"RADICI
DELL'ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO" CREARE
E ALIMENTARE I SEGNI DI UN NUOVO DIALOGO L'aggettivo "intraecclesiale"
che accompagna e qualifica il Simposio sulle "Radici
dell'antigiudaismo in ambiente cristiano" non è una scelta casuale.
Esso, al contrario, intende specificare la natura della riflessione che
viene compiuta e le finalità a cui tende. Ogni ricerca scientifica parte
necessariamente da alcune premesse che orientano lo studio e impongono una
metodologia che possa raggiungere dati concreti con gli obiettivi
prefissati. La stessa cosa si verifica per questo Simposio che pone alla
base lo studio sulle radici dell'antigiudaismo a partire dalla peculiare
riflessione teologica. La teologia nel momento in cui si
pone nell'orizzonte della scienza fa emergere in maniera chiara la sua
peculiarità. Essa, infatti, procede attraverso una metodologia
scientifica, sapendo tuttavia che la fede sta all'origine delle sue
affermazioni. Ogni ricerca teologica che voglia essere scientifica,
pertanto, deve partire dai contenuti della rivelazione e favorire
un'intelligenza più chiara e più profonda della fede e della vita
personale. Questa premessa non è ovvia nel momento in cui si vuole
valutare la peculiarità del Simposio sulle radici dell'antigiudaismo e il
suo obiettivo di fondo. L'aggettivo intraecclesiale, pertanto, dice
che la componente che si riconosce in questa riflessione ha una matrice
comune determinata primariamente dalla fede in Cristo. Ciò che sarà
oggetto di studio e di dibattito mira a chiarificare il contenuto della
fede, perché essa possa incidere meglio nella vita dei credenti. Altre
argomentazioni, connesse con il tema in questione e che farebbero felici
alcuni osservatori, non sono, quindi, l'oggetto né diretto né primario
di queste giornate di studio. Rincorrere questi sentieri porterebbe,
inevitabilmente, a deludere le aspettative di quanti attendono da questo
Simposio risultati che esulano dalla sua competenza. La rivelazione di Dio all'umanità
è stata fatta in tempi diversi e con modalità differenti, ma un punto
decisivo e fondamentale è costituito dalla scelta di Israele come popolo
dell'Alleanza. L'elezione di Israele come «popolo che Dio si è scelto»
permane come il punto di non ritorno della sua rivelazione nella nostra
storia. Non considerare questa realtà equivale a tradire il piano di
salvezza e a non comprendere la storia della rivelazione. La teologia ha
un compito non facile nel momento in cui deve salvaguardare i dati della
rivelazione spiegandoli nei diversi contesti, e capire come storicamente
essi sono stati compresi e interpretati. I cristiani, come tutti, sono
figli del loro tempo. Ciò che essi hanno compreso ed espresso dei
contenuti della loro fede è stato compiuto alla luce del comune maturare
dell'intelligenza dell'uomo; ciò che essi hanno frainteso non
compromette, in ogni caso, la verità dei contenuti rivelati. C'è, dunque, un punto di partenza
essenziale in questa problematica che trova la sua espressione più
qualificante nelle parole del Concilio Vaticano II: «La Chiesa di Cristo
riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già,
secondo il mistero divino della salvezza, nei Patriarchi, Mosè e i
Profeti. Essa afferma che tutti i fedeli in Cristo, figli di Abramo
secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo Patriarca e che la
salvezza della Chiesa è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo
eletto dalla terra di schiavitù. Per questo la Chiesa non può
dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per
mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è
degnato di stringere l'Antica Alleanza e che si nutre dalla radice
dell'ulivo selvaggio che sono i Gentili» (Nostra Aetate, 4).
Teologicamente, come si nota, si dovrà verificare la continuità e la
novità nel rapporto tra i due Testamenti e i due popoli, senza possibilità
alcuna di poter giungere a forme di contrapposizione. La fede non può
giustificare alcuna forma di antigiudaismo né le radici di questo possono
essere trovate nella parola del Signore trasmessa dalla sua Chiesa. La
teologia che permette alla fede di raggiungere un'intelligenza più
profonda dei suoi contenuti e con la forza dell'argomentazione ne permette
la comunicazione coerente presso i contemporanei diventa, a questo punto,
una seria provocazione per la cultura. Questo Simposio intraecclesiale
porta con sé una forza oggettiva che può favorire un'autentica
promozione culturale. La cultura, come ben si sa, si estende su diversi
livelli. È cultura il progresso scientifico che permette di raggiungere
gradi del sapere sempre più profondi e manifestazioni della verità
sempre più genuini. Sono altrettanto cultura il linguaggio e i
comportamenti del popolo che esprimono il diverso grado di civiltà
raggiunto. I risultati di questo Simposio tendono a muoversi su ambedue
questi livelli pur nella peculiarità del soggetto che li propone. La
Chiesa nel corso dei suoi duemila anni di storia non ha mai ostacolato il
vero progresso della cultura, anzi, ne è stata spesso all'origine. Ci
sono, tuttavia, due grandi nemici che attentano sempre al progresso della
cultura: l'ignoranza e la reticenza. L'ignoranza purtroppo non ha confini
e spazia dovunque; essa si esprime spesso nel ricalcare luoghi comuni o
nel dare sfogo alla propria superbia con tesi preconcette e unilaterali.
Ne deriva, il più delle volte, la rinuncia a dover pensare, per la
presunzione di sapere già ogni cosa, la caduta nell'ovvietà è il
destino più facile per chi persegue questa strada. La reticenza, invece,
alberga presso una cerchia più ristretta di persone. Essa si fa forte del
potere e pretende il possesso della verità. L'arroganza e la menzogna le
sono spesso compagne di viaggio e, insieme, tramano per non consentire che
la verità sia patrimonio di tutti. Anche un Simposio come il nostro può
aiutare a ferire mortalmente questi due nemici e a creare le condizioni
perché ognuno sia responsabile nel permettere che la strada verso la
verità sia percorsa per intero. In un periodo come quello presente che ha
sempre più sete di sapere e che, all'opposto e contraddittoriamente,
presenta modelli di esistenza effimeri, si pone in maniera urgente
l'esigenza di perseguire la strada della promozione culturale. Il Simposio
punta il dito sulle "radici" dell'antigiudaismo proprio perché
il male venga estirpato alla base, senza accontentarsi di operazioni
estetiche che nascondono senza risolvere. Sarà in grado di produrre qualche
effetto? Questo dipende da molti fattori. In primo luogo, dalla capacità
di saper cogliere i suoi risultati con animo libero. Partecipano a queste
giornate di dibattito i più grandi specialisti cristiani della materia;
ciò che li raccoglie è il desiderio di condividere l'un l'altro i dati
della propria ricerca alla luce di un dialogo scientifico in cui ognuno sa
farsi carico del risultato dell'altro senza per questo pensare che sia
alternativo al proprio. La comunicazione corretta non emarginata in poche
righe, ma con il rilievo dovuto a una informazione che tende a promuovere
cultura e non essere semplice notizia, può aiutare molto in questa fase.
In secondo luogo, si dovrà valutare il coraggio per aver sollevato la
questione. Nulla può essere preteso da nessuno se non l'amore per la
verità. Questo Simposio, e in parte ancora più rilevante il prossimo
sulle Inquisizioni, mostra che appartiene al centro della fede il vivere
per la verità nella carità. Non si deve avere timore della verità; è
l'unica strada per essere autenticamente liberi. Senza una verità storica
sui fatti che coinvolgono tutti non è possibile progredire nel cammino
verso forme di unità che sono alla base del vivere civile. Studiando le
radici dell'antigiudaismo si potrà contribuire a superare i malintesi che
possono avere diviso nel passato; si aiuterà a scoprire le peculiarità
proprie alle due fedi e si spingerà a guardare al futuro con maggior
serenità senza rinchiudersi in steccati che non hanno mai avuto ragione
d'esistere. Questo Simposio, infine, è stato
pensato per corrispondere al vivo desiderio di Giovanni Paolo II quando ha
scritto nella Tertio Millennio Adveniente «La Chiesa non può
varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a
purificarsi, nel pentimento, da errori e infedeltà, incoerenze e ritardi.
Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio che ci
aiuta a rafforzare la nostra fede» (TMA n.33). Non è possibile al
momento sapere quali risultati il Simposio raggiungerà e non è giusto
dare per acquisito ciò che ancora deve essere dimostrato. In ogni caso,
già l'aver preso coscienza di questo fatto è fondamentale per ribadire
una cultura del perdono che in questi anni sta subendo un autentico
attentato. La Chiesa che si fa carico di chiedere perdono per le colpe dei
suoi figli dà segno di estrema efficacia nei confronti di una cultura che
tende a nascondere le responsabilità e a preferire la vendetta e l'odio
al perdono. Questi sentimenti, d'altronde, non appartengono alla nostra
cultura sorta, invece, all'orizzonte dell'amore universale che sa farsi
carico anche della colpa distrutta nella morte dell'innocente. Saper
chiedere perdono non è un atto di debolezza; al contrario, esprime una
grande libertà, per questo è segno di autentico progresso. La sfida, dunque, si pone nella capacità di sapere creare nuove espressioni culturali con nuovi linguaggi e comportamenti che siano in grado di aiutare soprattutto le nuove generazioni a guardare verso ogni persona e popolo per la ricchezza che possiede e non per i limiti che vengono arbitrariamente stabiliti. Se il Simposio potrà contribuire a questo cammino anche solo aiutando a discernere le necessarie e dovute distinzioni che una così complessa problematica comporta, allora avrà raggiunto un risultato non certo trascurabile. |
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