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Discorso di insediamento
Rav Riccardo Di Segni
L'insediamento di un nuovo rabbino è tradizionalmente l'occasione
per una sorta di discorso programmatico che inevitabilmente risente
della situazione contingente. In questi giorni ho riletto con emozione
il discorso di Rav Prato, del 1936, condizionato dal difficile
equilibrio con il potere che l'avrebbe esiliato dopo due anni, e quello
di Rav Toaff del 1951, pieno di speranze ma insieme carico del ricordo
recentissimo della tragedia. Ed è un privilegio incredibile avere qui
con noi il protagonista degli ultimi cinquanta anni della vita di questa
comunità.
Proprio dalla situazione contingente vorrei partire con qualche
riflessione. Questo nostro incontro avviene in un momento storico molto
difficile per il mondo occidentale e per il Vicino Oriente. Il mondo
occidentale ha provato dopo l'11 settembre un senso finora sconosciuto
di insicurezza. L'orizzonte è agitato da minacce di guerra, terrorismo,
estremismo di ogni tipo. Dal Vicino Oriente, dalla terra d'Israele,
arrivano ogni giorno notizie tragiche e allarmanti. La comunità ebraica
italiana e quella romana in particolare partecipano con grande emozione
a questi avvenimenti.
È il momento di
chiederci se debba o possa esistere una nostra risposta, se abbiamo
qualcosa da dire e da proporre a noi stessi e agli altri. E allora è
importante prima di tutto spiegare all'esterno che il senso di
insicurezza che ora è di tutti, per noi non è una novità. Nel
quartiere che solo nel 1870 è stato liberato dall'oppressione del
Ghetto, che ha visto la sua gente precipitare nella miseria e
nell'umiliazione per le leggi razziali fasciste, nel quartiere e nella
città da dove i nazisti hanno portato via duemila innocenti, nella
Sinagoga che è stata prima saccheggiata dai nazisti e poi macchiata con
il sangue delle vittime del terrore, la sicurezza non è di casa. Almeno
la sicurezza fisica, il senso della normalità della vita.
Il peso della storia
lontana e vicina guida il nostro giudizio, con un'esperienza sofferta.
Ieri abbiamo celebrato lo Shabbat Zakhor, il nostro sabato della
memoria, il giorno che i Maestri dedicarono alla memoria della
persecuzione, mettendo come simbolo l'antichissima storia biblica di
Amaleq. E domani sera festeggeremo Purim, la festa che ricorda la
salvezza da uno sterminio di Stato, approvato per legge e poi sventato.
Con dei ricordi così vivi è chiaro che ne risenta la nostra
valutazione del mondo. Grazie ai momenti della preghiera, alla
celebrazione delle feste principali, a tutta una serie di stimoli
culturali, messi insieme alle ferite della storia recente, siamo
costretti a pensare in modo differente.
Il pensiero religioso ebraico, dalle pagine dello Shemà che leggiamo
tutti i giorni agli scritti di autori contemporanei propone
un'interpretazione molto forte dei fatti. Un'interpretazione che sfida
le coscienze laiche e che è difficile da condividere anche in una
visione religiosa della realtà.
Senza togliere nulla alla
responsabilità di chi agisce male, il pensiero religioso chiede di
interpretare gli avvenimenti negativi come dei richiami, dei campanelli
di allarme. Segnali che devono fare breccia nei cuori e indurre a
rivedere il proprio comportamento. Il mondo reagisce con l'allarme per
la sua sicurezza fisica, con la preoccupazione per la perdita del
proprio standard di vita, con il desiderio di vendetta e repressione. La
risposta che la tradizione ebraica propone è il richiamo alle proprie
responsabilità, che sono individuali e collettive, l'obbligo a
purificare prima di tutto sé stessi, l'obbligo di costruire una società
migliore. Non basta cambiare il modo di pensare. Bisogna cambiare il
modo di agire.
Questo è il messaggio che diamo a tutti e a noi per primi. Ma come
ebrei dobbiamo sapere che per noi questo ancora non basta. La tradizione
non offre soltanto delle informazioni per costruire un'identità
speciale o per suggerire interpretazioni, per farci sentire bravi e
speciali perché certe cose le abbiamo provate o capite qualche anno
prima degli altri.
La tradizione è ciò che
deve trasformare la nostra esistenza. La Torà non è un libro
qualsiasi. È la manifestazione del sacro in questo mondo, la presenza
di D. nella storia. Non deve essere uno strumento di compiacimento, ma
è una richiesta forte. Ognuno ha il dovere e la responsabilità di
partecipare coerentemente e con il meglio delle sue forze alla
realizzazione del progetto della Torà che è quello di portare il sacro
nel mondo, dare un senso diverso alla vita. Non solo essere costretti a
pensare in modo diverso, ma soprattutto il dovere di agire, di seguire
una strada speciale, di mettere in pratica le norme prescritte. Di
studiare sempre per cercare di capire, per crescere.
La nostra vita non ha
senso senza l'osservanza delle regole che hanno un'origine sacra e
consacrano ogni nostro momento. Non si può essere pienamente ebrei se
ci si limita a guardare il sistema da fuori pensando che ci riguardi
solo marginalmente. Il sistema va messo dentro di noi, va vissuto
intensamente, va capito per quanto ci è possibile. Questa comunità è
sopravvissuta alle sfide peggiori soprattutto grazie a un forte senso
emozionale di identità.
Ma oggi le emozioni
sembrano venir meno, perché anche il tempo fa la sua parte, e le
emozioni devono essere sostenute da un impegno. E allora è il momento
di fare. Bisogna studiare, partecipare alla vita sinagogale, trasformare
ambienti freddi e cerimoniali in luoghi caldi di confronto La Comunità
Ebraica di Roma ha fatto in questi ultimi anni passi da gigante. E'
cresciuto il numero di Sinagoghe, il numero dei punti vendita di
prodotti alimentari kasher, il numero di frequentatori di gruppi di
studio. Eppure se guardiamo ai numeri e ai fatti c'è ancora moltissimo
da fare. I livelli di osservanza del Sabato e della purezza familiare
sono ancora bassi. L'armonia familiare è in crisi, il rispetto tra i
coniugi è a rischio, si aprono in continuazione nuove pratiche di
divorzio e spesso neppure si risolvono. Le nostre scuole, che
rappresentano lo strumento più importante di educazione e di
investimento sul futuro, sono frequentate, nella fascia elementare, da
circa la metà della popolazione potenziale. Crescono senza alcun
controllo le coppie miste, senza coscienza dei rischi della trasmissione
futura e con scarsissimo impegno nell'educazione delle nuove
generazioni.
Forse tutto questo non è una novità, ma una costante. Uno dei più
famosi rabbini che Roma abbia avuto, Ovadià Sforno, ha lasciato questa
impressionante testimonianza 500 anni fa:
I figli del nostro popolo, per l'affanno, per il lavoro e le
preoccupazioni rivolgono il loro sguardo e il loro pensiero al guadagno
come rifugio e protezione senza lasciare alcun spazio adatto per
contemplare le meraviglie della nostra Torà, e si chiedono che cosa
possa dare di più la nostra Torà in termini di soddisfazioni materiali
e di speranze.
Ogni generazione, in questa comunità come in ogni altra, ha avuto
la sua vasta fascia di tiepidi aderenti o forti critici, ogni
generazione con i suoi problemi differenti. Ma se siamo qua ora è perchè
discendiamo da chi ha aderito al modello di fedeltà.
È noto che nella Torà esistono due versioni dei cosiddetti dieci
comandamenti. Il quarto è quello del Sabato. In una versione inizia con
la parola zakhor, "ricorda": ricorda il giorno del
Sabato per santificarlo. Nell'altra versione la parola d'inizio è shamor,
osserva. La tradizione dice che entrambe le parole furono pronunciate
insieme. Come a dire che memoria e osservanza devono andare insieme, che
non c'è memoria senza impegno e non c'è impegno senza memoria. Il
modello che dobbiamo avere in mente è quello della coerenza,
dell'impegno, dell'osservanza forte.
È finito il tempo in cui
la religione e l'osservanza veniva delegata dalla comunità a un
gruppetto quasi emarginato e folkloristico. Basta vedere come è stata
concepita cento anni l'architettura di questa Sinagoga, con una tribuna
solleva e distaccata dal pubblico, certo per dare solennità al luogo,
ma anche allo scopo di separare dagli altri una sorta di clero. È
finita l'epoca delle deleghe al clero, vestito tutto di nero o di
bianco, secondo le circostanze, l'epoca della separazione in cui i
normali o gli illuminati eccellono nella vita commerciale e
intellettuale, e i rabbini sono la manovalanza del culto; in cui la
pratica dell'ebraismo sembra essere un curioso residuo di un passato di
cui sfugge il senso.
Tutta la comunità
ebraica ha gli stessi diritti e doveri, i rabbini si devono distinguere
soprattutto come Maestri, nessuno deve sfuggire alle proprie
responsabilità e soprattutto va riscoperto il senso, la bellezza, la
profondità dell'osservanza. E il ruolo primario del rabbino dalla
cattedra di questa scola, come di ogni altro rabbino da ogni altra sede
di attività e di insegnamento è quello di guidare, aiutare e
promuovere questa riscoperta.
Come accennavo all'inizio, la situazione politica in terra d'Israele è
per tutti noi motivo di grande preoccupazione. Sui motivi di questa
crisi e sulle sue possibili soluzioni la discussione è viva anche in
questa comunità ed è normale che lo sia perché la dialettica e le
divergenze nella nostra cultura sono una ricchezza e non un difetto.
Ma una cosa deve essere
chiara: che non siamo in alcun modo disposti a rinunciare comunque al
sostegno allo Stato, al suo diritto all'esistenza, al suo diritto alla
difesa contro ogni attacco, che non è solo quello militare o
terroristico, ma anche quello della disinformazione, della calunnia,
della delegittimazione: atteggiamenti che in fondo rivelano un'ostilità
pregiudiziale contro il diritto di ogni ebreo di esistere. È forse
inutile richiamare la comunità intorno a questi principi, ma è bene
che si sappia che su questi temi la nostra comunità è forte, unita e
non disposta a compromessi.
Le glorie del passato di questa comunità vengono in qualche modo
esposte in questa cerimonia. I tessuti ricamati, gli argenti, le musiche
sono il segno di un gusto, di un'attenzione, di una dedizione del tutto
speciale nel modo di essere ebrei ed ebrei romani. Dobbiamo essere
orgogliosi di queste particolarità, che proseguono, sul piano
artistico, le grandi tradizioni di cultura talmudica per cui Roma era
famosa e celebrata nel medioevo. Il giusto compiacimento per questa
storia non deve portare però all'isolamento.
Troppo a lungo, forse
anche per un nefasto influsso della chiusura di tutta la cultura
italiana, il compiacimento per le glorie del passato è stato anche
isolamento e regressione. Dobbiamo riaprirci a tutto il mondo ebraico,
portandovi la nostra originalità ma anche il senso di appartenenza e
fratellanza nel kelal Israel, insieme alla disponibilità a
recepire i modi di essere e le fonti di saggezza e di spiritualità
antichi e moderni che per troppi decenni sono state qui ignorate o
disprezzate.
Una comunità ebraica ben cosciente della sua storia, forte nella sua
identità, impegnata nello studio e nella pratica della sua tradizione
è per la società che la circonda un bene inestimabile. Questo la
maggioranza dei cittadini romani lo sa già bene. Non siamo solo un
simbolo del passato, siamo una presenza vitale e dinamica, portatrice di
idee e di valori, e anche, volenti e nolenti,siamo testimoni del sacro
in una società che fugge dal sacro, o che cerca di presentarlo a senso
unico. La nostra condizione ci pone pertanto davanti a grosse
responsabilità verso noi stessi, verso la comunità, ma anche verso
tutti; cerchiamo di esserne all'altezza.
Dovremo, tra l'altro,
sottolineare come è cardine del nostro pensiero religioso il principio
della solidarietà e della giustizia sociale, per i cittadini e per
coloro che sono considerati stranieri. Anche dal punto di vista
politico, questa comunità non deve essere solo l'ente che risponde alle
sollecitazioni, ma la promotrice del bene comune.
È per questa coscienza di responsabilità che il dialogo con tutti, con
le religioni, ma anche con le culture e le società diverse, deve essere
considerato da noi un dovere; ma questo dialogo deve partire sempre dal
presupposto della pari dignità, deve costruire e non deve distruggere
le identità.
In conclusione a queste note, ho il dovere e il piacere di ringraziare
il Consiglio della Comunità e tutti coloro che hanno sostenuto la mia
presenza in questo ruolo; coloro che mi stanno aiutando a portarlo
avanti; i Maestri, presenti e assenti, che mi hanno aiutato a studiare e
a crescere nella Torà; le precedenti guide spirituali e politiche di
questa comunità, che l'hanno fatta crescere in prosperità, cultura e
prestigio, malgrado tutte le difficoltà; e infine un ringraziamento a
tutti quanti voi qui presenti, per un saluto un augurio e una
partecipazione solidale.
Che l'Eterno guidi e faccia prosperare le nostre azioni.
Rav Riccardo Di Segni
Roma 24 febbraio 2002 – 12 adàr 5762
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