angolo
   

Un nuovo libro su Giovanni Palatucci
Paolo Luigi Rodari in il Riformista 21.6.07

Chi è Giuseppe Veneroso? Il nome ai più non dice nulla. Eppure, se si legge con attenzione il lavoro di Angelo Picariello dedicato al penultimo questore di Fiume di cui è oggi in corso la causa di canonizzazione - “Capuozzo accontenta questo ragazzo. La vita di Giovanni Palatucci”. San Paolo, 304 pagine, 16 euro - è lui uno dei principali testimoni viventi capaci di raccontare come, davvero, «almeno cinquemila» (ma altri tremila ne attesta l’agente di polizia Alberino Palombo e altre migliaia potrebbero essere passati sfuggendo a ogni controllo) sono stati gli ebrei salvati da Palatucci prima dell’armistizio del settembre del 1943, gli ebrei cioè fatti passare al confine e provenienti dalla Serbia governata dagli ustascia filo nazisti, o dall’Est europeo: in sostanza il cosiddetto canale fiumano.

Giuseppe Veneroso, che oggi vive a Prato ma è originario di Pisciotta, nel Salernitano, attesta infatti l’esistenza di ben cinquemila passaporti falsi gestiti segretamente (in soli due anni) per conto di Palatucci, insieme ad altri due giovani colleghi deceduti, con lui in servizio alla frontiera di Buccari.

Veneroso ha oggi ottantacinque anni e vive a Prato. È originario di Pisciotta, nel salernitano, non lontano da Campagna, dov’era vescovo al tempo lo zio di Palatucci: «Infatti - racconta Veneroso - quelli che accompagnavano questi ebrei al confine di Stato, sentendo da dove provenivo, spesso dicevano: “Questi vanno dalle parti tue”». Alcuni erano destinati ai campi di internamento italiani dove, soprattutto in quello gestito dallo zio vescovo, il commissario li considerava al sicuro. «Ma - scrive Picariello - man mano che la situazione peggiorava anche in Italia, l’unica via di scampo divenne per loro la fuga per mare. E per raggiungerlo c’era bisogno di quel prezioso foglio di carta provvisorio, il più delle volte falso, rilasciato dalla questura di Fiume e accettato alla frontiera da controllori compiacenti e fidati, come Veneroso».

Forse Veneroso è oggi il testimone più prezioso della eroicità di Palatucci perché, come il questore di Fiume, anche lui collaborò a salvare migliaia di ebrei, senza paura e timori. Racconta lo stesso Veneroso: «Donne e bambine entravano in Italia davanti a noi, gli uomini, invece, per lo più passavano il confine clandestinamente, lungo le montagne, di notte, percorrendo i sentieri nascosti dai pini che venivano usati dai contrabbandieri slavi. Noi li vedevamo, ma se capivamo che erano ebrei facevamo finta di niente».

Con Palatucci c’era molto di più di una tacita intesa. Dice ancora Veneroso: «Il commissario chiese ai miei superiori, il maggiore Fortunato e il capitano Tatonetti, un elenco di finanzieri, “di quelli buoni, fidati. Che non parlano e che non bevono”. Perché se uno si ubriacava e si lasciava scappare qualche cosa, era la fine, per tutti». Alcuni furono in tal modo praticamente reclutati da Palatucci, lui sapeva di potersi fidare di loro. E anche gli ebrei sapevano, venivano rassicurati dai loro accompagnatori, o dallo stesso Palatucci, che ai controlli per l’espatrio avrebbero trovate persone “amiche”. Entravano quasi sempre senza autorizzazione, o con falsi permessi. Un po’ come succede per i clandestini oggi. Ma i finanzieri al confine avrebbero dovuto respingere delle persone prive di qualsiasi permesso per l’espatrio. Chi dava loro, invece, l’ordine di lasciarli entrare? I superiori? «No - dice Veneroso -, quelli poco ne volevano sapere, era troppo rischioso per loro. Era Palatucci a dirci di lasciarli entrare».

Insomma, gli ufficiali della Finanza al massimo tolleravano, facendo finta di niente, ma chi si sporcava le mani organizzando tutto, e rischiando di persona, era sempre lui: Giovanni Palatucci. Un’opera coraggiosa, dunque, andata avanti per anni. Fino al giorno dell’arresto da parte dei tedeschi. L’ultimo a parlare con Palatucci, alla stazione di Trieste, già chiuso con altri mille deportati in un vagone piombato fu il brigadiere Pietro Capuozzo, padre dell’inviato del Tg5 Toni, autore della prefazione del libro. Al fidato brigadiere Palatucci raccomanda non se stesso, ma un ragazzo di Trieste che veniva deportato con lui a Dechau, gli fa scivolare tra le mani un biglietto, “Capuozzo, accontenta questo ragazzo”.


Quando G. Palatucci venne arrestato nel ricordo della triestina Libera Capuozzo
Marina Rossi, su Il Piccolo di Trieste, 17 luglio 2007

Giovanni Palatucci, giovane funzionario della Questura di Fiume negli anni terribili delle leggi razziali e dell'Adriatische Küstenland è divenuto protagonista, nell'ultimo decennio, di controverse ricerche storiografiche, di opere filmiche; è stato insignito di riconoscimenti ed onoranze pubbliche per l'aiuto prestato agli ebrei fiumani o in transito, a Fiume come fuggiaschi dalla Jugoslavia. Quell'impegno gli costò la deportazione e la vita a Dachau.

La rilettura della storia, conseguente alla crisi del sistema bipolare e dell'ideologia comunista, tende, molto spesso a fare di lui un omologo di Schindler e di Perlasca. Noti studiosi, tra cui Amleto Ballarini, Silva Bon, Marco Coslovich, Goffredo Raimo, approfondiscono l'analisi di questa figura in termini scientifici il più possibile corretti. Angelo Picariello, nel volume fresco di stampa di cui è autore, «Capuozzo, accontenta questo ragazzo. La vita di Giovanni Palatucci» (Edizioni Paoline, pagg. 308, euro 16), concentra la propria attenzione sull'identità culturale, umana, religiosa di Palatucci, inscindibile dal luogo natio, quello di Montella (Avellino), erede di antiche culture comunitarie, proprie del sud, imbevuto di profonda religiosità.

L'autore - giornalista di cronaca e politica per l'Avvenire, nativo a sua volta di Avellino, dove è stato per un decennio consigliere comunale - dimostra di condividere pienamente e di voler far comprendere fino in fondo i valori cui fu improntata la vita del suo protagonista.

Per riuscire nel proprio intento, rileva tracce documentali nell'Archivio Storico della Polizia di Stato di Roma, in quello del Santuario di San Francesco a Folloni (Montella), nella Biblioteca del Convento di San Francesco Maggiore a Napoli, presso l'Associazione Nazionale Giovanni Palatucci, a Campagna (Salerno), oltre ad attingere ad un'ampia bibliografia.

A rendere particolare la sua ricerca è la ricostruzione analitica dell'ambiente culturale e familiare in cui si formò la personalità di Palatucci. Picariello evidenzia la suggestione proveniente da determinati luoghi, così ricchi di storia in epoca precristiana e medioevale, riferendosi in particolare al Convento di San Francesco a Folloni. L'influsso del Beato si rivela nelle numerosi vocazioni fiorite nella famiglia di Giovanni, a partire del primo Novecento, allorché la nonna paterna Carmela, terziaria francescana, donò tre figli all'Ordine.

Giovanni Palatucci risentì profondamente di un'impostazione familiare che poneva la fede e la carità al centro di tutto. Quel bagaglio spirituale avrebbe assunto un valore decisivo nel periodo in cui dovette ricoprire un incarico, non richiesto né voluto, a Fiume.

Aspetti inediti del suo tormentato iter esistenziale emergono da rare testimonianze dirette ed indirette, raccolte dal Picariello tra i familiari, amici, conoscenti, congiunti di ex colleghi di Giovanni e tra qualche sopravvissuto al campo di Dachau.

Tra queste fonti assume particolare rilievo per i legami diretti con la nostra città e la nostra regione, la lettera inviata a Goffredo Raimo da Udine, il 1° gennaio 1991, dalla triestina Libera Capuozzo, moglie del brigadiere di Pubblica Sicurezza Pietro Capuozzo, in servizio a Fiume e successivamente a Trieste al momento dell'arresto di Palatucci. In alcuni passi troviamo ad esempio: «Una mattina di ottobre, venne da noi a casa, un agente di custodia e mi raccomandò di avvisare mio marito che alle ore 14 dello stesso giorno il Palatucci, insieme ad altri deportati, sarebbero partiti alla volta della Germania. Mio marito andò al treno, ma si fece accompagnare da un agente della Polfer, perché i deportati erano chiusi nei vagoni e lui per far sapere al commissario che era lì, alla pensilina, doveva parlare ad alta voce, ma non poteva chiamarlo per nome. Camminando su e giù tra i vagoni, si trovò un biglietto tra i piedi e la voce del Palatucci che diceva: - Capuozzo, accontenta questo ragazzo, avverti sua madre che lui sta partendo per la Germania. Addio!». Libera Capuozzo, rievoca in altri punti, i rischi cui furono esposti civili e militari con la svolta dell'8 settembre: «Nel settembre del 1943 ci trovammo a Fiume, tutti in prima linea con i militari che scappavano dalla Jugoslavia, i tedeschi che la facevano da padroni e i partigiani slavi che formavano il loro esercito clandestino. Dall'Italia niente, neanche un treno, per due mesi non avevano nessuna notizia neanche da Trieste, pur non molto lontana, eravamo imbottigliati con i nemici da tutte le parti...».

Il figlio di Libera, Toni Capuozzo, giornalista e scrittore (che sarà ospite degli «Incontri con l'autore» domani a Lignano e sabato 21 a Grado per presentare il suo libro «Adios»), autore della prefazione, induce a riflettere sulla particolare realtà umana e lavorativa dei sottoposti al Palatucci: «Quei regnicoli quasi tutti meridionali e scapoli, non necessariamente animati da precise scelte ideologiche o politiche, mandati a Fiume come per punizione o allo sbaraglio, per afascismo e non per antifascismo».

Sulle circostanze che determinarono l'arresto del Palatucci il dibattito rimane aperto. Diversi riscontri inducono a ritenere molto probabile la denuncia alle autorità germaniche da parte di qualche zelante fautore della Repubblica di Salò, così come, altre fonti ipotizzano invece per il Palatucci l'accusa di tradimento, in quanto simpatizzante di un progetto autonomista per la città di Fiume, il cosiddetto Stato Autonomo Liburnico, da realizzarsi con il favore degli anglo-americani.

Al di là di ogni strumentalizzazione, l'aiuto prestato agli ebrei da Giovanni Palatucci, appare indubitabile. Riviste storiche di lingua italiana, uscite nella Jugoslavia comunista in periodi diversi, nel secondo dopoguerra, indicano come la Questura di Fiume non avesse disposto alcun tipo di controllo sugli ebrei in fuga dalla Jugoslavia occupata. Gli ebrei che vi giungevano, sapevano di trovare in quella città una via di salvezza.

La polizia di Fiume, che nell'apparato repressivo fascista non rivestiva alcun ruolo di spicco, era del tutto sprovvista di mezzi e scarsamente motivata a reprimere. Palatucci poteva quindi risultare di grande aiuto, anche con la semplice inerzia, evitando di attuare qualsiasi forma di verifica sugli ebrei passati nel suo ufficio.

Lo storico e partigiano fiumano Teodoro Morgani scrive che Palatucci si assunse la responsabilità di rendere inoperanti le categoriche disposizioni inviate dall'inflessibile prefetto Temisto Cletesta, gregario di Mussolini, per la persecuzione degli ebrei. Impossibile, in ogni modo, in casi come questi, quantificare esattamente il numero dei salvati. Giovanni Palatucci, oltre ad appassionare gli storici ed a coinvolgere il Vaticano, che ha avviato una causa di beatificazione, lascia una traccia concreta nella nostra città, con il toponimo a lui dedicato, di recente, nei pressi della Risiera.

| home |

| inizio pagina |

   
angolo