1. Desidero prima di tutto
ringraziare gli organizzatori di questa sessione di studio per l'invito
che mi è stato rivolto e per l'occasione che è stata creata per un
fecondo scambio di idee, partendo da un'immagine biblica. L'incontro si
svolge in una sede che non ho mai visitato, ma della quale ho sentito
molto parlare; per molti anni ho avuto il privilegio di lavorare su
obiettivi comuni di divulgazione biblica con un gruppo di sacerdoti usciti
da questa scuola ed ho avuto la possibilità di apprezzarne, oltre alla
solida cultura, uno spirito di grande apertura e disponibilità al
confronto. Per una scuola penso questi siano i risultati più lusinghieri
e posso solo augurarmi che un'impostazione così feconda possa ancora
continuare a lungo.
2. Veniamo ora al nostro tema, che è quello di Noè. C'è veramente da
chiedersi in che modo abbia a che fare con l'universalismo e con i
rapporti tra ebrei e cristiani. Potremmo dire con una battuta che, a prima
vista, l'unica cosa di universale nella storia di Noè è il diluvio. La
Bibbia racconta l'umanità era arrivata ad un tale punto di degenerazione
che D. decise di distruggerla completamente, salvando soltanto una
famiglia, quella di Noè, che si era distinto rispetto ai contemporanei
per un comportamento giusto e corretto. Mentre tutti perivano sommersi da
un diluvio, Noè si salvò con i suoi e con ogni specie animale dentro
un'arca. L'intera umanità discende dunque dalla famiglia di Noè; per
questo tutte le genti vengono chiamate, nel linguaggio rabbinico, Noachidi,
figli di Noè. L'interpretazione rabbinica si è a lungo soffermata a
riflettere sui messaggi che il testo biblico manda sulla persona che
diventa il nostro comune patriarca e sulla storia della sua salvezza. Di
Noè il testo dice, presentandolo, che era giusto e integro nella sua
generazione e che procedeva con Dio. Il fatto che il testo precisi che era
giusto nella sua generazione, fa pensare che se la generazione fosse stata
moralmente un po' al di sopra, forse Noè non avrebbe fatto quella figura
di giusto eccezionale. Ma almeno ai suoi tempi lo era. Quanto a quella che
potremmo definire la sua "religiosità", il testo specifica che
"Noè procedeva con D.". Per capire il valore e il limite di
questa espressione dobbiamo fare un salto in avanti. Di Abramo, il giusto
che compare dieci generazioni dopo Noè, il testo dice che ricevette il
comando divino di procedere davanti a Lui. Un conto è andare insieme, un
conto è precedere. Praticamente Noè faceva il suo dovere, seguiva
onestamente le regole, ma non si spingeva oltre con slanci d'entusiasmo. E
ancora, sempre a confronto con Abramo: quando gli viene annunciato che
l'umanità sarà distrutta e che per scampare dovrà costruirsi un'arca,
Noè reagisce come sempre, obbedendo senza fiatare. Abramo, quando gli
viene annunciata la distruzione imminente di Sodoma e Gomorra, intraprende
un'estenuante trattativa con D. cercando di salvare le città peccatrici.
Ci sono persone normali, e ci sono persone speciali. Abramo è il
prototipo delle persone speciali. Noè di quelle oneste ma comuni e senza
slanci. Il dato notevole è che secondo la Bibbia è bastato essere comune
e senza entusiasmi particolari per salvarsi e fondare una nuova intera
umanità.
3. È noto che la dottrina religiosa ebraica costruisce intorno al nome di
Noè e dei suoi discendenti una dottrina di doppia legge e doppia
salvezza. L'umanità intera non può sfuggire al giogo della legge divina,
che si esprime in almeno sette principi essenziali. Questi principi sono
espressi in tradizioni orali rabbiniche che si basano, con maggiore o
minore evidenza, su riferimenti scritturali. Nella famiglia umana esiste
però un gruppo particolare, quello dei figli d'Israele, anch'essi
originariamente Noachidi, ma che in virtù della discendenza da Giacobbe-
Israele, nipote e prosecutore di Abramo, si distinguono in quanto devono
osservare una normativa molto più estesa, fatta anche di altre regole, in
parte religiose cerimoniali. È una condizione che potremmo definire
sacerdotale e di servizio: "un regno di sacerdoti e un popolo
distinto". Il fatto che gli uni siano sacerdoti con rigori e leggi
speciali, e gli altri non lo siano, non preclude agli altri i premi e la
salvezza. La grande novità di questa dottrina rabbinica è che non è
necessario sottoporsi alla dottrina speciale del sacerdozio Israelita per
ottenere i premi futuri che sono promessi agli Israeliti. Universalismo
ebraico significa due strade parallele verso la salvezza; è sufficiente
che ognuno segua la strada in cui si trova dal momento della sua nascita e
ne rispetti le relative norme. Il Noachide, che segue le sue sette regole
e ne riconosce l'origine divina, viene definito "il fervente delle
nazioni del mondo" e ha parte nel mondo futuro.
4. Queste regole sono: il divieto di ogni culto estraneo a quello
monoteistico, il divieto della bestemmia, l'obbligo di costituire
tribunali, il divieto dell'omicidio, del furto, dell'adulterio e
dell'incesto, il divieto di mangiare parti strappate ad animali in vita.
Rappresentano il rispetto imposto sulla creazione, sugli altri uomini e in
rapporto con D. Se trasferiamo questi principi dalla teoria alla realtà
possiamo vedere che la parte sociale delle sette leggi è patrimonio
comune di tutta l'umanità civile; che la normativa sessuale è più o
meno condivisa nelle legislazioni civili, ed è certamente prescritta
in quelle religiose; che la norma di rispetto degli animali è raramente
trasgredita. La bestemmia è certamente proibita nei sistemi religiosi.
Quanto al culto monoteistico, apparentemente non ci sono dubbi per le
grandi religioni. Per i cristiani in particolare, poi, il fatto che
riconoscano sacralità alla Bibbia vale come riconoscimento dell'origine
divina delle norme. Arrivati a questo punto parrebbe che non c'è alcun
dubbio sul fatto che ognuno per la sua strada, cristiani ed ebrei
osservanti, si possa arrivare alla salvezza promessa. Detto questo,
potremmo aver finito, ma le cose non stanno proprio così. E sarà bene
spiegarlo, perché i chiarimenti su questo problema illuminano sulle
difficoltà attuali del confronto ebraico cristiano e danno gli strumenti
per definire gli scenari futuri.
5. È necessario a questo punto un chiarimento sulla teologia ebraica, che
sul tema del monoteismo e di come sia vissuto dal cristianesimo si dibatte
in un dilemma essenziale. Si discute se la divinità di Gesù possa essere
compatibile, per un non ebreo (perché per l'ebreo non lo è
assolutamente), con l'idea monoteistica. La risposta a questa domanda
nella teologia ebraica, come c'era da aspettarselo, non è univoca: c'è
chi la nega fermamente, c'è chi l'ammette a certe condizioni. La
conseguenza è che secondo l'opinione rigorosa il cristiano potrebbe non
essere nella strada per la salvezza.
6. Posso immaginarmi quale sia la reazione di ogni cristiano davanti a
queste analisi. Posso immaginarlo, perché il senso di incredulità, di
protesta, di ribellione che si provano sono gli stessi che possono provare
gli ebrei quando viene loro detto da autorità cristiane che la loro fede
è incompleta, e non può condurre, se non per caso imperscrutabile, alla
salvezza. È incompleta, perché non coronata dalla fede nella salvezza in
Gesù. Molti ebrei hanno protestato lo scorso anno quando un documento
ufficiale e notissimo della Chiesa ha ribadito questo concetto. Ma il
problema non è tanto quello della convinzione della Chiesa nella
necessità per gli ebrei di salvarsi attraverso Gesù. Il vero problema è
che cosa si fa di questa convinzione. Se si dovesse applicare alla lettera
il sistema delle leggi Noachidi, si dovrebbe fare di tutto perché i
Noachidi le osservino, anche per ciò che riguarda il divieto di culti
estranei. Ognuno dovrebbe diventare un missionario della fede pura. Eccoci
dunque al nodo attuale del dialogo e del confronto. A che cosa serve
parlarci? Ciò che veramente da' fastidio agli ebrei è che sia stato
detto in documenti ufficiali cattolici che lo scopo del dialogo è quello
di convertire l'interlocutore alla propria fede. E se facessimo anche noi
lo stesso, se usassimo ogni occasione di confronto per convincervi che
state sì sulla buona strada, ma che dovete "purificare" la
vostra fede eliminando ciò che per voi invece è essenziale?
7. La domanda che allora si pone è se vi siano alternative a questo
dialogo tra sordi, che rischia di diventare irrispettoso e indecoroso per
la dignità di ognuno. Posso provare a immaginare due scenari, diversi ma
non necessariamente contraddittori. Il primo è di tipo essenzialmente
teologico, il secondo prevalentemente politico. La prima soluzione si
riferisce alla possibilità di elaborare in entrambe le parti una dottrina
che potremmo chiamare, con un nome indicativo, di salvezza parallela. I
cristiani dovrebbero arrivare ad ammettere che gli ebrei, in virtù della
loro elezione originaria e irrevocabile, e del possesso e dell'osservanza
della Torà, possiedono una loro via autonoma, piena e speciale verso la
salvezza che non ha bisogno di Gesù. Non basta dire, come si è fatto
proprio recentemente e con un lodevole sforzo di elaborazione dottrinale,
che la nostra "attesa non è vana" perché serve a stimolare i
cristiani; bisogna dire che noi valiamo in quanto tali e nessuno deve
giustificare la nostra fede in funzione di altre. Le conseguenze
sarebbero, in concreto, la fine di ogni tentazione cristiana di
trasformare il dialogo in un sistema di dolce persuasione, demotivando le
diffidenze ebraiche.Da parte ebraica a questo movimento dovrebbe
corrispondere l'affermazione del principio che la fede in G. non sia
incompatibile, beninteso per i cristiani, non per gli ebrei, con il culto
del D. unico. Principio che è accettato in tradizioni autorevoli
dell'ebraismo, ma che dovrebbe diventare prevalente e maggioritario. Ne
deriverebbe da parte ebraica una maggiore comprensione della spiritualità
cristiana. Ora, chiunque abbia una minima esperienza sulle modalità di
sviluppo delle teologie in ognuno dei due campi potrà comprendere le
difficoltà ad arrivare a questi risultati, almeno in tempi brevi e
contestuali tra i due mondi.
8. E allora si propone l'altro scenario, che potrebbe essere definito
politico, e che consiste essenzialmente nella volontà di una sorta di
moratoria, di una sospensione e di un rinvio all'imperscrutabile volontà
superiore alla fine dei giorni. Due grandi ebrei, a distanza di undici
secoli, e schierati in campi opposti hanno forse detto la stessa cosa. Il
primo, Saul di Tarso, l'apostolo Paolo, davanti al dato per lui
inesplicabile dell'incredulità ebraica, ha formulato in Romani 10:25
l'idea dell'ostinazione di Israele che durerà finché tutti gli altri
popoli non arriveranno alla salvezza, e solo allora "tutto Israele
sarà salvato". Il secondo, Mosè Maimonide, nelle norme sui Re del
suo codice (cap. 11), dopo aver denunciato l'invalidità della fede di G.,
ha comunque formulato un'interpretazione sul significato provvidenziale
della diffusione del cristianesimo, "per preparare la strada per il
re Messia, e aggiustare il mondo intero al servizio di D. insieme, come è
detto 'perché allora riverserò sui popoli una lingua chiara perché
tutti invochino il nome del Signore e lo servano unanimamente' "(Zef.
3:9). Forse il pensiero parallelo dei due suggerisce la soluzione, che non
può essere immediata, ma escatologica. Entrambi abbiamo il diritto di
sperare che l'altro riconosca in noi la vera fede, ma lasciamo che la cosa
si svolga in tempi lunghi e incontrollabili.
9. Abbiamo un esempio drammatico e attuale, a noi molto vicino, che ci
suggerisce delle analogie: il conflitto israeliano-palestinese. Due
popoli, due culture che si contendono la stessa terra. Per entrambi la
terra, teoricamente desiderata, in base a storia, fede e politica è la
stessa, dal mare al Giordano e forse oltre. Dal punto di vista politico si
dice che l'alternativa alla violenza e al sangue potrebbe essere la
spartizione della terra. Ma questo non significa che si debba rinunciare a
memorie, alla sacralità dei luoghi, ai sogni. Solo che il sogno non si
può realizzare subito. Molti non cessano di ripetere che la priorità è
quella di una rinuncia territoriale per ognuna delle parti. Per i sogni,
ciascuno dal suo punto di vista, c'è tempo.
Il realismo politico che quasi tutti predicano potrebbe forse essere un
modello di comportamento nel contenzioso teologico ebraico-cristiano.
Anche se in questo contenzioso non vi sono oggi vite in pericolo (forse
delle anime, in qualche visione estrema), le necessità e le
responsabilità impongono un clima diverso, senza rinunciare alle proprie
convinzioni, e al sogno che forse alla fine dei tempi la propria fede
sarà l'unica. Ma nel frattempo togliere quest'obiettivo dall'agenda e
limitare il confronto a tutto il resto, che non è certo poco.
10. Prospettando i due possibili scenari, si parte dal presupposto teorico
che l'unico problema del dialogo ebraico cristiano sia rimasto quello
della conversione dell'altro. Malgrado i notevoli progressi non è così,
perché segnali di arresto e di inversione di tendenza sono sempre
presenti, anche su temi e problemi che si dovrebbero ritenere risolti,
come ad esempio quello della predicazione. Appena una settimana fa, nella
più autorevole delle sedi, sono ricomparsi concetti e metodi che
rischiano di rimandarci al passato. A proposito del conflitto
mediorientale si è riparlato della legge del taglione la cui logica, è
stato detto, non "è adatta per preparare le vie della pace".
Siamo sensibili a questo vocabolario, perché la legge del taglione -
peraltro inesistente nel diritto rabbinico - è un simbolo teologico
preciso della contrapposizione, falsa e inaccettabile, tra una presunta
religione di amore e un'altra invece giustizialista. Come se non bastasse
questo riaffiorare di marcionismo, appare ulteriormente rischioso l'uso di
una categoria teologica per interpretare e giudicare un comportamento
politico. Se si parla di "logica del taglione", concetto
religioso, nel contesto mediorientale, si rischia di attribuire ai
contendenti un'originaria tara culturale e religiosa e questo giudizio non
facilita certo " le vie della pace".
11. Torniamo, per concludere, al nostro antenato Noè che abbiamo lasciato
in un'arca galleggiante sull'acqua. Sappiamo come finisce la storia. Noè
esce dall'arca, pianta una vite e succede quello che succede. L'uomo che
si salva dall'acqua non si salva dal vino. L'uomo, ish, che aveva
esordito come ish tzadiq, uomo giusto (Gen. 6,9), finisce come ish
haadama, uomo della terra (Gen. 9,20). C'è un altro personaggio
biblico -Mosè- che esordisce come salvato dall'acqua, estratto da una
barca resa impermeabile con gli stessi materiali usati per l'arca di Noè.
E anche per lui c'è una metamorfosi nel suo essere ish. Da ish
mitzri, uomo egiziano (Es. 3,19), a ish haeloqim, uomo di D.(Deut.
33,1). Se siamo tutti figli di un antenato comune, troppo umano e
discutibile, possiamo anche essere discepoli di Maestri speciali, come
Mosè nostro Maestro. Per questo abbiamo apprezzato il viaggio del Papa
nel Sinai, come ricordo alla cristianità della Torà data dal cielo a
Mosè. Non è poco come elemento comune da testimoniare al mondo, ognuno
nella sua strada. La Torà è stata data nel deserto, in una terra di
nessuno e senza acqua. L'acqua del diluvio ha sommerso tutto il mondo,
portando la morte, ma noi aspettiamo il giorno in cui "tutta la terra
sarà piena della conoscenza del S. come l'acqua ricopre il
mare" (Isaia 11:9). Non è difficile definire obiettivi comuni:
rispettare l'uomo come immagine divina, dargli dignità, solidarietà e
giustizia, portare il senso del sacro nel mondo. Davanti a questi
obiettivi le piccole prepotenze teologiche, che discendono in gran parte
dal desiderio più o meno inconscio di imporre agli altri in tempi brevi
la propria verità, appaiono veramente come meschinità.
Noè, uscendo dall'arca, riceve l'assicurazione che l'umanità non sarà
più distrutta interamente da D. Questo rischio invece esiste ora, non per
mano divina, ma per mano umana, senza altre garanzie che quelle della
nostra responsabilità, a cui evidentemente non possiamo sfuggire,
specialmente come religioni, con gli impegni e con i fatti prima ancora
che con le forme e le cerimonie. È questo il messaggio autentico dei
profeti, che riconosciamo come radice comune; e la consolazione promessa
della misericordia divina ricorderà ancora le acque di Noè, non più
segno di distruzione ma segno di protezione; come dice il profeta Isaia
(54:9): "quest'impegno è per me come le acque di Noè che ho giurato
che non passassero più sulla terra, così ho giurato che di non adirarmi
più con te".
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