Tra le grandi religioni monoteistiche quella ebraica è la più antica. Il
suo contributo alla storia delle religioni e alla evoluzione spirituale
dell’umanità è essenziale. Le altre due grandi religioni
monoteistiche, Cristianesimo ed Islamismo, che raccolgono centinaia di
milioni di fedeli in tutta la terra, nascono dalla matrice ebraica, a cui
attribuiscono valore sacro, e dalla quale traggono continua ispirazione
negli aspetti fondamentali delle proprie istituzioni religiose.
Una lunga
storia tormentata e una cronaca, purtroppo ancora attuale, di polemiche e
incomprensioni tende a sottolineare soprattutto le diversità che separano
questi mondi religiosi; ma in una prospettiva più distaccata queste
differenze sono certamente di minore importanza rispetto al complesso dei
valori comuni da tutti e tre i gruppi condivisi, e che per unanime
riconoscimento hanno il loro fondamento nella religione ebraica.
Il
contributo del pensiero ebraico alla fondazione della società moderna non
si esaurisce in prospettive strettamente religiose, ma si estende in altri
ambiti, come quello civile e politico: l’esigenza di fondare una giusta
società, e la tensione ad un rinnovamento "messianico" hanno
precise radici nella Bibbia ebraica, e sono state trasmesse con forza e
continuamente dagli ebrei sparsi in tutto il mondo.
Infine la drammatica
evoluzione storica che ha fatto degli ebrei il simbolo dell’uomo
perseguitato in quanto diverso, ha rappresentato per le coscienze più
nobili il segno distintivo di una condizione di imbarbarimento e di
negatività sociale, contro la quale lottare per la liberazione e la
dignità umana.
Gli
ebrei sono oggi una comunità relativamente piccola dal punto di vista
numerico, circa quattordici milioni, secondo stime numeriche che hanno
ampie variabili dovute a difficoltà obiettive di valutazione. Secondo le
regole interne della tradizione ebraica, ebreo è colui che nasce da madre
ebrea, o che si converte all’ebraismo, accettandone la disciplina
religiosa.
È evidente già in questa definizione che la condizione
ebraica non si esaurisce strettamente in una appartenenza religiosa; è
piuttosto una appartenenza a una comunità nazionale o etnica che si
riconosce in una storia comune; oggi solo una parte degli ebrei si
identifica nella religione ebraica, per quanto ne accetti, in gradi molto
diversi di partecipazione, le idee fondamentali o i modelli di
comportamento prescritti dalla tradizione.
La società occidentale è
abituata a definizioni precise, a dogmi, alla necessità di inquadramenti
dottrinali; la condizione ebraica, che ha remote radici storiche,
provenienti da un ambito geografico e culturale molto diverso da quello da
questa società, si inserisce con difficoltà nelle moderne categorie
classificatorie, mentre al suo interno rifiuta di formulare, tranne che in
rarissime eccezioni, principi dogmatici e verità assolute; e questo vale
in primo luogo per il problema dell’identità ebraica, almeno per come
viene avvertito nella realtà quotidiana degli ebrei.
Gli
ebrei di oggi sono gli eredi e i continuatori, fisici e spirituali, di una
comunità nazionale e di una esperienza religiosa che ha almeno tre
millenni di storia.
Parlando di millenni, l’approssimazione è
d’obbligo; se da un lato il testo fondamentale dell’ebraismo, la
Bibbia, cerca di dare notizie in un certo senso precise sui tempi e sui
modi di sviluppo di questa esperienza, è da tener presente che esiste una
tradizione critica - nata e sviluppata in particolare nel modo protestante
tedesco - che mette sistematicamente in discussione la validità delle
notizie che l’ebraismo dà delle sue origini, e quindi ne sposta le date
e le circostanze, mettendo in dubbio anche concetti finora ritenuti per
scontati.
Secondo la narrazione biblica l’ebraismo nacque in un’epoca
intorno al XIV-XV secolo prima dell’era volgare con Abramo, un nomade
pastore originario di Ur dei Caldei, città mesopotamica di controversa
identificazione. Abramo arrivò nella terra allora detta di Canaan, dal
nome del popolo che l’abitava, e che dieci secoli dopo i Greci avrebbero
iniziato a chiamare Palestina, dai Filistei, il popolo che vi si era
insediato dal XII secolo nelle sue regioni costiere. Per gli ebrei il nome
di questa terra rimarrà a lungo quello di Canaan, per poi divenire, fino
ad oggi, la terra d’Israele.
Delle origini di Abramo la Bibbia quasi
tace, e da qualche traccia del testo non si può escludere una sua
condizione elitaria; egli assume la qualifica di ‘ivrì , da cui
in lingua italiana ebreo, che trasmetterà ai suoi discendenti. In base ad
alcuni documenti archeologici oggi si sa che un nome simile, hapiru, designasse
nella società dell’epoca una classe sociale instabile, costituita da
fuoriusciti privi di diritti; ma secondo la Bibbia il termine può
indicare il discendente di ‘Ever, o colui "che viene dall’altra
parte": parte del fiume, in senso geografico, o in senso metaforico
l’altra parte della società, essendo Abramo colui che ha operato una
scelta che lo distingue da tutti gli altri.
La scelta di Abramo è quella
di porsi al servizio fiducioso e rischioso di un unico Dio, abbandonando
il culto degli idoli e tutto il suo mondo originario; in compenso Dio gli
promette, con un patto vincolante, una discendenza numerosa come le stelle
del cielo, il possesso della terra dove si è recato, abbandonando tutti,
e una benedizione continua che da lui e dalla sua discendenza si irradierà
a tutte le famiglie della terra.
La Bibbia poi racconta le vicende della
famiglia di Abramo, del figlio Isacco, e del nipote Giacobbe; quindi dei
dodici figli di questi, che saranno i capostipiti delle dodici tribù di
Israele. Giacobbe con i suoi figli emigrò in Egitto, dove un altro
figlio, Giuseppe, era divenuto ministro del Faraone, e così si chiuse
l’epoca detta patriarcale. Giacobbe, lottando contro una figura angelica
in un episodio pieno di simboli profondi e oscuri, si conquistò un nuovo
nome, Israel, "colui che ha lottato con Dio", ed è riuscito a
vincere. Da quel momento la comunità sarà definita con il nome, forse più
nobile, di "figli di Israele", o semplicemente di Israele.
Sempre seguendo il racconto biblico, dopo un breve periodo di benessere
egiziano, gli ebrei, che nel frattempo erano cresciuti numericamente fino
a diventare un popolo, vennero sottoposti a una dura schiavitù dai
Faraoni per un periodo di uno-due secoli, e quindi liberati per intervento
di un grande capo, Mosè.
Questi condusse il popolo nel lungo cammino tra
l’Egitto e la terra promessa, fermandosi alle falde del monte Sinai per
ricevere la legge divina. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto
Mosè morì, e il popolo entrò nella terra promessa, che riuscì a
conquistare parzialmente, sotto la guida di Giosuè.
Con Giosuè inizia
l’epoca detta dei Giudici, capi politici, militari e giudiziari che
secondo le necessità contingenti unirono le tribù, o una parte di esse,
per contrastare una minaccia esterna. All’unità nazionale si arrivò
piuttosto tardivamente con la fondazione della monarchia unificata; il
primo re fu Saul, a cui succedette David, di un’altra famiglia, che
dette origine a una linea dinastica permanente. Il regno di David è
collocato dagli storici all’inizio del primo millennio.
La presentazione
biblica della più antica storia ebraica è ampiamente e variamente
contestata dai critici, che arrivano da un lato a negare qualsiasi realtà
storica alle scelte religiose che la tradizione attribuisce ad Abramo e
all’epoca patriarcale, dall’altra proseguono negando tutta la storia
della schiavitù egiziana, dell’uscita dall’Egitto e della conquista
della terra di Canaan; secondo opinioni che attualmente circolano con
insistenza tra gli studiosi (e che ovviamente sia i tradizionalisti ma
anche i critici meno estremistici non accettano) il popolo ebraico si
sarebbe formato originariamente nella terra di Canaan, fondendo genti di
varie origini, e inventandosi miticamente l’intera storia patriarcale,
della schiavitù e della conquista. L’unica storia vera e verificabile,
in questo tipo di approccio, è quella che ha riscontri nei documenti
archeologici e storici dei popoli vicini, e ciò è possibile solo con gli
inizi del regno.
Dopo
la morte del figlio di David, Salomome, il regno unito si divise in due;
la parte settentrionale prese il nome di regno d’Israele e la
meridionale di regno di Giuda (dal nome della tribù principale che lo
costituiva; di qui Giudea, per designare la regione, e anche Giudei per
indicare fino ad oggi gli ebrei come i discendenti sopravvissuti di questo
regno).
Il regno di Israele finì nel 720, per opera degli Assiri, e i
suoi abitanti deportati si dispersero senza lasciare probabilmente alcuna
traccia; da allora solo il regno di Giuda rappresentò la continuità
dell’ebraismo. Anche questo regno viene distrutto, nel 586, dai
Babilonesi; i suoi abitanti portati in esilio in Babilonia, tornarono in
parte a partire dal 538, con l’editto di Ciro. A Gerusalemme venne
edificato un nuovo Tempio, e la Giudea restò sotto il dominio persiano.
Tutta l’epoca dei regni, e l’inizio dell’epoca del secondo Tempio,
sono contrassegnate da una intensa attività culturale e una produzione
spirituale notevole, che culminò nell’azione dei profeti, che
espressero al massimo le potenzialità religiose dell’ebraismo biblico.
Secondo l’idea tradizionale i libri biblici sono stati scritti
nell’epoca dei fatti narrati; secondo la critica sono molto più tardi,
ma in ogni caso la scrittura dei libri del Pentateuco e delle opere
profetiche avrebbe avuto il suo compimento all’inizio del secondo
Tempio.
Nel
332 Alessandro conquistò la regione, che quindi passò sotto il dominio
dei Tolomei e poi dei Seleucidi; nel 174 con la rivolta dei Maccabei la
Giudea iniziò ad avere una relativa indipendenza, che avrebbe
progressivamente perduto con l’arrivo dei Romani. Nel 70 dell’era
volgare il Tempio di Gerusalemme venne distrutto da Tito; nel 135
l’ultima rivolta giudaica contro i Romani fu definitivamente domata
nella repressione più brutale.
Da allora gli ebrei non ebbero più unità
statale, e si dispersero progressivamente per il mondo. In verità la
Diaspora, la dispersione degli ebrei, era già una realtà nel primo
secolo prima dell’era volgare, ma con la distruzione del Tempio e la
perdita dell’indipendenza politica ebraica divenne una condizione
negativa e inevitabile, senza tutela giuridica e quindi sempre più
contrassegnata da discriminazioni, sofferenze e persecuzioni.
Con il
trionfo politico del cristianesimo, agli inizi del quarto secolo, i
rapporti di questo con l’ebraismo, tesi fin dalle origini, si tradussero
nella formulazione, sempre più sistematica, di una ideologia oppositoria
e quindi di sistemi giuridici di vessazione e avvilimento. Secondo il
Cristianesimo il ruolo dell’ebraismo si era esaurito con l’avvento di
Gesù, il Messia annunciato dalle scritture bibliche; da allora
l’ebraismo non poteva essere altro che una parvenza di sé stesso, al
quale tutt'alpiù poteva essere riconosciuto il ruolo di testimone
inconsapevole della verità del Cristianesimo, e come tale, almeno
parzialmente, tollerato in attesa della sua conversione.
La civiltà
cristiana espresse di conseguenza nei confronti dell’ebraismo una
ideologia molto poco tollerante, e nei fatti ciò produsse nel corso dei
secoli discriminazioni, espulsioni e massacri. Diverso per molti aspetti
fu il rapporto con la religione Islamica, che fu capace di elaborare nei
confronti dell’ebraismo un sistema di relativa tolleranza, nel quale
pure vi furono espulsioni e massacri, ma in misura relativamente modesta
se confrontati con quelli della storia cristiana. In ogni caso la
tolleranza musulmana arrivò a tollerare l’ebreo in quanto diverso, di
rispettabili origini, ma pur sempre come sottomesso, mai come persona di
pari dignità.
La lunga storia del rapporto difficile del mondo con gli
ebrei culminò in questo secolo con la persecuzione nazista, nel corso
della quale sei milioni di ebrei, pari a un terzo del popolo ebraico
allora vivente, venne massacrato. A tre anni dalla fine della guerra
mondiale, nel 1948 un altro evento decisivo ribaltò la storia ebraica,
con la fondazione dello Stato d’Israele, creato per volontà del
movimento sionista, che proponeva in forma politica l’antico ideale
della raccolta delle Diaspore. Il resto è storia recente di vivissima
attualità quotidiana.
Se per
la antica teorizzazione cristiana l’ebraismo aveva praticamente cessato
di vivere spiritualmente con la nascita di Gesù, la realtà dei fatti è
radicalmente diversa. I primi secoli dell’era volgare sono
contrassegnati da una produzione culturale, che ha come protagonisti i
rabbini, cioè i maestri della tradizione giuridica e spirituale di
Israele, che elaborarono e sviluppano un enorme patrimonio morale e
giuridico. L’ebraismo stesso cambiò aspetto, per effetto degli
avvenimenti di cui era stato vittima.
Nell’anno 70 la distruzione, da
parte dei Romani, del Santuario di Gerusalemme privò l’ebraismo del
centro fisico della sua vita cultuale, nella quale avevano una importanza
essenziale i riti sacrificali e l’osservanza di pratiche di purità, e
dei quali erano protagonisti e custodi i sacerdoti: tali si è,
nell’ebraismo, per nascita, discendendo dalla stirpe sacerdotale di
Aron, fratello di Mosè.
Nel momento in cui l’ebraismo politico si
avviava alla tragedia della sua distruzione si avvertì il rischio che
questa rovina potesse trascinare con sè anche il mondo spirituale e
religioso dell’ebraismo. Rabban Jochannan ben Zakkai, il capo spirituale
della sua generazione, decise di assumersi la responsabilità di venire a
patti con i Romani e di salvare il salvabile. Fuggì da Gerusalemme
assediata con uno stratagemma: fece annunciare la sua morte e si fece
portare fuori dalla città in una bara. Riuscì quindi a parlare con Tito,
e gli strappò la concessione di una zona franca nella quale poter
insediare il Sinedrio, il massimo tribunale rabbinico, e continuare la
trasmissione della cultura ebraica attraverso lo studio e
l’insegnamento.
Fu così possibile riorganizzare un mondo religioso che
doveva trovare la sua nuova identità dopo che alcune sue strutture
essenziali, legate al Santuario, erano venute a mancare. Fu questo
l’epilogo di una lunga storia di contrapposizioni tra i due poli
culturali e religiosi dell’ebraismo, quello sacerdotale e quello
rabbinico. Il rabbino, a differenza del sacerdote, non è tale per
nascita, ma è un maestro della dottrina religiosa, che è arrivato a
questa dignità con lo studio e con la pratica di una condotta esemplare.
Con la distruzione del Tempio, finito il ruolo del sacerdozio (in senso
pratico, anche se tuttora i sacerdoti nell’ebraismo esistono, senza le
funzioni di un tempo), furono i rabbini ad assumere la guida culturale e
spirituale dell’ebraismo.
Da
questa opera grandiosa, che si compì nel quinto secolo, nacque la
letteratura talmudica, che fu la base delle elaborazioni successive. Nei
secoli seguenti ogni generazione fu segnata dalla presenza di grandi
personalità dello spirito che svilupparono in diversi aspetti le
potenzialità religiose dell’ebraismo: dall’aspetto rituale e
giuridico a quello filosofico, fino a quello del fervore religioso e
all’esperienza mistica. Quest’ultima, dopo essere stata per secoli
patrimonio di pochi, nel XVIII secolo in Europa Orientale riuscì a
coinvolgere, con il movimento chassidico, grandi masse in espressioni di
intensa spiritualità, che ancora oggi ispirano e dirigono la vita
religiosa di ampie fasce di comunità ebraiche.
Anche
in una evoluzione storica così lunga e articolata è possibile mettere in
evidenza alcuni punti essenziali e comuni che rappresentano le basi
fondamentali dell’ebraismo. La più importante è l’idea monoteistica.
Questa idea apparve nell’antichità come una vera e propria rivoluzione,
forse preannunciata da alcune intuizioni presso gli egiziani, ma che solo
nella cultura ebraica trovò uno sviluppo fecondo e costante, una fedeltà
assoluta, insieme alla determinazione storica a mantenerla e a mantenerla
a ogni costo.
Il Dio in cui crede Israele è l’unico ritenuto possibile,
creatore di tutta la realtà esistente, che non ammette alcuna divisione
di ruoli; non esiste al di fuori di Lui alcun altro dio; gli idoli in cui
l’uomo pone fiducia non hanno senso, non hanno fondamento. Nulla può
esistere senza di Lui, mentre Egli preesiste alla creazione e a ogni realtà.
Fin dalle origini l’ebraismo immagina questo Dio come unico non solo nel
suo ruolo, ma anche nella sua essenza; e per quanto nella Bibbia si
moltiplichino le espressioni antropomorifche, che rappresentano
simbolicamente gli interventi divini sulla terra, è chiara la coscienza
che la realtà divina non ha nulla a che fare con quella materiale e
umana; è infinita, assolutamente spirituale e incorporea, non
rappresentabile: ogni immagine che se ne pretenda di fare è una terribile
offesa, un tentativo di rapportare alle dimensioni umane un’essenza che
per definizione non le appartiene.
Ma qui l’idea ebraica sviluppa il suo
paradosso essenziale: se da un alto la realtà divina è assolutamente
superiore e diversa da quella umana, al punto che non sarà mai possibile
arrivare a comprenderla nel suo aspetto più profondo; dall’altra
l’ebraismo pretende che questa realtà sia, per quanto imperscrutabile,
estremamente vicina all’uomo. In molti sensi differenti, iniziando
dall’essenza stessa dell’uomo, che è creato a immagine e somiglianza
divina, concetto che si esprime nelle sue qualità intellettuali, nella
sua dignità, nella possibilità di scelte morali, nella parola, nelle
capacità di dominare la realtà e di trasformarla; quindi nel governo
divino della storia, per cui si ammette, anzi si sostiene con forza,
l’idea di un intervento continuo da parte di Dio nelle vicende umane.
Ciò
si esprime in vari modi: nell’insegnamento agli uomini di una strada
corretta da seguire, e nell’illuminazione di personalità eccezionali
che comunicano agli uomini questi insegnamenti in momenti speciali; poi
nella garanzia di un ordine in cui la giustizia e la rettitudine siano
conservati. L’ebraismo crede nel concetto della ricompensa e della
punizione, e vede in Dio il garante di questo ordine, che privilegia la
giustizia.
Forti di questa fede, per secoli gli autori ebrei, dal libro di
salmi a Giobbe, alla letteratura rabbinica, fino ai pensatori della nostra
epoca, hanno cercato di trovare una tormentata risposta al problema della
sofferenza del giusto in questo mondo. La questione della ricompensa è
stata risolta in vari modi: pensando ad esempio a una realtà successiva e
diversa da quella di questo mondo, riservata come premio ai giusti; oppure
elaborando una concezione divina come criterio assoluto, stimolo e modello
da imitare nella promozione della dignità umana; o evitando di affrontare
direttamente il problema, avvertendo la realtà quotidiana, anche nei suoi
aspetti negativi, come segno di una volontà che per noi è
incomprensibile, ma che è pur sempre giusta. Solo raramente, e forse di
più nella nostra epoca, dopo Auschwitz, è stata messa in dubbio la
tutela divina sulla storia.
Ma il
Dio adorato da Israele non è soltanto, come si è soliti pensare, il
terribile garante della giustizia e il tremendo e collerico punitore degli
empi. Questa è un’immagine distorta e parziale, che l’ebraismo ha
ricevuto dalle polemiche antiebraiche di alcuni circoli cristiani, che
hanno voluto delineare una presunta opposizione tra il Dio dell’Antico
Testamento, vendicativo e collerico, e quello del Nuovo, fatto di solo
amore. In realtà nell’una e nell’altra tradizione Dio è giustizia e
amore.
Basti leggere per l’Antico Testamento la splendida parabola
dell’ultimo capitolo di Giona, in cui Dio insegna che il mondo non si può
reggere sulla sola giustizia, e che Dio è un padre misericordioso, che ha
pietà per tutte le sue creature. Amore e giustizia sono i prototipi dei
due attributi divini con i quali la tradizione rabbinica immagina la
presenza, che per la mente umana è apparentemente contradditoria, della
realtà divina nella storia, dalla creazione (che fu atto d’amore, perché
sulla sola giustizia il mondo non avrebbe potuto resistere un solo
istante), alla vicenda quotidiana.
Secondo
la concezione ebraica la volontà divina sulla terra si realizza e si
esprime secondo un programma preciso, che è stato consegnato all’uomo.
Questo programma ha un nome, è la Torà, l’insegnamento divino, e si
identifica inizialmente con la prima parte della Bibbia, il Pentateuco.
In
questo libro sono narrate e interpretate in chiave religiosa le vicende
essenziali che segnano la vocazione del popolo ebraico al servizio divino.
Una piccola tribù di pastori seminomadi, diventata popolo e soggetta in
schiavitù in Egitto, si immagina come legata ad una missione speciale nei
confronti dell’umanità da un vincolo che ha stretto con il Dio di cui i
suoi patriarchi hanno cominciato a scoprire l’esistenza.
Questo vincolo
è il patto, o meglio una serie di patti che Israele strinse con Dio,
stabilendo un impegno per tutte le generazioni successive. Da un lato
Israele riconosce Dio come il suo Signore, e si impegna a osservarne la
volontà, che è quella espressa nei comandi della Torà; dall’altra Dio
sceglie Israele come suo popolo, lo considera un reame di sacerdoti, e gli
promette, in una terribile sfida storica, il bene e il male che possono
nascere da una scelta e da un impegno superiore.
L’elezione di Israele
non è un dono incondizionato, ma una sfida e una provocazione continua,
che comportano un prezzo altissimo. Un insegnamento rabbinico sostiene che
Dio ha fatto tre buoni doni ad Israele, ma tutti quanti a prezzo di grandi
sofferenze: la Torà, la terra d’Israele, il mondo futuro. Tra le poche
consolazioni, è la coscienza di Israele, che anche nelle peggiori
circostanze sa che l’impegno divino non è rinunciabile nè soggetto a
ripensamenti, e che Dio quindi non potrà mai lasciare il suo popolo e
svincolarlo dal suo patto. Israele si considera come "un reame di
sacerdoti" rispetto all’umanità, nel senso che si è imposto, come
tutti coloro che sono sottoposti a servizi speciali, una disciplina
aggiuntiva che gli altri non devono o vogliono avere.
Da questi
presupposti nasce una dottrina articolata sui rapporti con gli altri
popoli e le altre fedi, che ha già notevoli espressioni nei libri
profetici della Bibbia e che poi la tradizione rabbinica sviluppa. Vi sono
elementi particolaristici, insieme a visioni di respiro universale.
L’umanità tutta è chiamata da Dio, e l’elezione di Israele non
esclude altre elezioni. Solo che la disciplina imposta ad Israele, che si
esprime nei 613 doveri o precetti che sono prescritti dalla Torà, non
deve essere necessariamente condivisa da altri.
Per tutti i popoli, che
vengono chiamati tecnicamente i "noachidi", cioè i discendenti
da Noè, sopravvissuto con la sua famiglia al diluvio, c’e ugualmente
una strada aperta per un rapporto sacro con Dio e per conseguire la
pienezza dei beni e la benedizione che non è esclusiva per Israele, ma di
cui Israele si considera solo un annunciatore e un promotore. Ai popoli
della terra per arrivare al livello di "giusti" sarà
sufficiente il rispetto una normativa essenziale, che nella tradizione
rabbinica è stata riassunta in sette principi, che riguardano il rapporto
con Dio (rifiuto dell’idolatria e della bestemmia), con gli altri uomini
(divieto di omicidio e di furto, costituzione di tribunali) e il rispetto
dell’ordine "naturale" (morale sessuale essenziale, rispetto
degli animali).
L’ebraismo
ha sempre avvertito, fin dalle origini, la tensione tra le realtà
oggettiva del momento e il desiderio di vedere realizzate tutte le sue
speranze e i suoi ideali. Molti ideali hanno un senso concreto: per quanto
riguarda Israele, la fine della sua dispersione e della sofferenza in mezzo
alle nazioni del mondo, e il ritorno dei dispersi nella terra d’Israele;
l’esigenza di una società fondata e dominata dalla giustizia, sia
all’interno del popolo d’Israele, sia più in generale nei rapporti
tra le nazioni del mondo; la fine delle violenze e degli strumenti di
violenze; di qui progressivamente la prospettiva ideale si allarga su
immagini escatologiche di redenzione universale e totale.
Tutte queste
speranze hanno un nome comune, messianesimo, da "messia" che in
ebraico indica l’attributo del re, che saprà fondare la società
giusta. È importante rilevare che nella Bibbia ebraica, così come nella
tradizione successiva, non esiste una formulazione unitaria di queste
idee, che convivono anche con molte contraddizioni e opposizioni. Ma
l’elemento comune in tanta diversità è la coscienza
dell’imperfezione, la costanza della tensione, che segna la vita
dell’ebreo con un anelito continuo al rinnovamento.
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Nuovo Rabbino Capo di Roma
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