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IL CASO
Per la prima volta ebrei ed arabi insieme nel lager nazista: anche un
gruppo di musulmani nei luoghi dell'Olocausto il 26 maggio
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A Nazaret, la
città di Israele con la più forte presenza di arabi, la «giornata della
Shoah» non è stata sentita quest'anno come un evento solo ebraico. Le
sirene che per due minuti hanno fatto memoria, come in tutto il Paese,
delle vittime nei campi di sterminio nazisti, hanno stavolta ravvivato
l'interesse per un evento eccezionale a cui tantissimi cittadini - ebrei e
arabi, e fra questi cristiani e musulmani - stanno per dare vita: il
pellegrinaggio che insieme a fine mese faranno ad Auschwitz. Un progetto
che - quando tre mesi or sono fu esposto da padre Emile Shoufani, il
parroco della comunità greco-melchita cattolica - appariva quasi una
provocazione.
E invece la proposta ha incontrato una straordinaria positiva accoglienza.
Sono finora 500 gli iscritti che hanno versato la quota di partecipazione
al viaggio, per metà ebrei e metà arabi; quando padre Shoufani prevedeva
di riunirne al massimo 300 e se non avesse trovato adesioni fra i
musulmani d'Israele diceva che si sarebbe rivolto a quelli di
Francia.
La partenza
è fissata per il 26 maggio, il ritorno dopo quattro giorni. Padre
Shoufani, palestinese per etnia, israeliano per cittadinanza, è
archimandrita della Chiesa melchita di Galilea: «L'idea del progetto
"Memoria per la pace" - racconta - con il pellegrinaggio comune
di arabi e di ebrei ad Auschwitz, m'è venuta durante i vari incontri che
facciamo con studenti e professori nella scuola cattolica di cui sono
direttore: erano divenuti sempre più difficili da ottobre 2000,
dall'inizio cioè della seconda Intifada che ha determinato una frattura
quasi totale tra israeliani e palestinesi. Ho riflettuto che forse per
continuare il dialogo occorresse fare ritorno alla memoria, tentare di far
pace con la storia».
Padre Shufani, qual è stato il suo percorso di conoscenza della Shoah?
«Personalmente ho conosciuto la Shoah quando studiavo in Francia,
attraverso il libro su Treblinka apparso nel 1966. È stata la mia prima
lettura e ho capito che la Shoah non era semplicemente una pagina di
storia ma davvero l'annientamento di un popolo. Nello stesso anno ho
visitato il campo di concentramento di Dachau: ne sono rimasto sconvolto,
al punto da non poter continuare il viaggio. Ho sentito profondamente la
miseria dell'uomo e dell'umanità. Sostengo che per comprendere il popolo
ebraico occorre ascoltare quel che dice sulla sua storia e sulla Shoah».
Quali reazioni ha colto a Nazaret in campo arabo ed ebraico quando ha
parlato del progetto «Memoria per la pace»?
«Anticipando il progetto ad amici ebrei ho scoperto delle prevenzioni,
erano persuasi che avrebbe incontrato la più ferma opposizione degli
arabi. Occorreva passare da questo approccio, ascoltare questa reazione.
Adesso sono decine, centinaia gli ebrei israeliani che hanno accettato di
parlarci dell'Olocausto. Gente di ogni strato sociale, di destra e di
sinistra, uomini e donne, religiosi e no. Anche dal lato arabo c'è stata
la medesima accettazione perché l'appello che ho lanciato è divenuto
un'iniziativa della comunità araba. Molta gente ha voluto partecipare
agli incontri preparatori».
Ho saputo di una forte presenza a queste conferenze, sia ebraica sia
araba. E che ha molto tenuto a preparare questo cammino della memoria.
«Non c'è soltanto la volontà di visitare dei luoghi simbolici, come
Auschwitz, di sapere sul genocidio, sullo stermino del popolo ebraico da
parte del nazismo. Il luogo è molto importante ma è pure importante
prepararsi ad andarci, ascoltando persone che conoscono o hanno vissuto
quell'epoca. Molti dicono di sapere cosa è successo; ma c'è molta gente
che non ha mai sentito parlare della Shoah, non sa cosa sia stata, come
ancora oggi sia presente nel pensiero del mondo ebraico. Una preparazione
necessaria che ha avuto come conseguenza la comprensione, la presa di
coscienza».
In una conferenza un giovane palestinese ha però detto: «Non mi
interessano le sofferenze patite dagli ebrei cinquant'anni fa, adesso ho
le mie».
«Oggi si esprimono troppi giudizi, si fanno facili paragoni tra tutte le
sofferenze. Certo c'è una realtà di sofferenza, noi tutti siamo feriti,
siamo umiliati. Ovvero tutti i popoli di questa regione, i palestinesi
come gli israeliani, gli ebrei come gli arabi, abbiamo una profondissima
ferita. Ma io dico: non si possono paragonare storie ispessite dalle
sofferenze, piuttosto occorre ascoltare e farsi carico della sofferenza
dell'altro. La nostra iniziativa consiste nell'ascolto della sofferenza
ebraica, nel prenderne conoscenza: nella consapevolezza di compiere un
gesto che non esige una realtà di ritorno, di reciprocità; lo vedo come
un atto liberatorio».
Ha trovato la medesima apertura nei musulmani di Nazaret?
«Chi ha aderito al movimento è l'immagine di tutta la società
arabo-israeliana, in maggioranza musulmana. Scopo di questa iniziativa è
anche dimostrare che gli arabo-israeliani non hanno mai voluto minacciare
lo Stato d'Israele. Qualche decina di persone, una percentuale che non so
quantificare ha idee diverse, ma la volontà degli arabo-israeliani è di
essere cittadini israeliani, di costruire una fiducia nuova».
[Fonte: "Avvenire" del
20 maggio 2003]
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