La Tradizione
ebraica è caratterizzata dall'imperativo categorico zachor,
ricorda. "Noi ebrei - scriveva Martin Buber nel 1938 - siamo una
comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha
permesso di sopravvivere...".
Il verbo zachar, nelle sue varie forme, ricorre nella Bibbia ben
222 volte e, nella maggior parte dei casi, ha per soggetto Israele o Dio.
La memoria, infatti, incombe su entrambi.
Il concetto di ricordare trova il suo complemento e completamento in
quello di segno opposto: dimenticare. Al popolo ebraico viene ingiunto di
ricordare e al tempo stesso di non dimenticare.
La Toràh - il Pentateuco - in particolare nel versetto del
Deuteronomio, 32; 7, ci sprona ripetutamente a ricordare e a non
dimenticare.
Nelle ultime parole di congedo, Mosè raccomanda al popolo: " Ricorda
i tempi antichi, cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi (il
corso della storia ), interroga tuo padre e ti racconterà, i tuoi anziani
e te lo diranno....".
Ma sbaglierebbe chi intendesse questa affermazione come un mero invito a
fondare la nostra esistenza sul passato che ci appartiene. La memoria,
custodita di generazione in generazione, è l'antidoto più potente contro
la morte, rappresentando una ferma determinazione, una volontà di non
abbandonare nel nulla le tracce di ciò che è già trascorso e passato ed
è ormai sparito dalla storia. Nell'ebraismo, infatti, il passato non è
qualcosa di sorpassato, privo di utilità, ma al contrario costituisce un
valido aiuto per affrontare la vita. Per questo nella Toràh ci viene
detto anche che ricordare gli avvenimenti non può bastare: "...binu
scenot dor vador....", "...cercate di comprendere gli anni
dei secoli trascorsi...". Bisogna riflettere su di essi, ponderarli,
capirne a fondo il significato. L' insegnamento della Toràh, come
si vede, è ben differente rispetto alla saggezza di Plutarco, secondo cui
" la storia si ripete ". Per la cultura ebraica la storia non si
ripete. E' semmai l'uomo che può perpetuare i suoi fallimenti e i suoi
successi. Ricordare il passato, ma soprattutto comprenderlo, ci aiuta a
mettere a fuoco correttamente gli eventi attuali.
Non a caso Rashi', forse il più autorevole commentatore della Bibbia (
1040-1105 ) nel suo commento a Deuteronomio, 32; 7, interpreta il
passaggio "... Binu scenot dor vador..." non tanto come
" gli anni dei secoli trascorsi " ma piuttosto come " gli
anni delle future generazioni ", nella convinzione che il futuro sarà
tanto migliore quanto meno si dimenticheranno le lezioni del passato.
Il compito di trasformare il ricordo in memoria viva e trasmetterlo alle
generazioni future è assegnato dall'ebraismo alla ‘Tradizione orale’
che, anziché essere isolata e decontestualizzata in un monumento, è
inserita nella continuità di un sistema culturale.
Ma come impedire che la memoria muoia cristallizzandosi nella prospettiva
storica, come è accaduto con le Crociate, con l'Inquisizione, con i
progrom? La storia dà garanzia di stabilità al ricordo, ma quasi sempre
monumentalizza e distanzia i sentimenti, li raffredda, li normalizza, e
pretende di offrire in cambio un'impossibile obiettività. La storia come
il monumento sottrae la memoria alla sua appartenenza individuale per
consegnarla alla collettività universale, che la deposita nel proprio
archivio polveroso dopo averla elaborata in modo soggettivo, magari
opportunamente revisionata, per liberarsene come di un documento scomodo.
La commemorazione del passato, i monumenti ai caduti, i musei, sono tutte
forme di memoria collettiva istituzionalizzata e, di fatto, sottratta alla
coscienza individuale. Per assicurare alla memoria un ruolo vitale, anche
nella salvaguardia di un modello di vita, è dunque necessario che la
memoria storica si innesti nel presente entrando a far parte della
coscienza individuale. A maggior ragione, quindi, abbiamo il dovere di
ricordare e perpetuare il ricordo della Shoah, momento tra i più
tragici della storia ebraica.
Oggi, quindi, le manifestazioni e le testimonianze sono particolarmente
significative poiché assistiamo ad una recrudescenza di violenza che non
ci deve lasciare inerti.
Anche in
Italia vi è un tentativo esplicito da parte di alcuni di mettere sullo
stesso piano, vittime e carnefici, persecutori e perseguitati. Ma il tempo
trascorso non può legittimare operazioni del genere. Per questo siamo
convinti che il dovere di ricordare appartenga a tutti gli uomini, proprio
perché quei fatti hanno ancora un aspetto di attualità. Noi dobbiamo in
tutti i modi sostenere i superstiti che si sono assunti il gravoso impegno
di testimoniare affinché il sacrificio di coloro che non sono più
ritornati non cada nel vuoto. Il loro messaggio è un monito che ci invita
ad operare affinché ciò che è accaduto una volta non si ripeta. Quindi
oggi più che mai dobbiamo ricordare quei giorni e non dimenticare, poiché
dimenticare nell'ingenua speranza di sopire l'offesa subita, come taluni
affermano, può significare vedere riacutizzare ancora di più il pericolo
che tali tragedie possano ripetersi.
Non resta che percorrere quindi la via della perpetuazione del ricordo a
monito per i posteri. Una memoria attiva, come ci ha insegnato Primo Levi,
che significa per ognuno, e non solo per l'ebreo, assumere i crimini della
storia come male fatto a ciascuno di noi, appartenenti tutti alla grande
famiglia dell'umanità. E significa anche non liberarsi mai passivamente
del dolore e del lutto elaborandoli attraverso riti, cerimonie e
monumenti, ma accettarli come segno permanente di un crimine le cui
responsabilità collettive e singole sono assai precise, malgrado i
ripetuti tentativi di confondere la storia.
Ben vengano tutte le testimonianze, articoli, libri di storia, film e
conferenze di ogni genere che ci parlino della Shoah e che ne
parlino a tutti.
Resta, poi, a noi il compito di trasmettere, commentare e far rivivere
questa memoria per non dimenticare chi si è e da dove si viene.
Nel libro di interviste ai figli dei deportati di Claudine Vegh, Non
gli ho detto arrivederci, un figlio racconta ancora perplesso dopo
quasi quarant'anni, come suo padre, mentre veniva trascinato dalle SS,
anziché dirgli per l'ultima volta "ti voglio bene, non temere nulla,
bada a te stesso" , gli abbia invece urlato soltanto: " Robert,
non dimenticare mai che sei ebreo e devi restare ebreo". Il figlio,
ormai adulto, continua a interrogarsi sul senso di quel monito "non
dimenticare mai.....". Evidentemente era, per il padre, l'unico modo
di dirgli - nei pochi attimi che gli restavano - che per sopravvivere,
egli doveva preservare viva la memoria di sé, la sua identità, la sua
coscienza, la sua storia.
__________________
[Fonte: www.ucei.it]