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Una bambina nata dopo la Shoah sa cose diverse
dalle altre bambine: per esempio, guarda di
nascosto un libro proibito intitolato Der
gelbe Stern, «La stella gialla», e là
vede per la prima volta corpi nudi di uomini e
donne, e la sua curiosità per le loro
differenze è sommersa dalla curiosità per
una morte orribile che mescola i corpi creando
un eterno nodo di dolore. Una bambina così,
sa che il suo nonno paterno Joseph, nato a
Baranov, Polonia, e sua moglie, e quattro
bambine, e l’adorato fratello piccolo del
babbo Moshe, tutti sono stati bruciati vivi
con getti di acqua bollente (in quel campo di
sterminio era questa la prassi) a Sobibor.
La
bambina guarda la foto di Moshe, lo guarda
fisso negli occhi chiari, e vede che le
somiglia molto. Con lui sono spariti altri
innumerevoli zii e parenti di diverso grado.
La bambina sa fin da piccola che la famiglia
materna, nella parte della nonna Rosina
Volterra, era una famiglia con tanti allegri
fratelli, e poi, dopo anni di nascondigli e
fughe, per la delazione di alcuni conoscenti,
ha visto inghiottire ad Auschwitz Angiolina e
Gastone, come gli altri fratelli due ragazzi
di alta borghesia, che per primi arrivavano in
automobile a Forte dei Marmi, e che, da
antiquari quali erano, organizzavano gli abiti
antichi del Calcio in Costume per il Podestà
di Firenze. Da figli chiamati dalla mamma «amore»
e «tesoro», divennero soltanto carne da
macello, carne di ebrei.
Una bambina ebrea sa anche che il suo nonno
Giuseppe Lattes da dirigente di banca un
giorno del 1938 si trovò per strada, a
doversi inventare dei cartoni di bottoni
colorati che andava a cercare di vendere di
merceria in merceria a bordo di una motoretta.
Questi bottoni rimasero in casa come gioco per
noi bambini fino agli Anni 60. La figlia della
Shoah sa che la sua mamma Wanda e la zia Rirì,
da un giorno all’altro non poterono più
andare a scuola, e né i professori né i
compagni alzarono una voce neppure di
sorpresa; e che la famiglia Lattes girava di
casa in casa cercando un nascondiglio, e ci
furono pochi che rischiarono per loro, e la
maggior parte invece, no. Anzi, c’era chi li
denunciò volentieri.
Ma dai racconti della nonna, la bimba sa di un
giorno meraviglioso: quello in cui a Firenze
giunse con i liberatori la Brigata Britannica
con la Stella di Davide. Veniva dalla
Palestina, allora mandato britannico. Tra quei
soldati c’era suo padre, Aaron, poi detto
Alberto. Il miracolo di vitalità e di amore
per la vita del popolo ebraico offeso sei
milioni di volte, splendeva in quel soldato
ebreo e israeliano. La mia nonna Rosina ci
prendeva per mano a noi bambine, la Fiamma e
la Susy, e con noi ballava la Hora nel
corridoio sotto un arazzo su cui la regina
Ester troneggiava vittoriosa sul re Assuero,
un Hitler dell’antichità. La Hora era il
ballo dei pionieri sionisti: la nonna non è
mai stata coscientemente tale, sentiva solo
che in questo avere finalmente una propria
nazione, si compiva un unico miracolo di
resurrezione.
La cronista ha visto tanti Giorni della
Memoria: il più bello in Israele, quando la
gente poteva finalmente piangere senza
distrazioni i morti della Shoah, elaborare il
proprio lutto. Ovvero, ai tempi del processo
di pace. Pareva negli anni di Rabin e della
trattativa possibile che gli ebrei avessero
trovato un approdo nel porto per loro così
tempestoso della Storia. Non più morti, non
più bambini terrorizzati e madri disperate.
Non più Protocolli dei Savi di Sion, congiure
giudaico-massoniche, plutocrazia ebraica,
caricature nasute e con i sacchi d’oro fra
le grinfie, non più sporco ebreo.
La pace
sarebbe giunta agli ebrei, finalmente, dopo
duemila anni di sospiri, dal tempo
dell’esilio romano, dopo tante persecuzioni,
quel Paese degli ebrei riconosciuto da tutto
il mondo. Ma non era vero: sono tornati i
Protocolli dei Savi di Sion, distribuiti a
Durban, per le strade, o resi serial
televisivi dalla tv egiziana; sono tornati
nelle caricature dei giornali arabi gli ebrei
nasuti con i sacchi di dollari, la congiura
mondiale e anche il sangue che cola dalle mani
e dalla bocca degli israeliani; è tornato
l’invito dell’integralismo islamico a
uccidere gli ebrei, tutti gli ebrei, dovunque
si trovino.
E il mondo non ha detto altolà,
neppure di fronte alla negazione generalizzata
della Shoah definita «solo uno strumento per
promuovere il sionismo»: non si sente un urlo
di indignazione! Non si è sentito neppure
quando sono state rilanciate le accuse di
deicidio, o si è promesso di distruggere
Israele in un colpo solo con la bomba atomica.
E nemmeno quando dopo l’11 settembre, con
labbra oscene, molti hanno vomitato l’idea
che solo gli ebrei potevano aver organizzato
un così riuscito disastro; nei casi più
lievi, anche nei salotti di Francia,
Inghilterra e Italia si è detto che comunque
era accaduto a causa degli ebrei.
Come può essere? Come mai l’uomo
contemporaneo non è ancora accorto di fronte
alle orribili avvisaglie dell’antisemitismo?
La Shoah non è finita finché esso non cessa:
ognuno può pensarla come vuole sul conflitto
mediorientale, e scriviamo in questa solenne
ricorrenza che è indispensabile che il popolo
palestinese abbia uno Stato nella sicurezza
reciproca con gli israeliani e che cessino le
sue dure sofferenze. Ma questo non c’entra:
per arrivare alla protezione di tutte le
minoranze, alla soddisfazione di tutte le
richieste di chi soffre, la coscienza umana
deve essere linda dalla sporcizia
dell’antisemitismo.
È ora, finalmente,
che i bambini ebrei, a cinquant’anni di
distanza, debbano poter vivere tranquilli,
dovunque essi siano, e non morire per le
strade, in pizzeria, in autobus. E così sia
per ogni altro bambino. Il segnale della vera
fine dell’antisemitismo sia un segnale per
tutti di pace e di benessere. Ma la pace va
ancora conquistata. Questa è la preghiera di
una figlia della Shoah e della Liberazione
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