I. La
problematica
torna su
La lotta del
Segretariato per l’Unità dei Cristiani sotto il Cardinale Bea per
una dichiarazione De Judaeis, culminata con successo nel
documento conciliare Nostra
aetate, ha prodotto frutti
ricchissimi. Gli enunciati brevi ma equilibrati del Concilio
Vaticano II non solo hanno avuto ampio consenso e sono stati ripresi
in numerose pubblicazioni esegetiche e teologiche, ma hanno anche
aperto la strada a un dialogo vivo fra la Chiesa e
l’Ebraismo.I papi stessi, specialmente Papa Wojtyla, i dicasteri
romani, le conferenze episcopali e i singoli vescovi hanno preso
posizione su questo tema e hanno promosso una revisione critica
della storia ecclesiastica e un approfondimento teologico. Il
documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico
e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana [cf. anche Prefazione
Card. Ratzinger ndR] (24 maggio 2001)
è certamente uno degli studi più densi in questo ambito e un
esempio significativo di questi sviluppi.
Una lettura
attenta dei primi tre paragrafi dell’articolo quattro di Nostra
aetate mostra la necessità di correggere una serie di
proposizioni che facevano parte della tradizione teologica:
La Chiesa di
Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua
elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza,
nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Essa confessa che tutti i
fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede,sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e
che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata
nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo
non può dimenticare di aver ricevuto la rivelazione dell’Antico
Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua
ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’antica
alleanza, e che essa si nutre della radice dell’ulivo buono su cui
sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i
gentili.La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha
riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e che
dei due ha fatto una sola cosa in se stesso.[…]
Come attesta la Sacra
Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata
visitata;gli Ebrei, in gran parte, non hanno accettato il
Vangelo, e anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione.Tuttavia, secondo l’Apostolo, gli Ebrei, in grazia
dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui
chiamata sono irrevocabili.Con i profeti e con lo stesso Apostolo la Chiesa
attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli
acclameranno il Signore con una sola voce e «lo serviranno tutti
sotto lo stesso giogo» [Sof 3, 9].[…]
E se autorità
ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte
di Cristo,tuttavia quanto è stato commesso durante la sua
passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli
Ebrei allora viventi né agli Ebrei del nostro tempo. E se è vero
che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non
devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti,
quasi che ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. […]
La Chiesa, inoltre,
che condanna tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del
patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei e spinta non da
motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi,
le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo
dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque….
Le
constatazioni dogmatiche fondamentali sono tre.
- L’inizio della
fede e della elezione della Chiesa di Cristo si trova nei
patriarchi, in Mosè e nei profeti; nell’esodo è prefigurata la
salvezza della Chiesa.
- I gentili, che appartengono alla Chiesa,
sono innestati nell’ ulivo buono come un germoglio selvatico.
-
Nonostante il rifiuto del Vangelo da parte di numerosi ebrei, i doni
di Dio e la vocazione d’Israele rimangono.
Si pone a questo punto la
domanda se una semplice correzione materiale delle trattazioni
dogmatiche, per esempio dell’ecclesiologia, sia sufficiente per
rispettare la nuova concezione della relazione fra Chiesa di Cristo
e popolo ebraico. Ci sono altri aspetti della teologia dogmatica che
devono essere cambiati o rivisitati? Emerge inoltre la questione se
la stessa metodologia della dogmatica non debba essere rinnovata
affinché tutta la verità di questa relazione si possa sviluppare.
Per fare un esempio: se la Chiesa e il popolo ebraico sono
strettamente legati e se la Bibbia è riconosciuta come patrimonio
comune della fede, nonostante le differenti tradizioni
interpretative, non sorgono questioni che trascendono una correzione
semplice di qualche proposizione finora trasmessa come ovvia? Qui
– ci sembra – scaturiscono in effetti problemi
metodologici.
Questo sospetto è confermato da una riflessione più puntuale sulle
tre constatazioni sopra menzionate. Esse non si riferiscono solo a
qualche fatto casuale, accidentale, sul piano storico. Si tratta di
proposizioni che aprono una visione trasformata della relazione
Chiesa – popolo ebraico. Una visione che può essere misurata solo
se il teologo la rapporta alle questioni teologiche fondamentali. In
effetti, essa suppone un approccio specifico che fa vedere cose
finora sconosciute, aprendo una serie di problematiche non facili da
trattare. Per rispondere ad esse in maniera conveniente, è
opportuno premettere un sintetico abbozzo della metodologia
dogmatica, tralasciando le questioni di dettaglio e concentrandosi
sugli aspetti fondamentali.
II. Una
riflessione intermedia: tratti fondamentali della
metodologica
dogmatica. torna su
Osservando
la molteplicità delle pubblicazioni dogmatiche, l’ampia diversità
dei temi, gli approcci così distanti sorge spontanea la domanda:
cos’è la teologia se non un lavoro scientifico riguardo a temi
connessi in qualsiasi modo con la fede o col Cristianesimo? Ma cosa
significa il carattere scientifico della teologia? Esistono tratti
comuni formali che caratterizzano la teologia dogmatica?
Negare questi tratti
formali ridurrebbe la teologia a un tipo di scienza culturale.
L’unità della teologia e il suo carattere proprio nel cosmo delle
differenti scienze sarebbero persi. La determinazione di una
prospettiva formale della teologia è ineludibile.
Nella Summa
Theologiae Tommaso d’Aquino ha descritto questa prospettiva
formale della teologia nella maniera seguente: la teologia tratta di
Dio “principaliter”, e tratta delle creature in quanto
“referentur ad Deum, ut ad principium vel finem”.La base di questa determinazione della prospettiva
formale della teologia è che Dio si manifesta nella fede come la
“prima veritas”, cioè non come una delle molteplici
verità categoriali, come una verità qualsiasi. Dio è la verità
che si apre a se stessa e così lascia scaturire tutte le verità. E
la rivelazione di Dio è marcata da questa struttura formale: Dio è
“prima veritas in quantum manifestabilis et manifestativa
omnium”.
L’autocomunicazione
o l’apertura di Dio stesso come “prima veritas” e come
salute vera dell’uomo si svolge essenzialmente attraverso gli
avvenimenti dell’economia della salvezza, che comincia con la
creazione e trova la sua pienezza nell’evento del Cristo. Nella
scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento questi avvenimenti
dell’economia divina hanno trovato la loro espressione autentica.
Solo attraverso questa economia, cioè attraverso gli “obiecta
materialia fidei”, l’“obiectum formale fidei” –
Dio come “prima veritas” – è presente. D’altra
parte, gli “obiecta materialia fidei” possono essere
creduti solo attraverso questa prospettiva formale, ossia attraverso
la luce della fede. Che cosa consegue da questa concezione della
rivelazione per la struttura fondamentale della teologia?
Tommaso constata
questa dottrina, non argomenta per provare i suoi principi – che
sono gli articoli della fede –, ma parte invece da questi principi
per mostrare altre cose.Che cosa dimostra la teologia? Non si tratta
semplicemente di deduzioni o conclusioni derivate da principi. Si
tratta di una intelligenza approfondita della fede, della
dimostrazione delle relazioni e della coerenza dell’insieme della
fede, dei suoi oggetti materiali. Perciò la teologia utilizza non
solo gli articoli della fede, ma anche tutte le forze
dell’intelligenza e i risultati delle scienze filosofiche e
storiche. Ma la sacra dottrina fa uso di questo tipo di autorità
delle scienze come argomento “esterno e probabile”. Utilizza
invece l’autorità delle Scritture canoniche in senso proprio e
argomentando “ex necessitate”.“La nostra fede è basata sulla rivelazione che è
data agli apostoli e ai profeti che hanno scritto i libri
canonici”.
La teologia ribadisce
la sua prospettiva formale riconoscendo nell’ambito metodologico
l’autorità delle Scritture canoniche come autorità primordiale
in rapporto alle altre istanze della fede. Tutte queste istanze
hanno una funzione indispensabile, però hanno una funzione
secondaria, di servizio.
Melchiore Cano,
basandosi su questa concezione di Tommaso, ha trattato dell’elenco
intero dei loci theologici. L’autorità della Sacra
Scrittura è la prima istanza anche per lui. Poi vengono le autorità
delle tradizioni orali del Cristo e degli apostoli. Istanza
ulteriore è la Chiesa come comunità dei fedeli nella sua totalità,
e inoltre i concili, la Chiesa romana, i Padri, i teologi. Infine, i
loci alieni: la ratio naturalis, la filosofia,
la storia.
Questa dottrina
dei “loci theologici” è stata ampliata dal Concilio
Vaticano II. Così le testimonianze della fede articolate e recepite
nelle Chiese orientali sono state riconosciute come espressioni di
fede autentica. Fra i “loci alieni”, il Concilio nomina
anche la cultura profana nei suoi diversi aspetti e i risultati
innegabili delle varie scienze moderne.Nella Gaudium et Spes, per esempio, si
afferma che la Chiesa comprende meglio il proprio messaggio e la
propria struttura attraverso le scienze sociali.
Oltre ad aver
ampliato i loci theologici, il Concilio Vaticano II ha
trasformato l’uso che di essi fanno la Chiesa e la teologia.
Melchiore Cano
sosteneva che i “loci theologici proprii” rappresentano i
principi della fede in forma di proposizioni. Il Concilio invece,
accogliendo la moderna prassi teologica, insegna che la Scrittura
deve essere interpretata tenendo conto dei risultati delle scienze
storiche e filologiche. Solo rispettando questi risultati si può
arrivare all’intellectus fidei, che deve essere chiarito e
spiegato. Questo intellectus fidei non è semplicemente
comprensibile attraverso le proposizioni e le frasi della Sacra
Scrittura. Lo stesso vale per gli altri loci theologici. Così
la dottrina soggiacente alla metodologia teologica è stata
approfondita rispetto alla concezione che proponeva Melchiore Cano.
Un approfondimento e un cambiamento analoghi a quelli che Melchiore
Cano stesso aveva introdotto rispetto alla concezione di Tommaso,
senza tradirla.
Così i loci
theologici rappresentano un nesso operativo, strutturato dalla
fede nella sua storicità ecclesiologica. È il nucleo operativo
della metodologia teologica.
Ora domandiamoci: non
emerge un nuovo profilo dei loci theologici dalla nuova
determinazione della relazione Chiesa-popolo ebraico?
Per indagare su
possibili cambiamenti nella metodologia teologica e nel lavoro
metodologico della teologia, propongo di procedere attraverso due
fasi. Nella prima, cercheremo di capire se la scoperta conciliare
della relazione ebraico-cristiana trasformi i loci finora
conosciuti. Nella seconda fase, esamineremo alcune trattazioni
dogmatiche e i nuovi problemi che esse pongono.
III.
Cambiamenti dei loci theologici attraverso la scoperta
conciliare
della relazione ebraico-cristiana.
torna su
Vorrei mostrare
la svolta avvenuta riflettendo innanzitutto sul primo locus
theologicus, che è definito da Melchiore Cano “l’autorità
della Scrittura Santa” contenuta nei libri canonici. Secondo Cano,
la Sacra Scrittura consiste nei libri dell’Antico e del Nuovo
Testamento. Ma oggi la concezione dell’Antico Testamento e della
sua relazione con il Nuovo Testamento appare parzialmente diversa.
Nel II secolo d.C. già
si levano voci nella Chiesa che parlano della morte d’Israele.Il senso è questo: a causa del suo rifiuto di Gesù
Cristo, il popolo d’Israele ha perso la sua dignità come popolo
d’elezione. È la Chiesa ora che rappresenta il popolo di Dio.
Questa concezione è stata recepita rapidamente e ha marcato la
tradizione cristiana, sia cattolica sia protestante. Nei suoi Discorsi
sulla religione Friedrich D. Schleiermacher constata nel suo
linguaggio romantico: “Da lungo tempo il Giudaismo è una
religione morta: quelli che portano tuttavia oggi il suo colore
assistono con lamenti una mummia incorruttibile e versano lacrime
sulla sua morte e la sua triste eredità […]. Quando i suoi sacri
libri furono terminati il dialogo di Dio col suo popolo terminò”.Secondo questa prospettiva l’Antico Testamento è
pre-storia del Nuovo Testamento, però una pre-storia
definitivamente terminata, chiusa, quasi pietrificata.
Certo, nello stesso
Nuovo Testamento, l’economia divina d’Israele viene
caratterizzata come “pre-storia”. Anche la Nostra aetate
riafferma questa tesi:
“Scrutando
accuratamente il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il
vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente
legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti
riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si
trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei
patriarchi, in Mosè e nei profeti. Essa confessa che tutti i fedeli
di Cristo, figli di Abramo secondo la fede,sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e
che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata
nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù”.
Esiste, dunque, una
pre-storia del Cristianesimo. Però questa pre-storia non è
semplicemente terminata, morta, pietrificata. Questa pre-storia è
ancora efficiente. Per utilizzare un termine di Hans-Georg Gadamer,
questa pre-storia ha una Wirkungsgeschichte che è attuale ed
efficace ancor oggi. Qual è la base teologica di questa
affermazione?
Nella Lettera ai
Romani, Paolo afferma che la salda promessa della salvezza e
della redenzione è legata a Gesù Cristo, sia per l’ebreo sia per
il pagano.Cristo è, secondo Paolo, il Messia d’Israele e i
gentili ricevono la loro partecipazione attraverso il suo mistero.
La remissione
dei peccati, la giustificazione, la rinascita attraverso il
battesimo sono fatti nuovi, che trasformano la precedente storia
d’Israele in una pre-storia. Però la giustizia di Dio (Rom 1, 16)
rivelata in Cristo e destinata ai fedeli – all’ebreo prima, poi
anche al pagano – è una giustizia “ex fide in fidem”.
La
prima alleanza, la via che conduce a Gesù Cristo – e Paolo esalta
i doni grandi che Dio ha concesso a Israele su questa via –
presenta una certa ambiguità in rapporto ai nuovi dati
dell’economia di Dio: non tutti, ma molti in Israele si negano
alla novità del Vangelo di Gesù. Paolo definisce questa esperienza
– che fa lui stesso nell’annuncio del Vangelo e nel suo agire
missionario – come “porosis”, “indurimento”. Porosis
non significa per Paolo semplicemente una colpa personale.
Nell’Antico e nel Nuovo Testamento porosis comprende tutta
una serie di fenomeni che vanno dalla insensibilità personale e
collettiva, fattiva, storica, fino alla ostinata negazione nei
confronti dello Spirito di Dio. Questa porosis d’Israele,
che Paolo constata, possiede – a causa della giustizia di
Dio e a causa della sua fedeltà – un profondo senso salvifico:
“Dio ha incluso tutti nella disobbedienza per essere
misericordioso verso tutti” (Rom 11, 32). Nella Lettera ai
Romani (11, 25) Paolo afferma che la porosis è in atto
“fino a che saranno entrate tutte le genti” e così “tutto
Israele sarà salvato”. Dunque, il termine porosis
utilizzato nella Lettera ai Romani non è una categoria
morale: è una categoria storico-teologica e manifesta una
prospettiva storico-teologica.
Da questa spiegazione
paolina – che i gentili sono innestati nell’ulivo buono
d’Israele e partecipano della linfa della radice – risulta un
duplice effetto della pre-storia. Essa è la radice nutriente che
porta il nuovo. Questo significa che la Chiesa è inesorabilmente
Chiesa degli ebrei e dei gentili. Se in Cristo non c’è più
divisione fra ebrei e gentili, la Chiesa è obbligata a dare
accoglienza agli ebrei che appartengono al popolo di Dio attuale a
causa della pre-storia. D’altra parte, bisogna riconoscere che la Wirkungsgeschichte
conduce gran parte d’Israele nella porosis. Però questa porosis
sarà uno strumento per realizzare la salvezza. È un mistero
riservato a Dio e alla sua fedeltà all’alleanza come questa via
della maggioranza degli ebrei sia un cammino verso la salvezza.
Quali sono le
conseguenze di questa relazione rispetto al primo locus
theologicus, l’autorità della Sacra Scrittura?
Felicemente l’esegesi moderna parla di un “esito doppio” della
Bibbia.Questa formula riflette risultati storici della
ricerca scientifica sul canone, ma presenta anche una implicazione
teologica. L’esito doppio segnala in maniera esatta che la
pre-storia ha una doppia Wirkungsgeschichte. In questo senso
la Bibbia esiste in un modo duplice: esiste in una prospettiva
neotestamentaria e esiste in una prospettiva che rifiuta l’evento
cristologico affermando però la relazione d’Israele a Dio e
l’idea che la fedeltà di Dio alla sua alleanza rimane la causa
della redenzione d’Israele. In questo senso la Bibbia, l’Antico
Testamento, interpretata nella prospettiva ebraica, deve essere
accettata dal teologo cristiano come espressione di una speranza
valida per il popolo prediletto. Questa accettazione dell’Antico
Testamento interpretato nella prospettiva ebraica racchiude in sé
la differenza profonda fra tradizione ebraica e cristiana. Perché
l’Antico Testamento – nella interpretazione cristiana –
conduce a Gesù Cristo.
C’è una
conflittualità, un’opposizione nella posizione cristiana stessa.
Ma ogni relazione, anche una relazione conflittuale o
d’opposizione, presuppone certamente un punto comune, un
fondamento comune. Il fondamento della relazione della quale
parliamo è il fatto che nella morte di Gesù sulla croce si
manifesta proprio la fedeltà di Dio alla sua alleanza con Israele.
È precisamente nella morte sulla croce che – nonostante
l’opposizione al messaggio evangelico – si manifesta
l’incondizionato amore di Dio.Qui conseguentemente – per la visione cristiana
– si trova il centro ermeneutico su cui si instaura la relazione
ebraico-cristiana, così tesa e a prima vista escludente. È solo a
partire da questo centro ermeneutico che quella relazione può
essere interpretata in maniera adeguata. Solo così si rispetta
l’insondabile amore e la grazia di Dio espresse nella morte di Gesù.
Nella fede
escatologica in Gesù, Messia d’Israele, è impiantato un limite,
un no, la sua morte. Solo se impiantata in questa morte la Chiesa può
sperare nella resurrezione.Questa è l’esperienza paradossale, anzi
contraddittoria, dei discepoli. Gli avvenimenti pasquali e le
esperienze espresse nei primi testi pasquali non conducono a una
semplice plausibilità della fede. Chi crede e afferma la verità
escatologica del Cristo è chiamato ad accettare una radicale
apertura, un’ignoranza teologica, l’impossibilità radicale di
disporre di se stesso, l’impossibilità di fare della storia una
linea diritta. Paolo dice che il battesimo impianta i fedeli nella
morte di Gesù. Questo vale per i primi discepoli, ma anche per
coloro che credono a causa della loro parola. È attraverso la morte
di Cristo che i gentili sono innestati nell’ulivo buono. È
attraverso il buio impenetrabile e la notte oscura che la salvezza
dell’unico popolo di Dio sarà manifestata. Se la Chiesa vedente
delle nostre cattedrali del Medioevo non abbraccia la sinagoga
cieca, non avrà futuro. La via della fede è una via con Gesù
Cristo e con la sua parola che si attua attraverso la morte e la
vita.
Spostiamo ora
l’attenzione su un altro locus theologicus, inteso da
Melchiore Cano come “l’autorità della Chiesa cattolica”.
Attraverso la riscoperta della comunione con il popolo ebraico anche
questo topos – a mio parere – assume un profilo
differente. In un’epoca in cui l’idea che la Chiesa ha preso il
posto d’Israele, che Israele è stato rigettato da Dio e non
gioca più un ruolo nella storia salvifica, era un’affermazione
teologica ovvia, l’autorità della Chiesa cattolica era un
qualcosa di chiuso in sé e auto-determinato. La Chiesa era il
risultato del Vangelo escatologico e si fondava su se stessa. Ora,
se la Chiesa cattolica è invece essenzialmente Chiesa degli ebrei e
dei gentili e se i gentili sono essenzialmente innestati nelle
radice di Israele, ne risulta che questa Chiesa contiene in sé un
opposto, un altro innegabile. Questo opposto, questo altro
innegabile marcato dalla porosis ma portatore delle promesse
salvifiche, dà un nuovo profilo al locus theologicus
dell’autorità della Chiesa cattolica. Questa autorità della
Chiesa cattolica è una realtà relazionale in se stessa e in questo
senso relativa. La relazione a Israele come radice e come gruppo
caratterizzato dalla porosis fanno di questa autorità
un’autorità simultaneamente escatologica e definitiva perché è
testimone della salvezza destinata a ebrei e gentili. Ma i gentili
sono ammoniti da Paolo a non diventare superbi, perché, se Dio non
ha risparmiato i rami naturali, “così non risparmierà te”.
Dunque, è possibile
una porosis, o un “taglio”, per i rami selvatici
innestati come per Israele. Questo significa che possono darsi anche
nella Chiesa “indurimenti” storici. Infatti, se il magistero è
esatto e la tradizione correttamente trasmessa, è però possibile
che il magistero e il sensus fidelium siano ciechi di fronte
ai segni dei tempi, di fronte alle necessità storiche e incapaci di
una risposta adeguata al soffio dello Spirito. In questo caso la
parola del magistero e della Chiesa sarebbe una parola sterile anche
se corretta.
È lo Spirito
di Dio e la sua grazia giustificante che permettono che anche da
queste parole morte sgorghino penitenza e vita spirituale. “Dio può
fare di queste pietre figli di Abraham”. Questa è la speranza escatologica. I
pronunciamenti di Papa Giovanni Paolo II sull’atteggiamento della
Chiesa nella storia, l’antisemitismo e il disprezzo del popolo
d’Israele nascosto nella vita della Chiesa, manifestano il
riconoscimento di questa ambiguità nell’autorità della Chiesa
cattolica. Le parole di Mt 16, 18: “et portae inferi non
praevalebunt adversus eam”, spesso ripetute in uno spirito di
sicurezza cieca, possono essere confessate solo in uno grande
spirito d’umiltà e pensando alla grazia misericordiosa di Dio.
È logico che le
riflessioni riguardanti questi loci theologici abbiano
conseguenze per il profilo dei loci theologici subordinati.
In questo senso la riscoperta della relazione Chiesa-popolo ebraico
condiziona molti loci theologici in maniera significativa. La
relazione Israele-Chiesa obbliga a mantenere l’accento sullo
Spirito e non sulla lettera.
IV.
Il nuovo uso dei loci theologici.
torna su
La trasformazione dei
loci theologici di cui abbiamo appena parlato induce a un
nuovo uso di questi loci.
Vorrei ora illustrare
innanzitutto alcuni problemi che appaiono nella trattazione
dogmatica di Dio. Nella dogmatica tradizionale e nell’uso dei loci
theologici dominava, come abbiamo visto, il concetto della
pre-storia determinata, finita, chiusa. Così gli enunciati
veterotestamentari su Dio appartenevano a questa pre-storia. La
maniera nella quale già nella Patristica – si pensi al De
doctrina christiana di Agostino – venivano interpretati versi
“offensivi” dell’Antico Testamento, mostra come la dogmatica
ha trattato il mistero di Dio. Il modello della critica platonica
dei miti serviva alla teologia per respingere enunciati
antropomorfici su Dio e per differenziare così il messaggio del
Vangelo.
È ovvio che il
pensiero filosofico possiede uno spazio legittimo nella dogmatica.
L’elaborazione dell’intellectus fidei non può rinunciare
all’uso della ragione. Senza la ragione naturale la teologia non
sarebbe altro che “una sancta rusticitas”, dice Melchiore
Cano. D’altra parte, se la pre-storia è una pre-storia effettiva,
se Israele è realmente la radice nutriente della Chiesa ex
Judaeis et gentibus, in che modo si manifesta la verità di Dio
anche nei versi “offensivi” su Dio?
L’esegesi
veterotestamentaria moderna ha riscoperto l’immensa pluralità e
complessità dei predicati di Dio nell’Antico Testamento. Ecco un
solo esempio: recentemente Andreas Michel ha pubblicato un lavoro
dal titolo Dio e la violenza contro i bambini nell’Antico
Testamento,in cui analizza un gran numero di testi che parlano
della violenza contro i bambini e si concentra poi sui testi che
parlano della violenza di Dio contro i bambini. Il problema di come
trattare metodologicamente questi testi non è stato finora risolto.
Ma certo, ignorare questi testi come spesso succede nella teologia
dogmatica non è più tollerabile. I problemi che si aprono non sono
solo problemi di teologia morale e di etica. La questione è molto
più profonda: ci si chiede se questa maniera di parlare di Dio non
sia una cosa blasfema per gli uomini di oggi e tutt’altro che una
confessione della fede in Dio. È possibile snodare questa
problematica senza un dialogo con l’interpretazione ebraica di
tali testi? Questo non significa ovviamente che i classici loci
alieni non devono essere consultati in questo contesto.
Piuttosto, il riferimento all’interpretazione ebraica
dell’Antico Testamento diventa una istanza “semi-propria”, un locus
theologicus semiproprius, per la teologia: “semi-proprio”,
perché appartiene alla Chiesa e fa parte del suo “patrimonio”
essendo la su radice. E “semi-proprio”, perché alienato
da Cristo.
Un altro esempio del
nuovo uso dei loci theologici potrebbe essere individuato
nella trattazione della ecclesiologia. Abbiamo ricordato sopra il
profilo proprio che riceve il locus theologicus
dell’autorità della Chiesa cattolica. Come Chiesa ex Judaeis
et gentibus che nasce da Israele, salvata e unita per la croce,
per la resurrezione del Signore e per la missione dello Spirito,
questo popolo di Dio è popolo messianico nel senso proprio e
autentico.
È interessante che
il Concilio Vaticano II abbia utilizzato la parola “popolo
messianico” nella costituzione dogmatica Lumen gentium art.
9:
Questa alleanza nuova
l’ha istituita Cristo: il nuovo patto nel suo sangue [cfr. 1 Cor
11, 25]. Egli chiama gli uomini dai giudei e dai pagani, per formare
di essi un’unità che non è più secondo la carne ma nello
Spirito, cioè il nuovo popolo di Dio. Infatti coloro che credono in
Cristo, i rinati non da seme corruttibile ma da uno incorruttibile
che è la parola del Dio vivente [cfr. 1 Pt 1, 23], non dalla carne
ma dall’acqua e dallo Spirito Santo [cfr. Gv 3, 5s] costituiscono «la
stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che
Dio si è acquistato […]; quelli che un tempo erano non popolo,
ora sono il popolo di Dio» [1 Pt 2, 9s].
Da questo carattere
messianico derivano prospettive per l’elaborazione della
ecclesiologia. La Chiesa è popolo messianico che segue Cristo: è
chiamato, dunque, a partecipare alla missione messianica di Gesù
Cristo. La riconciliazione, il perdono dei peccati, l’arrivo del
regno sono proclamati messianicamente, e il popolo di Dio deve
verificare queste verità nelle differenti situazioni storiche. È
la missione messianica, descritta in Isaia 61, 1-4. La verifica del
Vangelo si manifesta in una maniera di vivere. Dunque, il carattere
pneumatico e carismatico della Chiesa deve essere determinato in una
maniera nuova. E qui la relazione della Chiesa con il mondo e con la
situazione storica degli uomini riceve un peso enorme.
Finora
l’ecclesiologia teologica era interessata principalmente a
mostrare che la Chiesa è fondata da Gesù Cristo e riceve le sue
strutture da questa costituzione. Se l’accento nella ecclesiologia
è messo invece sul popolo messianico che segue Gesù Cristo, la
verifica della Chiesa e la verifica delle sue strutture si fondano
primariamente sulla evoluzione della dinamica messianica che è la
caratteristica di questo popolo. Anche se questa dinamica messianica
si realizza sempre in forme frammentarie, essa rimane il tratto
fondamentale. Così la teologia, e in particolare l’ecclesiologia,
si trova di fronte a provocazioni metodologiche. Elaborando
l’aspetto messianico che vede Gesù Cristo come il Messia che ha
realizzato la sua messianicità nella forma di servo, emergono i
criteri e le forme di vita per la Chiesa di oggi. Tutti i momenti
organizzativi e strutturali della Chiesa trovano il loro senso nel
servire ed esprimere il carattere messianico della comunità dei
fedeli.
Come ultimo esempio,
vorrei accennare rapidamente alla trattazione dogmatica delle virtù
teologali, in specie della fede. È la fede che caratterizza i
giusti dell’Antico Testamento come i fedeli del Nuovo Testamento.
Cambiano gli oggetti materiali della fede nell’economia divina, ma
non cambia la fede stessa. I Padri della Chiesa come i teologi
medievali hanno affermato questa verità con fermezza. Oggi si
pongono questioni ulteriori: come parlare della fede, se l’Antico
Testamento parla dell’alleanza di Noè, di Melchisedek e degli
altri patriarchi prima dell’alleanza con il popolo dopo l’esodo?
Che “figure” può assumere la fede in Dio? Sono questioni che
toccano il dialogo con le differenti religioni. Possono essere
risolte senza prendere in considerazione l’interpretazione ebraica
dell’Antico Testamento?
Spero che queste
riflessioni esemplificative abbiano mostrato che la scoperta della
relazione ebraico-cristiana provoca nuove riflessioni metodologiche
nella teologia cristiana e specialmente nella teologia dogmatica.