Chi è Giuseppe Veneroso? Il nome ai più non dice nulla. Eppure, se si legge
con attenzione il lavoro di Angelo Picariello dedicato al penultimo questore
di Fiume di cui è oggi in corso la causa di canonizzazione - “Capuozzo
accontenta questo ragazzo. La vita di Giovanni Palatucci”. San Paolo, 304
pagine, 16 euro - è lui uno dei principali testimoni viventi capaci di
raccontare come, davvero, «almeno cinquemila» (ma altri tremila ne attesta
l’agente di polizia Alberino Palombo e altre migliaia potrebbero essere
passati sfuggendo a ogni controllo) sono stati gli ebrei salvati da Palatucci
prima dell’armistizio del settembre del 1943, gli ebrei cioè fatti passare al
confine e provenienti dalla Serbia governata dagli ustascia filo nazisti, o
dall’Est europeo: in sostanza il cosiddetto canale fiumano.
Giuseppe Veneroso, che oggi vive a Prato ma è originario di Pisciotta, nel
Salernitano, attesta infatti l’esistenza di ben cinquemila passaporti falsi
gestiti segretamente (in soli due anni) per conto di Palatucci, insieme ad
altri due giovani colleghi deceduti, con lui in servizio alla frontiera di
Buccari.
Veneroso ha oggi ottantacinque anni e vive a Prato. È originario di Pisciotta,
nel salernitano, non lontano da Campagna, dov’era vescovo al tempo lo zio di
Palatucci: «Infatti - racconta Veneroso - quelli che accompagnavano questi
ebrei al confine di Stato, sentendo da dove provenivo, spesso dicevano:
“Questi vanno dalle parti tue”». Alcuni erano destinati ai campi di
internamento italiani dove, soprattutto in quello gestito dallo zio vescovo,
il commissario li considerava al sicuro. «Ma - scrive Picariello - man mano
che la situazione peggiorava anche in Italia, l’unica via di scampo divenne
per loro la fuga per mare. E per raggiungerlo c’era bisogno di quel prezioso
foglio di carta provvisorio, il più delle volte falso, rilasciato dalla
questura di Fiume e accettato alla frontiera da controllori compiacenti e
fidati, come Veneroso».
Forse Veneroso è oggi il testimone più prezioso della eroicità di Palatucci
perché, come il questore di Fiume, anche lui collaborò a salvare migliaia di
ebrei, senza paura e timori. Racconta lo stesso Veneroso: «Donne e bambine
entravano in Italia davanti a noi, gli uomini, invece, per lo più passavano il
confine clandestinamente, lungo le montagne, di notte, percorrendo i sentieri
nascosti dai pini che venivano usati dai contrabbandieri slavi. Noi li
vedevamo, ma se capivamo che erano ebrei facevamo finta di niente».
Con Palatucci c’era molto di più di una tacita intesa. Dice ancora Veneroso:
«Il commissario chiese ai miei superiori, il maggiore Fortunato e il capitano
Tatonetti, un elenco di finanzieri, “di quelli buoni, fidati. Che non parlano
e che non bevono”. Perché se uno si ubriacava e si lasciava scappare qualche
cosa, era la fine, per tutti». Alcuni furono in tal modo praticamente
reclutati da Palatucci, lui sapeva di potersi fidare di loro. E anche gli
ebrei sapevano, venivano rassicurati dai loro accompagnatori, o dallo stesso
Palatucci, che ai controlli per l’espatrio avrebbero trovate persone “amiche”.
Entravano quasi sempre senza autorizzazione, o con falsi permessi. Un po’ come
succede per i clandestini oggi. Ma i finanzieri al confine avrebbero dovuto
respingere delle persone prive di qualsiasi permesso per l’espatrio. Chi dava
loro, invece, l’ordine di lasciarli entrare? I superiori? «No - dice Veneroso
-, quelli poco ne volevano sapere, era troppo rischioso per loro. Era
Palatucci a dirci di lasciarli entrare».
Insomma, gli ufficiali della Finanza al massimo tolleravano, facendo finta di
niente, ma chi si sporcava le mani organizzando tutto, e rischiando di
persona, era sempre lui: Giovanni Palatucci. Un’opera coraggiosa, dunque,
andata avanti per anni. Fino al giorno dell’arresto da parte dei tedeschi.
L’ultimo a parlare con Palatucci, alla stazione di Trieste, già chiuso con
altri mille deportati in un vagone piombato fu il brigadiere Pietro Capuozzo,
padre dell’inviato del Tg5 Toni, autore della prefazione del libro. Al fidato
brigadiere Palatucci raccomanda non se stesso, ma un ragazzo di Trieste che
veniva deportato con lui a Dechau, gli fa scivolare tra le mani un biglietto,
“Capuozzo, accontenta questo ragazzo”.
Quando G. Palatucci venne arrestato nel ricordo della
triestina Libera Capuozzo
Marina Rossi, su Il Piccolo di Trieste, 17 luglio 2007
Giovanni Palatucci, giovane funzionario della Questura di Fiume negli anni
terribili delle leggi razziali e dell'Adriatische Küstenland è divenuto
protagonista, nell'ultimo decennio, di controverse ricerche storiografiche, di
opere filmiche; è stato insignito di riconoscimenti ed onoranze pubbliche per
l'aiuto prestato agli ebrei fiumani o in transito, a Fiume come fuggiaschi
dalla Jugoslavia. Quell'impegno gli costò la deportazione e la vita a Dachau.
La rilettura della storia, conseguente alla crisi del sistema bipolare e
dell'ideologia comunista, tende, molto spesso a fare di lui un omologo di
Schindler e di Perlasca. Noti studiosi, tra cui Amleto Ballarini, Silva Bon,
Marco Coslovich, Goffredo Raimo, approfondiscono l'analisi di questa figura in
termini scientifici il più possibile corretti. Angelo Picariello, nel volume
fresco di stampa di cui è autore, «Capuozzo, accontenta questo ragazzo. La
vita di Giovanni Palatucci» (Edizioni Paoline, pagg. 308, euro 16), concentra
la propria attenzione sull'identità culturale, umana, religiosa di Palatucci,
inscindibile dal luogo natio, quello di Montella (Avellino), erede di antiche
culture comunitarie, proprie del sud, imbevuto di profonda religiosità.
L'autore - giornalista di cronaca e politica per l'Avvenire, nativo a sua
volta di Avellino, dove è stato per un decennio consigliere comunale -
dimostra di condividere pienamente e di voler far comprendere fino in fondo i
valori cui fu improntata la vita del suo protagonista.
Per riuscire nel proprio intento, rileva tracce documentali nell'Archivio
Storico della Polizia di Stato di Roma, in quello del Santuario di San
Francesco a Folloni (Montella), nella Biblioteca del Convento di San Francesco
Maggiore a Napoli, presso l'Associazione Nazionale Giovanni Palatucci, a
Campagna (Salerno), oltre ad attingere ad un'ampia bibliografia.
A rendere particolare la sua ricerca è la ricostruzione analitica
dell'ambiente culturale e familiare in cui si formò la personalità di
Palatucci. Picariello evidenzia la suggestione proveniente da determinati
luoghi, così ricchi di storia in epoca precristiana e medioevale, riferendosi
in particolare al Convento di San Francesco a Folloni. L'influsso del Beato si
rivela nelle numerosi vocazioni fiorite nella famiglia di Giovanni, a partire
del primo Novecento, allorché la nonna paterna Carmela, terziaria francescana,
donò tre figli all'Ordine.
Giovanni Palatucci risentì profondamente di un'impostazione familiare che
poneva la fede e la carità al centro di tutto. Quel bagaglio spirituale
avrebbe assunto un valore decisivo nel periodo in cui dovette ricoprire un
incarico, non richiesto né voluto, a Fiume.
Aspetti inediti del suo tormentato iter esistenziale emergono da rare
testimonianze dirette ed indirette, raccolte dal Picariello tra i familiari,
amici, conoscenti, congiunti di ex colleghi di Giovanni e tra qualche
sopravvissuto al campo di Dachau.
Tra queste fonti assume particolare rilievo
per i legami diretti con la nostra città e la nostra regione, la lettera
inviata a Goffredo Raimo da Udine, il 1° gennaio 1991, dalla triestina Libera Capuozzo, moglie del brigadiere di Pubblica Sicurezza Pietro Capuozzo, in
servizio a Fiume e successivamente a Trieste al momento dell'arresto di
Palatucci. In alcuni passi troviamo ad esempio: «Una mattina di ottobre, venne
da noi a casa, un agente di custodia e mi raccomandò di avvisare mio marito
che alle ore 14 dello stesso giorno il Palatucci, insieme ad altri deportati,
sarebbero partiti alla volta della Germania. Mio marito andò al treno, ma si
fece accompagnare da un agente della Polfer, perché i deportati erano chiusi
nei vagoni e lui per far sapere al commissario che era lì, alla pensilina,
doveva parlare ad alta voce, ma non poteva chiamarlo per nome. Camminando su e
giù tra i vagoni, si trovò un biglietto tra i piedi e la voce del Palatucci
che diceva: - Capuozzo, accontenta questo ragazzo, avverti sua madre che lui
sta partendo per la Germania. Addio!».
Libera Capuozzo, rievoca in altri punti, i rischi cui furono esposti civili e
militari con la svolta dell'8 settembre: «Nel settembre del 1943 ci trovammo a
Fiume, tutti in prima linea con i militari che scappavano dalla Jugoslavia, i
tedeschi che la facevano da padroni e i partigiani slavi che formavano il loro
esercito clandestino. Dall'Italia niente, neanche un treno, per due mesi non
avevano nessuna notizia neanche da Trieste, pur non molto lontana, eravamo
imbottigliati con i nemici da tutte le parti...».
Il figlio di Libera, Toni Capuozzo, giornalista e scrittore (che sarà ospite
degli «Incontri con l'autore» domani a Lignano e sabato 21 a Grado per
presentare il suo libro «Adios»), autore della prefazione, induce a riflettere
sulla particolare realtà umana e lavorativa dei sottoposti al Palatucci: «Quei
regnicoli quasi tutti meridionali e scapoli, non necessariamente animati da
precise scelte ideologiche o politiche, mandati a Fiume come per punizione o
allo sbaraglio, per afascismo e non per antifascismo».
Sulle circostanze che determinarono l'arresto del Palatucci il dibattito
rimane aperto. Diversi riscontri inducono a ritenere molto probabile la
denuncia alle autorità germaniche da parte di qualche zelante fautore della
Repubblica di Salò, così come, altre fonti ipotizzano invece per il Palatucci
l'accusa di tradimento, in quanto simpatizzante di un progetto autonomista per
la città di Fiume, il cosiddetto Stato Autonomo Liburnico, da realizzarsi con
il favore degli anglo-americani.
Al di là di ogni strumentalizzazione, l'aiuto prestato agli ebrei da Giovanni
Palatucci, appare indubitabile. Riviste storiche di lingua italiana, uscite
nella Jugoslavia comunista in periodi diversi, nel secondo dopoguerra,
indicano come la Questura di Fiume non avesse disposto alcun tipo di controllo
sugli ebrei in fuga dalla Jugoslavia occupata. Gli ebrei che vi giungevano,
sapevano di trovare in quella città una via di salvezza.
La polizia di Fiume, che nell'apparato repressivo fascista non rivestiva alcun
ruolo di spicco, era del tutto sprovvista di mezzi e scarsamente motivata a
reprimere. Palatucci poteva quindi risultare di grande aiuto, anche con la
semplice inerzia, evitando di attuare qualsiasi forma di verifica sugli ebrei
passati nel suo ufficio.
Lo storico e partigiano fiumano Teodoro Morgani scrive che Palatucci si
assunse la responsabilità di rendere inoperanti le categoriche disposizioni
inviate dall'inflessibile prefetto Temisto Cletesta, gregario di Mussolini,
per la persecuzione degli ebrei. Impossibile, in ogni modo, in casi come
questi, quantificare esattamente il numero dei salvati. Giovanni Palatucci,
oltre ad appassionare gli storici ed a coinvolgere il Vaticano, che ha avviato
una causa di beatificazione, lascia una traccia concreta nella nostra città,
con il toponimo a lui dedicato, di recente, nei pressi della Risiera.