I registri della comunità documentano oggi
poco meno di mille nomi. Gli ebrei di Varsavia erano 360.000 prima della
occupazione tedesca, tre milioni e mezzo in tutta la Polonia. Una piccola
sinagoga, un istituto di Storia, via Prozna dove due fabbricati compresi nel
primo ghetto - il "grande" - sono rimasti intatti. Stessi mattoni
rosso scuro, le stesse finestre, gli stessi portoni di legno, gli stessi
androni. E il grande cimitero ebraico. Ha tre secoli, le date sulle tombe
cessano a metà del secolo scorso. È il cimitero di un popolo scomparso.
Marek Edelman è l'ultimo grande testimone
della partenza, della estinzione e della rivolta degli ebrei di Varsavia. Ha 85
anni, è l'ultimo comandante ancora vivo della rivolta del ghetto, vive a Lodz
dove esercita ancora come cardiologo. Nella sua lunga vita - "troppo
lunga" dice - come militante del Bund (1)
organizza l'ultima resistenza del
ghetto, sfugge allo sterminio con una lunga fuga attraverso le fogne e partecipa
poi alla insurrezione di Varsavia. Testimone scomodo, isolato dal regime. Rompe
apertamente con l'apparato durante i moti antisovietici del '68, fa parte dei
circoli intellettuali di opposizione ed è delegato di Solidarnosc per la città
di Lodz alla nascita del movimento.
Dottor Edelman, gli ebrei di Varsavia un
popolo scomparso. Non rimane che il grande cimitero…
«Anche il cimitero comincia a scomparire. Quando non c'è il popolo, non ci
sono le famiglie che si occupano delle tombe, tutto viene abbandonato e coperto
dalla foresta. Malgrado ci fosse un grande antisemitismo prima della guerra in
Polonia, le grandi culture si mescolavano. Tradizionalmente i cimiteri ebraici
hanno la pietra tombale dritta senza nessuna decorazione, è dalla cultura
cristiana che sono trasmigrate le tendenze ad abbellire, a costruire ornamenti e
architetture. È un esempio della osmosi tra le varie culture. A Suwaicki, una
cittadina al nord della Polonia, quasi al confine della Lituania, c'erano sino
alla guerra delle pietre tombali dei discendenti del grande Maimonide».
In un libro Lei viene definito "il guardiano" della memoria del Suo
popolo. È così?
«Quando si è accompagnato un popolo alle camere a gas, ai vagoni che lo
portano nelle camere a gas, bisogna avere il dovere di ricordare. L'impegno che
ho preso è rimanere sino alla fine con quel popolo. Sotto le macerie del ghetto
e sotto i quartieri e le case dove oggi la gente abita e vive, ci sono le ossa
del popolo ebreo e anche queste ossa vivono finchè c'è qualcuno che ricorda
quello che è avvenuto. Purtroppo debbo essere con loro, il mio impegno è di
essere con loro. Soprattutto in un paese come questo dove ci sono persone che
debbono vergognarsi. Quando si ricorda loro il passato qualcuno diventa meno
arrogante».
C'è ancora lo spiazzo di Umschlagplatz, c'è ancora via Stawki. Lì, Lei,
inserviente dell'ospedale, li vedeva partire per Treblinka...
«Non è vero ciò che raccontano o fanno vedere nei filmati: persone che
protestano, si lamentano, piangono, urlano. No. Era una massa di persone
rassegnate che saliva sui treni. La sopraffazione, la violenza della
sopraffazione è un elemento che distrugge l'uomo non solo fisicamente ma anche
psicologicamente, moralmente. E la fame è un alleato prezioso della
sopraffazione. Per convincere gli ebrei a partire i tedeschi distribuivano anche
tre chili di pane e marmellata. E c'erano lunghe file per farsi mettere sui
convogli».
Lei, uno dei comandanti quando il ghetto combatte dal 19 aprile al 10 maggio
del '43. Come guarda a quei giorni?
«Ci fu un periodo di alcuni mesi, dall'ottobre del '42 fino alla insurrezione,
in cui io e due-tre amici avevamo la responsabilità di tutta la popolazione
sopravvissuta, ancora viva nel ghetto. Noi eravamo il potere reale. Lo Judenrat,
l'amministrazione e la polizia ebrea che collaborava con i tedeschi, esisteva
ufficialmente, ma non contava più nulla. Eravamo noi gli amministratori del
ghetto. La popolazione ascoltava noi, aspettava le nostre istruzioni e ci ha
consegnato la propria vita. Per quello noi siamo responsabili, io mi sento
responsabile».
Lei entra a 14 anni nel Bund - la Lega dei lavoratori ebrei - e nel ghetto è un
responsabile del Bund. Quando si legge il programma del Bund si pensa a una
grande occasione storica mancata. È d'accordo?
«Non sono d'accordo. Malgrado il Bund non esista più, il Bund ha vinto tutto.
Questo bacino compreso tra la Vistola e il Dnjeper, era il focolaio delle menti
più importanti, più vive. Il Bund, nato nel 1897 è il pilastro delle grandi
socialdemocrazie del secolo. Cosa voleva il Bund? L'uguaglianza per le minoranze
nazionali, la giornata di 8 ore di lavoro, l'uguaglianza delle donne, i diritti
dell'uomo. I postulati del Bund sono un dato di fatto in Europa».
Il Bund è sempre stato contrario alla costruzione di uno Stato ebraico, ma
Israele c'è. Problema non da poco, Le pare?
«Sì, purtroppo. Ma ci sono cinque milioni che vivono lì e debbono continuare
a vivere. Lì c'è la guerra e durante la guerra avvengono cose atroci,
tremende. Gli ebrei lì non hanno una grande politica e neanche Arafat è una
grande testa politica. Dal '48 fanno errori politici tutti quanti. Si sono messi
in un vicolo cieco. Quando uno stupido butta la pietra nell'acqua, dieci saggi
non riescono a tirarla fuori. Questa è la disgrazia. Adesso lì si incrociano
gli interessi di tutto il mondo».
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1.
Con il termine tedesco Bund, che significa
associazione, si è soliti indicare in forma abbreviata il movimento socialista
ebraico Algemeiner Jidisher Arbeterbund in Lite, Poilen un Russland (espressione
jiddisch che significa Federazione generale dei lavoratori ebrei in Lituania,
Polonia e Russia). Il Bund fu fondato a Vilna nel 1897 soprattutto come
sindacato operaio, ma in seguito svolse una funzione di vero e proprio movimento
politico. Tenace avversario del sionismo, si batteva per la salvaguardia
della lingua jiddisch e per i diritti degli operai ebrei nell’Europa
orientale. Mentre in Russia, nel 1921, confluì nel partito bolscevico, in
Polonia continuò a esercitare un importante e
autonomo ruolo fino all’invasione nazista.