione sia quella fondamentale da
trarre dall’esperienza della Shoah e che essa contenga in sé la
finalità essenziale del ricordare, un ricordare - come ho cercato di
argomentare nelle pagine precedenti - consapevole, non angoscioso né
ossessivo.
_______________________
Note
1. Aldo Zargani, Per violino solo, Il Mulino, Bologna 1995.
2. Saul Friedlaender, A poco a poco il ricordo, Einaudi, Torino 1990.
3. Janina Bauman, Inverno nel mattino. Una ragazza nel ghetto di Varsavia,
Il Mulino, Bologna, 1994.
4. Simha Guterman, Il libro ritrovato, Einaudi, Torino 1994.
5. Abraham B. Yehoshua, Elogio della normalità, La Giuntina, Firenze 1991.
6. Tom Segev, Il settimo milione, Mondadori, Milano 2001.
7. Tom Segev, op.cit.
8. "HaAretz", 16 marzo 1988.