8 di settembre del 1943 lo coglie a Budapest,
non aderisce alla RSI rimanendo fedele al governo del Re.
Internato prima in un castello per diplomatici, man mano che le
sorti della guerra peggiorano per i tedeschi la situazione diventa sempre
più pericolosa, sino al colpo di stato dell’ottobre ‘44 quando le
croci frecciate, i nazisti ungheresi, prendono il potere.
La
situazione diventa drammatica, trova ospitalità all’Ambasciata di
Spagna e come combattente della guerra civile spagnola è in possesso di
un documento a firma del Generale Franco che dice “caro camerata in
qualunque parte del mondo ti troverai, rivolgiti alle Ambasciate
spagnole”. Ottiene un regolare passaporto a nome di Jorge Perlasca e
comincia ad aiutare l’ambasciatore spagnolo nell’opera umanitaria di
protezione che già la Spagna svolgeva di concerto con le altre potenze
neutrali presenti a Budapest.
Il 1
dicembre 1944 Sans Briz, l’ambasciatore spagnolo, lascia l’Ungheria
per la Svizzera; ma Giorgio Perlasca non lo segue e si autonomina Console
spagnolo.
Ed
iniziano i 45 giorni ricordati nel film.
Perché
lo fece e perché mantenne per oltre 45 anni il silenzio.
È
una domanda che mi sono purtroppo posto solo recentemente e non quando mia
padre fu scoperto e ritrovato a fine anni ‘80, e lo vidi anch’io sotto
una nuova veste.
Sorpreso
dalla scoperta ma soprattutto dalla tranquillità e serenità con cui mio
padre viveva quei momenti, diedi tutto per scontato, quasi naturale,
ovvio. Ma non era così.
Rileggendo
con attenzione le due relazioni scritte, sulla base delle agendine, dopo
la guerra per il Governo spagnolo una e per uno scrittore ungherese, si
coglie una parte del perché.
La
prima relazione del giugno ’45 è scritta quasi per scusarsi di aver
usurpato un posto non suo ma di averlo fatto per il bene e l’onore della
Spagna. Così termina questa
relazione “mi permetto di credere
che la gravità della situazione e la necessità inderogabile di salvare
con qualunque mezzo la vita di migliaia di persone, possano giustificare
la singolarità, forse senza precedenti, della posizione da me assunta nei
confronti della Legazione di Spagna a Budapest. Il pieno successo della
mia opera, per le sue alte qualità umanitarie, oso pensare non disdica al
decoro della Spagna e alle sue grandi tradizioni civili . . . “
Nello
stesso momento avverte, per correttezza, con lettera del 12 giugno ’44
il Console generale d’Italia ad Istanbul (ove si trovava sulla via del
ritorno in Italia) di aver consegnato una relazione al Governo spagnolo su
quanto aveva fatto.
La
seconda (chiamata pro memoria) che racconta in maniera impersonale, quasi
da testimone e non da protagonista, quei 45 giorni, solo per ristabilire
una verità storica, viene redatta su richiesta dello scrittore ungherese
Jeno Levai.
Riteneva
semplicemente di aver fatto il proprio dovere e chi fa il proprio dovere
non deve aspettarsi una ricompensa.
Il
tutto poi “aggravato” dal fatto che, pur non essendo fascista
dall’epoca dell’alleanza con la Germania e dalle sciagurate leggi
razziali mai divenne antifascista, mai rinnegò il passato, la guerra in
Spagna come volontario, anzi.
E
dal fatto che il ruolo della Spagna ne usciva troppo bene per il periodo,
come una nazione che aveva contribuito a salvare, e non solo in Ungheria,
migliaia e migliaia di ebrei
Negli
anni ‘50, poi, il settimanale Il Tempo di Milano pubblicò un servizio
su Wallenberg accreditando la tesi che fosse stato ucciso o deportato dai
russi. Giorgio Perlasca scrisse una lettera (18 febbraio 1957)
raccontando, lui che Wallenberg l’aveva ben conosciuto e con cui aveva
collaborato costantemente e giornalmente, la sua convinzione che fosse
rimasto ucciso per tragica fatalità durante i giorni caotici
dell’ingresso delle truppe dell’Armata Rossa in città. Ma senza
rivendicare ruoli, solo come testimonianza storica.
Così
come prima di andarsene da Budapest trova il tempo e la voglia di aiutare
il maggiore Tarpataki, l’ufficiale ungherese “buono” che lo aveva
aiutato in quei 45 giorni, scrivendo una lettera autografa alla Polizia
politica sovietica, spiegando quanto di buono aveva fatto il maggiore.
Tutta
la sua vicenda poteva essere conosciuta già nel primo dopoguerra ma
nessuno ne ebbe la volontà, la voglia, la convenienza forse a renderla
nota.
Sans
Briz continuò la carriera diplomatica, fu anche ambasciatore presso la
Santa Sede negli anni ‘60, ma mai volle riconoscere il ruolo di Giorgio
Perlasca. Ma per fortuna il
tempo è stato galantuomo, ristabilendo la verità storica e morale.
Giorgio
Perlasca riteneva di aver fatto il proprio dovere.
Lei,
cosa avrebbe fatto al mio posto, vedendo gente inerme uccisa senza un motivo,
era la risposta che dava alla domanda ricorrente: perché lo ha fatto ?
E
chi fa il proprio dovere non deve essere premiato; d’altronde chi
voleva, chi doveva sapeva; dalla Spagna, ai Governi delle potenze neutrali
che avevano cooperato con lui nel salvataggio degli ebrei, al governo
italiano che aveva copia del memoriale.
Nei
suoi diari ricorda l’incontro con il nunzio Pontificio Monsignor Rotta a
cui, in confessione, rivelò di non essere uno spagnolo ma un italiano,
chiedendo di avvertire la famiglia se gli fosse successo qualcosa.
Ma
nessuno ricordò.
E
cosa doveva fare; cercare di vendere la sua storia per avere qualcosa in
cambio. Non era il suo carattere, il suo stile.
Forse,
pensò, a nessuno interessa sapere quanto era successo.
E
la sua storia rimase nel cassetto sino a che non fu ritrovato da queste
donne ungheresi e tedesche e la storia uscì sia pur faticosamente.
Era
difficile credere che un uomo solo, senza struttura, inventandosi un ruolo
avesse salvato oltre 5200 persone. Si metteva in crisi un apparato: cosa
si sarebbe potuto fare con una struttura, allora.
Vi
fu Mixer, il libro di Deaglio, le onorificenze in Israele, Ungheria, Stati
Uniti, Spagna ed Italia. Giorgio Perlasca venne a mancare il 15 agosto del
92; poi tutto sommato calò l’oblio, la sua vicenda rimase confinata in
un ristretto cerchio, di quasi addetti ai lavori.
Quando
– penso – in altri paesi sarebbe diventato l’eroe, l’esempio da
imitare. Ma l’Italia è uno strano paese che spesso sembra vergognarsi
dei grandi italiani, che l’Italia l’hanno amata (penso a Cefalonia
episodio totalmente dimenticato) e tende ad esaltare e compiacersi sugli
esempi in negativo.
Poi
il progetto del film, faticoso, lungo, non semplice; era una vicenda dura,
scomoda e con tanti stop. Quello che chiedemmo fu una storia rispettosa
dei fatti, senza tentazioni ideologiche di parte, e con due assicurazioni
che sempre mio padre aveva richiesto: non parlare male della Spagna del
generale Franco e non parlare o inventare storie private.
Entrambe
sono state rispettate; il film è la trasposizione della vicenda di quei
45 giorni, senza indulgere in sentimentalismi o storie d’amore
inventate.
Un
film coraggioso per la Rai, una scommessa vinta però: quei 13 milioni di
spettatori alla seconda puntata, con uno share di oltre il 43%,
testimoniano che i tempi erano maturi per una storia di questo genere.
Dopo
il film ho ricevuto, all’indirizzo e-mail del sito dedicato a Giorgio
Perlasca, centinaia di messaggi la maggior parte dei quali rivendicava,
finalmente, l’orgoglio, la riscoperta dell’orgoglio d’essere
italiani.
Una
vicenda, questa, che unisce, che deve unire e non dividere, al di sopra
d’ogni ideologia; una storia non contro ma per qualcuno e qualcosa.
E
questa riscoperta dell’orgoglio di essere italiani avrebbe fatto felice
mio padre, che amava l’Italia ed amava orgogliosamente essere italiano.
Sempre
e comunque, mantenendo l’autonomia di pensiero.
La
frase finale del film quando il maggiore ungherese saluta Giorgio Perlasca,
ricercato in quel momento dai russi è sintomatica; cambiano i vincitori
ma lei rimane sempre dalla parte degli sconfitti.
Frase
bellissima che spiega molte, troppe cose. Così come il racconto di quel
compatriota, tal B., che a Budapest nel dicembre del 1944 lo accusava di
essere un “traditore” in quanto proteggeva gli ebrei e che mio padre
ritrova a Venezia nell’agosto del 1945 nominato dal CLN direttore
dell’alimentazione della provincia di Venezia.
La
metafora dell’intera vicenda è comunque rappresentata dai versi della
tradizione ebraica sui 36 giusti; al mondo esistono sempre 36 giusti,
nessuno sa chi sono e nemmeno loro sanno d’esserlo, che prendono sulle
loro spalle il destino del mondo e rappresentano il motivo per cui Dio non
lo distrugge.
E
la storia di Giorgio Perlasca è la storia di uno dei 36 Giusti; nemmeno
lui sapeva d’esserlo ma è riuscito a dare dignità ed amore ad un
periodo tragico.
Lo
stesso concetto lui lo esprimeva con un proverbio.
L’occasione
può rendere l’uomo ladro od eroe; a me – diceva – ha portato a fare
quello che ho fatto.
Franco Perlasca
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Ringraziamo la Comunità Ebraica di Cassino,
che ci ha messo a disposizione questo articolo ricevuto direttamente da
Franco Perlasca