Pubblichiamo l’intervista con l’autore del volume “Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina”, edito nel 2003 dalla Elledici, ripresa dall’agenzia internazionale Zenit, in data 25 agosto 2003


Hamas, un movimento religioso - Intervista con Massimo Introvigne

TORINO – Il fattore religioso non può essere eluso quando si analizza il movimento fondamentalista Hamas, ramo palestinese dei Fratelli Musulmani, sostiene uno specialista che l’ha studiato.

Massimo Introvigne, direttore a Torino del Centro Studi sulle Nuove Religioni, espone la sua visione di Hamas pochi giorni dopo l’attentato del 19 agosto in un bus a Gerusalemme, che ha ucciso venti persone tra le quali sei bambini.
D. Che cosa è esattamente il movimento Hamas?

R. Hamas è parte di una grande galassia internazionale, il fondamentalismo musulmano, che influenza milioni di persone.

È il ramo palestinese del movimento fondamentalista dei Fratelli Musulmani, fondato in Egitto nel 1928 da Hassan al-Banna. Nel 1954, il presidente egiziano Nasser lo mise fuori legge e lo perseguitò, un fatto che produsse una marcata divisione interna.

Da una parte c’è una corrente radicale che è fedele alla formula leninista del “coup d’état”. Dall’altra c’è una corrente neotradizionalista, che cerca di islamizzare la popolazione alla base. È una specie di visione gramsciana, che mira a prendere il potere ma vuole anzitutto conquistare la società, promuovendo sindacati musulmani, scuole musulmane, giornali musulmani.

Nel 1957, la direzione dei Fratelli Musulmani in Palestina si schierò con la posizione neotradizionalista, cessò ogni attività militare, fermò gli attacchi organizzati e si dedicò a raddoppiare il numero delle moschee presenti nella striscia di Gaza e nei Territori.

Diede vita a una rete di istituzioni fondamentaliste villaggio per villaggio, zona per zona. Tra il 1957 e il 1987 l’attività terrorista e armata in Palestina era legata ai nazionalisti laici di Fatah e di altre componenti dell’Olp.

L’intifada scoppiò nel 1987 in un momento di debolezza dell’Olp. Allora, i Fratelli Musulmani decisero che le operazioni neotradizionaliste erano state un successo e che una fase radicale di lotta armata poteva iniziare. La rete musulmana era forte in tutta la Palestina. Hamas coniò per sé un nome che in arabo significa “fervore” e che, nello stesso tempo, è l’acronimo di Movimento di Resistenza Islamica

D. È azzardato definire Hamas un movimento religioso?

R. Non è azzardato. In effetti possiamo proprio definirlo così. Spesso, in occidente, si fa l’errore di guardare ai fenomeni religiosi come a delle sovrastrutture. È un’eredità dell’analisi marxista. Chiaramente, i fenomeni complessi hanno cause molteplici e le ragioni economiche, politiche e religiose sono intrecciate. Comunque, nel caso di Hamas, la religione è un fattore determinante.

Se noi leggiamo il suo statuto, vediamo che l’obiettivo di questa organizzazione è trasformare la Palestina in uno stato islamico, cioè retto dalla shariah, in vista di una riunificazione dell’intero mondo musulmano in un califfato. Ma con una specificità, richiamata nell’articolo 14: la liberazione della Palestina è un obbligo per ogni musulmano, in qualsiasi paese egli viva.

Per Hamas, la questione palestinese non è una delle tante assieme alla Cecenia, al Kashmir, e simili. È la questione centrale, e per ragioni non solo politiche ma anche religiose.

D. Sarebbe utopistico pensare che Hamas possa essere cancellata dai territori palestinesi?

R. Sì. La realtà è che tra membri e simpatizzanti essa conta su centinaia di migliaia di persone. La soluzione al problema di Hamas non può essere solo militare.

D. Hamas utilizza la religione per giustificare il terrorismo?

R. Nella visione del mondo propria del fondamentalismo musulmano, non c’è differenza tra politica e religione. Anzi, il dire che sono differenti è giudicato un pregiudizio tipicamente occidentale, che i fondamentalisti ritengono estraneo alla tradizione islamica.

Hamas dedica molta attenzione a controbattere l’obiezione secondo cui il suicidio è contrario all’islam e pertanto gli attacchi suicidi non sono leciti per un musulmano. Hamas risponde che non si tratta di suicidio ma di martirio, e nella galassia fondamentalista trova personaggi che appoggiano questo suo ragionamento.

Può essere spiacevole dire che i terroristi suicidi di Hamas sono motivati dalla religione. Ma è così. È abbastanza sbagliato credere che essi siano manipolati, oppure che nascondano moventi economici.

Un’analisi del profilo socioeconomico di quanti hanno scelto il martirio mostra che il loro livello, sia di potere di acquisto che di istruzione, è più alto della media dei palestinesi. Anzi, due terroristi su tre fanno parte della classe medio-alta.

È l’ideologia, o meglio ancora la religione che li muove. Non è la sola disperazione.

D. Vi sono donne kamikaze in Hamas?

R. Fino a questo momento le donne non hanno preso parte agli attentati di Hamas. Il movimento non esclude la possibilità teorica che ciò accada. Vi sono donne che hanno commesso attacchi suicidi in Palestina, ma esse facevano parte delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, una formazione laica e nazionalista.

Hamas stabilisce che la sua ideologia non impedisce il martirio di donne e, di fatto, esalta le donne dei movimenti fondamentalisti ceceni che hanno preso parte ad attacchi suicidi.

Piuttosto, richiama difficoltà di carattere pratico. Per esempio, secondo Hamas, le donne che dovessero recarsi in Israele dovrebbero avere il capo coperto dal velo, e questo renderebbe facile alla polizia identificarle.

Hamas sostiene che ci sono molti più palestinesi di sesso maschile che si offrono di diventare martiri di quanti poi ne accetti. Per cui il problema delle donne martiri non è ritenuto d’attualità.

D. Hamas potrebbe deporre le armi e negoziare a livello politico?

R. Se ci limitiamo a leggere lo statuto di Hamas – un documento che stabilisce una lotta inestinguibile fino a che Israele sia ricacciato in mare – la risposta sarebbe negativa. Ma Hamas è sempre stata abile a combinare la poesia della retorica con la prosa del realismo.

Hamas non è un monolito e dentro di sé ha molte correnti pragmatiche, specialmente tra i leader dei Territori.

Immaginare un processo di pace che consideri Fatah, o in generale la componente laica del mondo palestinese, come il solo interlocutore ed escluda completamente le componenti religiosi, non è ragionevole.

Una delle grandi sfide è trovare in queste componenti interlocutori preparati a discutere della pace, o almeno di una tregua o della fine del terrorismo.

L’occidente è a tratti vittima di una sorte di “sindrome di Voltaire”, secondo la quale il miglior interlocutore del mondo arabo è il più laico e il meno religioso. Ma interlocutori privi di radici religiose nei paesi a maggioranza musulmana non hanno quasi mai un consistente seguito popolare.

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Il libro:

Massimo Introvigne, “Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina”, Elledici, Torino, 2003, pagine 128, € 8,00.

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Documento pubblicato da L'Espresso del 19 novembre 2003