Ha un senso
volere oggi indagare, porsi il quesito in cosa consista l'identità ebraica,
o questa è un qualcosa di definito, valida per ogni tempo, per ogni luogo e
che non ammette modificazioni di sorta? I pareri sono, a questo proposito,
discordi. lo appartengo a coloro che credono che l'identità ebraica sia
qualcosa che trascende le varie interpretazioni che di essa sono state date
nelle diverse epoche sul piano ora religioso ora etnico-politico, ora
etico-sociale.
Mi conforta quanto mi disse Ben Gurion nel '67 subito dopo la
guerra dei sei giorni. Eravamo stati invitati, mio fratello ed io, dall'
illustre statista per un colloquio su vari temi che riguardavano Israele e
l' ebraismo. Come ho già ricordato, ad una mia domanda su cosa significasse
per lui essere ebrei, egli, sorridendo, mi rispose: «Essere ebrei significa
porsi ogni giorno la domanda: cosa significa essere ebrei?».
Cercherò di portare un piccolo
contributo al tema dell' identità ebraica, fondamentalmente basandomi sulla
psicologia del profondo di Jung.
Come già detto, gli ebrei furono i
primi a recepire, circa 3200 anni fa, l'attivazione nella psiche collettiva
di quell'epoca dell' archetipo del Sé, l' archetipo che guida alla
realizzazione della propria completezza in una sintesi di valori consci ed
inconsci, all'unità, che gli ebrei formularono nella dottrina del
monoteismo. Questo archetipo è, nella psiche ebraica, molto vicino all' Io,
a fior di pelle, per così dire, per cui sono intensificate quelle che sono
le sequenze, le trasformazioni della personalità che sono indotte
dall'attivazione del sé, vale a dire, fondamentalmente, lo spostamento
dell' accento psichico dall' Io centro motore della personalità al
riconoscimento della sua dipendenza dal sé di cui egli è il realizzatore
conscio.
Nel mito (mito secondo
Jung) ebraico
sono presenti, in modo più marcato, i temi delle sequenze psichiche
dell'attivazione del Sé, profondamente radicato nella struttura
costituzionale della personalità dell' ebreo, dominante sulle altre
strutture archetipiche.
L' ebreo sente che Dio è una grande parte della
propria anima: realizzare la propria qualità divina significa integrare Dio
in ogni atto della propria quotidianità, riempire, come dice Buber, gli
spazi interpersonali con il cemento divino fino a che vi sarà un'unica
massa, un solo blocco, e questa sarà l'era messianica.
L' ebreo sente di
collaborare con Dio nella continuazione della creazione, e il tutto è
permeato da un senso provvidenziale: «Il Signore mi conduce verso verdi
pascoli, mi muove verso acque tranquille...», ripete continuamente il
salmista.
Il problema delle responsabilità
morali, come ho già detto, è chiaramente espresso nel Deuteronomio: «Se
voi avrete fede in Me, seguirete i Miei precetti... sarete felici... ma se
mi tradirete...».
Anche per questo, l'ebreo vuole
conoscere sempre di più cosa Dio vuole da lui, e cosa non vuole, anela a
comprendere sempre di più il significato profondo dei precetti divini. Non
gli basta quanto è scritto nella Legge rivelata (Torà), vuole andare al di
là, e comprendere il significato recondito, interpretando numericamente le
parole scritte, per ricavarne nuove verità, nuovi comandamenti; legge negli
spazi bianchi al fine di evidenziare quella che la Cabbalà chiama la
Torà Celeste, seguendo la quale, sempre per la Cabbalà, Dio creò il mondo. La
Torà Celeste, insieme alle interpretazioni talmudiche, rabbiniche,
contribuisce a creare la Torà orale, che ha lo stesso valore sacro della
Torà scritta, rivelata da Dio a Mosè.
L' ebreo desidera conoscere ciò che
Dio vuole da lui, in parte senz'altro per gli aspetti remunerativi promessi,
come avviene per tutti gli esseri umani, a qualunque religione appartengano,
ma anche per un profondo attaccamento, una fascinazione affettiva verso Dio.
«Il piacere di compiere una mitzvà (comando religioso) consiste nel
piacere di poterla compiere», dicono i Maestri, di avere, cioè, una
possibilità di poter esprimere così il proprio amor Dei, la propria
obbedienza al Signore, o non fare ciò che a Lui dispiace, come gli
suggerisce il suo timor Dei.
Un altro aspetto della fenomenologia
psichica collegata con l'attivazione del Sé è quella serie di mutamenti
endopsichici ed esistenziali che caratterizzano quello che Jung chiama il
processo d'individuazione, vale a dire la realizzazione conscia dell'
anelito alla nostra completezza e, in questo, della nostra peculiarità, del
nostro essere diversi.
Nell'ebreo è marcatissima questa
tendenza all'individuazione, e il tema è frequentemente ricorrente nelle
sue formulazioni culturali, teologiche, con la esortazione alla santità
intesa come distinzione, differenziazione. Nella Cabbalà è detto che
esistono tanti volti della divinità quanti sono gli uomini, ad ognuno Egli
appare in modo differente. Un maestro chassidico disse ad un suo allievo di
nome Sussia: «Un giorno il Signore ti domanderà non perché non sei
diventato Mosè, ma perché non sei stato Sussia».
Come dice Buber, si può
servire Dio sia pregando, sia studiando, sia ballando e cantando. Se da una
parte l'ebreo avverte questo istinto d'individuazione, dall'altro egli è
vincolato a precetti collettivi. Uno scrittore cattolico francese, Daniel
Rops, dice che gli ebrei sono liberi nel pensiero ma schiavi nell' azione,
mentre il cattolico è schiavo nel pensiero e libero nell' azione.
[Nell'ipotesi
di una fede matura (che non risente della cristallizzazione dei dogmi perché
non li vive come steccati, ma come piste di orientamento), questa affermazione è un
controsenso: come può essere libero nell’azione chi è schiavo nel
pensiero? Ma è valido anche il viceversa: non può essere schiavo
nell’azione chi è libero nel pensiero, tranne il caso di coercizioni
esterne che limitano la libertà d'azione, ferma restando la dinamica dell'armonizzazione
tra fra individuazione e vincoli collettivi, che resta
valida sia per gli ebrei che per i cristiani. N.d.R.]
Questo conflitto tra individuazione e
vincoli collettivi è il conflitto di fondo della psiche ebraica che ha dato
luogo, e seguita a dare luogo, alle tante correnti di pensiero, spesso tra
loro contrastanti e molto divergenti, per esempio sull'identità ebraica. Ma
il conflitto può essere altamente creativo qualora si cerchi una sintesi
tra le due opposte tendenze. Non è forse la ricerca di questa sintesi che
anima, che è alla base del Talmud, della Cabbalà, del chassidismo? Cosa è
il Talmud se non una libera palestra di interpretazioni individuali (non è
quasi mai detto chi abbia ragione e chi torto) dei precetti collettivi delle
Sacre Scritture? Non è forse il tentativo di preservare la libera
interpretazione al fine di accettare, con un proprio modo di vedere, il
precetto collettivo, e con ciò rispettando le due opposte tendenze?
L 'interpretazione è la grande
qualità della personalità ebraica attraverso la quale si estrinseca la
tendenza all' essere diverso con implicazioni creative che spesso
trascendono il singolo ebreo e possono essere di aiuto allo sviluppo di una
cultura anche non ebraica con contenuti spesso rivoluzionari e, come tali,
non graditi in un primo tempo dai vecchi equilibri culturali, religiosi,
sociali, politici, scientifici, artistici ecc.
Non è un caso che sia stato l'ebreo
Freud a gettare le basi di una nuova scienza, la psicoanalisi, basata e
centrata sull' interpretazione, e che ha rivoluzionato tutto il nostro modo
di vedere non solo la psicopatologia ma anche le grandi problematiche
psicologiche dell'antichità e dei nostri tempi. Nella filosofia
economico-politica creata dall'ebreo Marx sono evidenti i fondamentali
stampi ebraici: l' assenza di sperequazioni. Non è questo un richiamo ad
uno dei precetti più antichi delle sacre scritture, quello della tzedakà,
già presente nel Genesi, ossia della carità, intesa non come semplice
elemosina ma come impegno a fare scomparire i dislivelli, le disuguaglianze
tra gli individui, al fine di far scomparire i poveri? Einstein interpreta
in un nuovo modo i dati della fisica, creando con la relatività una nuova
era che ci permette oggi di intraprendere i viaggi spaziali, con tutto ciò
che questo potrà implicare per l'umanità. Sia pure ad un livello minore,
le grandi tappe della storia della musica recano l' impronta innovativa,
rivoluzionaria di ebrei. Così Salomone Rossi crea nel '500 lo stile
concerto e Mayerbeer la grande opera, così come Benny Goodman creerà il
jazz. Sul piano religioso sono gli ebrei che hanno compiuto la più grande
rivoluzione di tutti i tempi, ossia il monoteismo, che ha scosso le
fondamenta del paganesimo e aperto una nuova era, che ancora oggi si sta
diffondendo ovunque.
Dove tende oggi il mito ebraico, ossia
dove si sta configurando la sua creatività specifica? O, in altre parole,
dove si configura l'identità ebraica, in quali dimensione: religiosa,
politica, sociale, scientifica? Esistono varie risposte, ma ognuna evidenzia
una parzialità, una particolarità limitata. La realtà è che oggi non
sappiamo dove tenda questo mito, possiamo solo evidenziare la presenza di un
grande tema: il ritorno. Ritorno degli esuli in quel miracolo storico che è
lo stato d' lsraele e ritorno, specie nei giovani, all'osservanza delle norme
religiose tradizionali, osservanza che essi comunicano ai loro famigliari ed
amici. È possibile che nel ritorno politico e tradizionale si esaurisca il
mito ebraico dopo quasi quattromila anni dal suo manifestarsi? lo non credo;
vi sono sintomi d'insoddisfazione, individuali e collettivi, e la presenza
di alcuni temi ancora larvati che si osservano in soggetti in psicoterapia,
o comunque in individui che lottano per affermare il loro sé stesso, che
fanno pensare e riflettere. Quello che possiamo fare è essere ebraicamente
aperti ai nuovi sviluppi del mito, ossia ricordarci del vincolo fondamentale
del nostro Io con il sé, con l' accettazione dei contenuti inconsci che da
esso provengono, ossia della nostra anima divina.
Per chiudere, vorrei ricordare quanto
mi disse prima di morire il mio maestro, il dott. Bernhard, un medico
tedesco allievo di Jung e nipote di rabbini chassidici, per nulla
osservante, ma profondamente ebreo. Gli chiesi quale era il segreto
dell'esistenza, ed egli mi rispose con la più ebraica delle risposte: «Non
vi è altro che l' abbandono alla provvidenza divina». Questa è la grande
verità che gli ebrei hanno insegnato al mondo, la caratteristica saliente
del mito ebraico di ogni tempo, da cui gli ebrei hanno tratto e seguiteranno
a trarre la linfa vitale della loro specificità, della loro creatività, la
loro fondamentale identità.
Saggio
pubblicato in: Gianfranco Tedeschi, L' ebraismo e la psicologia
analitica - Rivelazione teologica e Rivelazione psicologica p. 51-56, Editrice
La Giuntina, 2000
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