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Quando il sole a picco l'inonda scolorandola come il fuoco
scolora il metallo che arroventa, Gerusalemme appare nitida e
chiara: una carta topografica, una città in cui nessuno
potrebbe perdersi né tendere agguati, perché tutto non può
che accadervi alla luce del sole. Questo sole che l'illumina
adempiendovi alla chiarissima e chiarificante funzione di
lume, si chiama shemesh, nome che solo la differenza
delle vocali distingue da shammash: inserviente. È il
sole che serve a distinguere il giorno dalla notte e la luce
dalle tenebre. Se però distinguere il giorno dalla notte è
espressione che va intesa nel suo senso più piano e
letterale, distinguere la luce dalle tenebre implica un modo
di sceverare che, quando separa con troppo immediata nettezza,
può indurre smarrimento. Perché la troppa luce annienta le
sfumature, e ovunque si trovi contrastata da un muro, dalla
curva di una strada, da un panno steso a una finestra o sia
pure dal volo di un uccello, genera ombre accecanti: contrasti
improvvisi come agguati.
Il
sole che così ne scandisce i percorsi e fa di Gerusalemme una
città in bianco e nero, si chiama chammà da chom, calore.
E questo sole è incandescente come il fuoco che imbianca i
metalli con cui si forgiano le armi, mentre comunque vengano
usate, le armi deturpano ogni candore col fitto nero del
lutto. Certo, ben diversi nelle loro finalità sono il gesto
che impugna l'arma per l'offesa e quello che la usa per la
difesa, ma le parole offesa e difesa non sono che i due
opposti poli della parola guerra, e spesso, troppo spesso nel
corso dei millenni, sono stati opposti quanto accecanti
convincimenti di agire in nome di ragioni odi fedi vissute
come uniche e impareggiabili, a scatenare le guerre che hanno
imbrattato di lutto Gerusalemme.
Tremendo
fu lo scontro intestino, mentre i romani premevano alle porte,
fra gli ebrei che avrebbero voluto scendere a patti per
risparmiare almeno il tempio dell'Eterno Dio Vivente, e quelli
che invece rifiutavano ogni compromesso proprio in nome della
sacralità del tempio. Furono questi ultimi a prevalere per
soccombere poi sotto l'urto dei soldati di Roma, a loro volta
accecati da una concretezza di pensiero che impediva loro di
comprendere e tollerare, perché non poteva non avere in
superstizioso orrore l'inafferrabile Dio d'Israele. Quel Dio
alieno dalle immagini che raffiguravano tutto ciò cui essi
erano usi, e quindi loro stessi e il loro mondo, per porli di
fronte all'alterità massima: l'assoluta alterità fra divino
e umano. E quando infine le fiamme degli incendi accesi dalle
torce romane si incunearono nelle canne del grande organo,
dalla crollante dimora terrena del Dio invisibile si levò un
urlo disumano che assordò insieme sostenitori dei compromessi
e paladini dell'intransigenza, conquistati e conquistatori
cementando ognuno nella propria assoluta perentorietà.
Altrettanto
perentorio fu, circa un millennio più tardi, lo slancio con
cui i crociati scalarono le mura della Città Santa, per
redimerne l'anima inondandone però le strade di sangue sia
musulmano che ebraico: comunque sangue infedele. Perentorio e
ispirato a una fede che si voleva contrita, pur non avendo
nulla da invidiare alla protervia romana.
Questi
assalti, queste distruzioni, questi massacri non furono i
primi ne gli ultimi. Altri li avevano preceduti, altri li
seguirono, tutti furono portatori delle atrocità secondarie
che sempre fanno da scia a lotte intestine, guerre e
dominazioni intransigenti. Quasi ad avvertirne il visitatore
ignaro della sua storia, la cittadella di Gerusalemme si
presenta chiusa in un anello di lapidi d'ogni tempo e fede.
Una casa dei morti stringe d'assedio il cuore palpitante della
sua vita, e però circolare come circolari sono i cicli della
vita stessa, e disseminata di secolari alberi d'olivo, la
pianta che come l'anelito alla pace ha fama di non morire mai.
E così come i sempreverdi olivi temperano di speranza il
rigore delle sue tombe dalle molte fedi, leggende e simboli
d'ogni sorta infiorano le cupe realtà della sua storia.
Leggende
e simboli indispensabili a comprendere proprio le realtà
della storia, anche e forse tanto più proprio quando ne
sfalsano l'oggettività. Perché Gerusalemme, la dimora
terrena scelta dall'Eterno Dio il cui sigillo è Verità, non
ha mai albergato un'unica verità religiosa. Perfino in seno
al solo ebraismo le verità religiose di Gerusalemme si
intrecciano osi scontrano spiegandosi oppure negandosi a
vicenda, e accavallandosi con ideali laici vissuti come
religioni con evidenze innegabili e che pure un'altrettanto
innegabile incongruità ammanta di mistero.
Non
è per esempio incongruo che in una zona di alture
geograficamente strutturate come inespugnabili fortezze
naturali, la cittadella di Gerusalemme sia stata eretta su una
vetta riarsa e lontana anche dalla più vicina polla d'acqua:
l'unica vetta della zona che, come Amos Oz nota nel suo Gerusalemme
città di specchi, presenta un lato vulnerabilissimo? Non
dovrebbe perciò destare meraviglia che a stabilire su questa
vetta la capitale del suo regno e quindi a farne per forza di
cose la più intima fortezza, sia stato proprio David, il re
guerriero che di assedi e battaglie doveva intendersene? E
anche volendo ammettere che David se ne sia invaghito al punto
di non poter prendere in considerazione nessun'altra altura,
come mai ne a quanti hanno occupato dopo di lui il trono di
Giuda, ne ai diversi dominatori che li hanno seguiti è venuto
in mente di andarsi ad arroccare su un'altra e davvero
inespugnabile vetta?
Quando
logica politica e necessità strategica li impongono, i
trasferimenti di capitale sono prassi consueta nelle storie
degli stati. Gerusalemme deve quindi avere esercitato un
fascino irresistibile su chiunque, possedendola e pur non
sopportando l'idea di perderla, l'ha voluta lì e così
nonostante l'arsura strutturale e la fragilità difensiva.
Forse perché l'acqua, spesso paragonata alla purezza della
fede sincera, deve essere anche premio di valente, continua
conquista, bene preziosissimo che non può darsi per scontato?
Perché il lato naturalmente arroccato e inespugnabile di
Gerusalemme volta le spalle al tramonto, mentre il suo valico
naturale è sempre baciato dal primo sole? Perché questi due
elementi insieme sembrano star li a dimostrare che il suo
possesso va vissuto come testimonianza di un favore divino da
ostentare oppure da ambire?
lo
non sono una storica e le realtà storico-geografiche cui
accenno mi vengono da libri di storia che non riesco a leggere
senza gli occhiali di una riflessione intrisa di leggenda
ebraica, come pure di poesia d'amore odi fede. Leggere delle
rivalità che hanno avvelenato Gerusalemme, delle stragi che
l' hanno insanguinata, dei tesori che fra una guerra e l'altra
le sono stati donati e che di guerra in guerra le sono stati
sottratti per essere portati in innumerevoli Babilonie a un
tempo più forti e più caduche, comunque avide della sua
mistica autorevolezza, è per me vedere un flusso d' oro che
da lei si diparte per andare a riverberare la sua essenza nel
mondo intero. Perciò, insieme con William Blake, mi viene
fatto di cantare: «Ti do il capo di un filo d'oro, / tu
avvolgilo, fanne un gomitolo, / ti guiderà alla porta
del cielo / che si apre sopra le mura di Gerusalemme».
E perciò pensando a quando il cielo si apre per
comunicare con la terra, ricordo che stando all'esegesi
rabbinica proprio qui, sotto la porta del cielo, nel luogo
stesso dove sorgeranno il tempio e l'altare per le offerte, è
stato commesso il primo assassinio.
Il
cielo si era già aperto per ricevere i sacrifici dei due
primi fratelli, ma solo quelli del pastore Abele che aveva
immolato le parti grasse e scelte dei più teneri fra i suoi
animali, vi aveva trovato accoglienza. Con cupo rancore
l'agricoltore Caino si era visto rifiutare la frutta che pure
sapeva di avere colta a casaccio, quasi l' offerta di un dono
non meritasse speciale attenzione.
Dio
l'aveva ammonito contro gli irriflessivi moti d'ira: «Attento»
gli aveva detto lasciando intendere che per ogni essere umano
la porta dell'anima deve essere contigua a quella del cielo.
«Attento, il peccato è in agguato alla porta, ma tu devi
dominarlo». E lo devi in quanto lo puoi.
L
'episodio illustra due diversi modi d'intendere e praticare i
rapporti con la Divinità e testimonia del pessimo carattere
di Caino, ma anche se la Scrittura sembra farne l'introduzione
all'assassinio che per primo intrise di sangue la terra di
Gerusalemme, può anche non essere letto come sua causa
diretta. La tradizione rabbinica separa infatti i due episodi
dando dell'assassinio una lettura premonitrice delle
passioni che faranno di Gerusalemme una fortezza perennemente
contesa: le passioni base di ogni umano eccesso.
In
Genesi IV ,8 è scritto: «E disse Caino ad Abele suo
fratello, e accadde che mentre erano nel campo, Caino si levò
contro Abele suo fratello e lo uccise». Il testo non accenna
neppure a quel che Caino avrebbe detto, in compenso i rabbini
ipotizzano che parlò anche Abele, e drammatizzano il loro
dialogo in tre separate versioni. Una attesta che i due
fratelli, unici eredi della prima coppia umana, si erano
accordati per spartirsi il mondo: a Caino l'agricoltore era
toccata la terra e al pastore Abele i beni mobili. Subito però
l'avidità di possesso aveva sconvolto le loro menti. «Gli
abiti che indossi sono tessuti con la lana dei miei agnelli!
Spogliati!» aveva gridato Abele mentre Caino gli ingiungeva:
«La terra su cui cammini è mia! Vola!». Siccome Abele non
riusciva a volare, erano venuti alle mani con le conseguenze
che sappiamo.
In
base alla seconda versione Caino e Abele si sarebbero divisi
in parti uguali beni mobili e beni immobili, per trarne poi
subito motivo di contesa. «Il tempio sorgerà nel mio
territorio!» avevano gridato entrambi, chiaramente
intendendo: «Saranno la mia religione e le mie leggi a
dominare, e tu o chinerai la testa o te la taglierò». Così
introducendo nel mondo l'intransigenza religiosa e la
prepotenza politica, si erano scagliati uno contro l'altro e
Caino aveva ucciso Abele. Secondo la terza versione erano
scesi a vie di fatto per via di Eva che era sì la loro madre,
ma era anche l'unica donna esistente al momento, e per quanto
possa sembrare strano, proprio questa terza versione getta su
Gerusalemme e sulle passioni di cui viene fatta oggetto, una
luce tanto più illuminante in quanto squisitamente simbolica.
Punto
d'attrazione e d'incontro di culture, fedi, ideali tutti
assoluti, tutti determinati a presentarsi come l'unico tanto
puramente candido da meritare di possederla, troppo spesso la
troppo amata Gerusalemme è stata vittima di malintesi amori.
Perché malinteso è l'amore che invece di cercare soprattutto
il bene dell'oggetto amato, vuole l'oggetto amato solo per sé,
a costo di mandarlo distrutto o di avvelenarne il respiro pur
di non cederlo né condividerlo con altri. Città con una
storia particolarissima che non si lascia leggere come le
storie delle altre città, Gerusalemme è stata ed è amata
con la passione esclusiva che si dedica a una moglie, a una
madre, comunque al fondamento femminile di una maschile storia
individuale.
Lo
stesso essere stata tante volte eletta a capitale d'una
singola fede in un luogo che l'esibisce a ogni sguardo e
quindi a ogni brama senza però garantirle l'imprendibilità,
l'accosta a quelle mogli che la superbia di mariti gelosi
agghinda e ostenta per metterne alla prova la fedeltà, senza
però che venga loro garantita quella pace interiore che è
l'unico vero baluardo contro ogni cedimento. E come queste
mogli, una volta perdute, diventano specchi di rimorsi e
rimpianti, ecco la Gerusalemme vedova e madre di figli
esiliati, che nelle Lamentazioni piange in gramaglie
sulle rovine del proprio passato splendore, infestate ormai da
rovi e scorpioni.
La
madre che da gestante è tutt'uno col figlio e poi accetta che
dal suo corpo si distacchi, che lo nutre con la propria linfa
ma per dargli vita autonoma, che sempre perdona e sempre torna
ad accogliere, punto focale di esistenza ed essenza, è per
l'ebraismo figura concretamente palese eppure inscrutabile in
quanto il rapporto madre-figlio è in se stesso mistero. E non
è misterioso il rapporto fra Gerusalemme e i suoi figli
ebrei?
Se
nasce ebreo chi è figlio di madre ebrea, se nel Libro dei Proverbi
l'insegnamento di questa madre è chiamato Torà come
la base prima di ogni insegnamento ebraico, se sempre nei Proverbi
al figlio viene raccomandato di non distaccarsi da questo
insegnamento perché da esso dipende la sopravvivenza
dell'intero Israele, ebbene, allora, quanta parte della
sopravvivenza d'Israele è dovuta alla grande madre
Gerusalemme o, meglio, al ricordo di lei? Soprattutto al
ricordo, che insieme con 10 studio della Torà per
secoli e secoli ha fatto sì che gruppi di esuli dispersi per
il mondo e onnai diversi fra loro per la lingua
quotidianamente parlata, per gli abiti, per le golosità
gastronomiche e perfino per le caratteristiche somatiche,
continuassero a sentirsi parte di un'unità chiamata Israele.
Un'unità integra che dal giorno dell'esilio una volta
all'anno in coro ha continuato ad auspicare: «L 'anno
prossimo a Gerusalemme!».
I
ricordi non sono dati storici e mai persistono immutati.
perfino quelli individuali tendono a sfumare e a trasformarsi
sotto l'incalzare delle esperienze con cui vengono a contatto.
Se poi le esperienze li tingono di rimpianto, diventano dignità,
dovere. «La destra mi si paralizzi se ti dimentico,
Gerusalemme. La lingua mi si incolli al palato se non ti
ricorderò, se non porrò Gerusalemme in cima a ogni mia gioia»
canta il salmista esiliato a Babilonia. Dalla Toledo d'inizio
millennio Jehudà ha-Levi echeggia: «Il mio cuore è in
Oriente e io sono al confine d'Occidente. Come trovare sapore
nel cibo? Come può il cibo essere dolce per me? Come potrò
adempiere ai miei voti... quando Sion è ancora in ceppi di
Edom e io sono qui fra gli arabi in catene?».
Certo
né il salmista né Jehudà ha-Levi ignorano le tante parole
amare scagliate dai profeti all' indirizzo di Gerusalemme.
Essi però di certo non ignorano neppure che nella città di
Gerusalemme i profeti hanno di volta in volta additato il
contenitore delle malefatte dei suoi governanti, mentre nel
sogno messianico che fa da contrappeso a ogni loro rampogna,
una futura Gerusalemme redenta è alveo di armoniose fioriture
d'amore e concordia universali. Ebbene, per gli ebrei dispersi
le profetiche visioni del futuro si fondono alla nostalgia di
un passato che il rimpianto aureola di gloria, e che bisogna
sforzarsi d'imitare nella speranza di farne rivivere lo
splendore.
Ed
ecco che in Spagna, in Italia, in Lituania, ovunque insomma
gli ebrei si imbattono in governi che consentono loro di
coltivare in relativa tranquillità studi e costumi
particolari e particolarmente amati, ecco che in ogni città o
centro baciato dalla tolleranza dei gentili nascono
innumerevoli, nuove, piccole, fervidissime Gerusalemme. Tesori
di libri, ricami, oggetti di culto, speculazioni mistiche e
costumi gioiosi, canti conviviali, di fede e d'amore
scaturiscono dalle radici enfatiche di queste cittadelle del
ricordo, per disperdersi però a uno a uno col ciclico
estinguersi delle tolleranze dei gentili. E come dalla
Gerusalemme in rovina si era sparso per il mondo il flusso
dorato del suo ricordo unificante, dallo spegnersi delle tante
Piccole Gerusalemme si dipartono fili e fili che avvolgendosi
in gomitoli arrivano alla Gerusalemme bianca e nera della
storia, per inondarla col sole dei suoi crepuscoli.
È
un attimo quello in cui levandosi oppure tramontando il sole
l'investe coi suoi raggi obliqui. In quell'attimo Gerusalemme
diventa tutta d'oro, quasi si specchiasse nella città gemella
che l'attende alla porta del cielo.
Sogno di aspirazioni alla pace ciclicamente frustrate dalle
vicissitudini della Gerusalemme terrena, la Gerusalemme
celeste ne è il controluce spirituale, l'esempio, l'invito,
lo stimolo. Scenderà su di essa e con essa si fonderà,
quando la Gerusalemme terrena sarà capace di elevarsi verso
il cielo per raggiungerla. Dal cielo intanto, nel breve attimo
dei suoi crepuscoli le legge ogni giorno il Cantico dei
Cantici perché, come dice lo Zohar, «unendo fra
loro tutti i cantici celesti, questo cantico racchiuse in sé
tutti i misteri della Legge e della saggezza, come pure tutti
gli eventi passati e futuri». E di Legge e saggezza ha
bisogno la Gerusalemme terrena, come pure di ricordare, per
costantemente indagarlo, il mistero della propria nascita,
quando emerse dalle acque dell'inizio, primo lembo di terra e
pietra, ombelico del mondo creato da Elohim.
Ma
chi, che cosa è Elohim? Elohim è Dio e Elohim è anche il
nome con cui si definisce l'aspetto giudicante della Divinità,
quello di cui il Signore dell'universo si avvale per mantenere
tutto ciò che è di questo mondo. E come fa a mantenerlo? Lo
mantiene in virtù del segreto insito nelle lettere di questo
Suo nome, che se anagrammate danno: Mi elI eh, cioè a
dire: chi, che cosa sono queste cose? Col Suo attributo
giudicante, l'attributo del Supremo Giudice, infallibile perché
prima di emettere giudizi non solo si interroga, ma consulta
l'attributo della misericordia, indispensabile per temperare i
giudizi e dare durata a ogni creazione, Dio ha quindi
proceduto per gradi dando tempo al tempo.
Come
sarebbe: ha proceduto per gradi, e cosa significa: dando tempo
al tempo? Significa che essendo il pensiero divino creazione,
l'universo divenne realtà creata nel momento stesso in cui
Dio pensò di crearlo. Siccome però gli elementi che lo
compongono sono diversi e passibili di trovarsi in contrasto
fra loro, Dio li mise in atto uno a uno, dopo essersi e averlo
interrogato in modo da dare a ognuno il tempo di abituarsi
all'altro e, prima ancora, di avvertirne il bisogno e perciò
attenderlo come si attende un oggetto d'amore.
Dalle
acque dell'abisso, che si aprirono per amor suo, il monte di
Gerusalemme emerse per primo, ombelico che lega la terra al
cielo, perché le creature impastate con la terra avrebbero
avuto bisogno di sentirsi legate al cielo, per trame
ispirazione. Quando poi campi e fiumi e mari e foreste
avvertirono la necessità di una presenza umana che li
governasse, in un crepuscolo fra giorno e notte che fu
annuncio dorato dei crepuscoli di Gerusalemme, e con la
migliore terra della sua vetta vennero plasmati Adamo ed Eva,
il padre e la madre di tutte le creature, i primi sposi della
storia del mondo.
«Lekhà
dodì licrat callà» cantano gli ebrei nel crepuscolo del
venerdì sera: «Vieni, mio diletto, incontro alla sposa». E
sposa d'Israele è il Sabato, ultimo giorno della creazione,
che andrebbe vissuto come un assaggio dell'era messianica.
Vuole però la tradizione che questo canto vada,
nell'intenzione, rivolto a Gerusalemme, perché sarà
Gerusalemme ad annunciare questa èra quando sul suo monte si
poserà la pace. Quando cioè potrà smettere le gramaglie e
stringersi al cuore i figli che nell'intimo dei loro cuori si
rifaranno a lei, e perciò saranno fra loro concordi pur
essendo diversi come le lapidi che inanellano l'ombelico della
sua vetta.
Il
mistero di Gerusalemme, quel mistero che i suoi crepuscoli da
sempre annunciano e che Gerusalemme ancora stenta a rivelare,
è il vitale mistero delle preziose alchimie che si realizzano
quando più comunità di esseri umani si integrano in umanità
senza perciò rinunciare alle proprie specifiche valenze, e
così facendo si elevano verso il cielo facendo scendere il
cielo sulla terra. Ebbene lì, a mezz'aria, nel punto
d'incontro che fa della vita d'ogni giorno un'esistenza tesa
oltre la quotidianità, si libra la Gerusalemme d'oro. Ci
voleva un poeta per afferrare con una sola mano questi due
aspetti estremi della sua valenza. Jehudà Ammichai l'ha fatto
ricordandoci:
Ci sono preghiere infisse nelle fessure del muro del pianto
bigliettini
di carta ripiegati e l'uno all'altro appiccicati.
Un
bigliettino solitario se ne sta invece infilato in una vecchia
porta di ferro
seminascosta da un cespuglio di gelsomino:
«Non
sono riuscita a venire,
spero
che capirai».
Potrebbe
averlo scritto la pace, cui l'attimo dell'incontro viene
sempre impedito. Potrebbe averlo scritto l'amata del Cantico,
che per le strade di Gerusalemme cerca e attende il suo
amato, e che vuole a sua volta farsi cercare e attendere da
lui. Potrebbe semplicemente averlo scritto una qualsiasi
ragazza innamorata. Per sapere chi sia, non c'è che da
attenderla così come chiunque sa veramente amare sa anche
attendere ciò che più ama, e cioè spianando ogni possibile
strada. La Gerusalemme d'oro vive nelle attese dell'anima.
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