Credo vi siano due
modi di concepire il dialogo fra le diverse religioni. Il primo vede
come soggetti le religioni, appunto, come sistemi di idee e di
credenze. Nel nostro caso, l'Ebraismo entrerebbe in dialogo con il
Cristianesimo.
È molto difficile, per non dire impossibile, definire gli scopi che
si prefiggerebbe una tale operazione; la religione non è una scienza,
nella quale, come ci ha insegnato Popper, la falsificazione di una
teoria sulla base di dati sperimentali o osservazionali dovrebbe e
potrebbe indurre il sostenitore della teoria stessa a rivederne le
stesse fondamenta.
Nelle religioni questo non è immaginabile, perché,
per quante concessioni posano farsi, si arriva comunque a un punto
irrinunciabile, collegato con la rivelazione e pertanto con una verità
indiscutibile. Rinunciando a questo punto, una religione dovrebbe
dissolversi e a questo punto non di dialogo si tratterebbe (venendo a
mancare uno dei protagonisti) ma di conversione, dolce o forzata che
sia. Il secondo modo che vedere il dialogo è concreto e vede come
soggetti dialoganti determinati esseri umani che appartengono a una
tradizione storica e a determinate collettività umane strutturate che
educano i propri figli entro un sistema di credenze e di principi.
Esattamente come degli esseri umani che parlano lingue diverse,
reciprocamente incomprensibili, possono trovare il modo di comunicare
fra di loro, di cercare di conoscersi, di spiegarsi i rispettivi
costumi e regole sociali, infine di tradurre ciascuno la propria
lingua in quella dell'altro; persino di piacersi, anche se poi il
cinese resterà cinese e lo spagnolo, spagnolo, così, analogamente,
può avvenire fra esseri umani che "praticano" religioni
diverse. Naturalmente può ma non deve necessariamente. Che cosa
significa questa ultima affermazione? Questa domanda può essere posta
anche sotto un'altra forma: quali sono gli impedimenti concreti al
dialogo? A me pare che essi siano classificabili in due categorie.
La
prima riguarda proprio la strutturazione di una collettività
religiosa. Esattamente come uno Stato centralizzato e autoritario può
chiudere severamente i confini e scoraggiare i rapporti con lo
straniero, fino a fare della propria peculiarità una ideologia della
quale convincere i propri sudditi ed autoconvincersi, così può
succedere anche in una religione fortemente strutturata, anche perché
le occasioni di vita comune che possono verificarsi di volta in volta
per un seguace di una religione con il seguace di un'altra religione
(intercorsi commerciali, culturali, anche occasionali), molto più
difficilmente si verificano per le gerarchie.
La seconda, collegata
alla prima, consiste nell'evoluzione storica. Le religioni meno
strutturate difficilmente conoscono, nella gestione del potere
all'interno della società, una concorrenza fra due gerarchie di
potere, "religiosa" l'una e "secolare" l'altra.
Così è stato per l'Islam e anche, entro certi limiti conseguenti
allo stato diasporico, per gli ebrei. Il mondo occidentale ha
considerato questa caratteristica a lungo come un segno di
integralismo (detto poi sbrigativamente e con scarsa precisione
fondamentalismo), che sarebbe iscritto, come si usa dire, nello stesso
codice genetico dell'Islam. Nel mondo cristiano europeo le cose sono
andate diversamente e gli scismi che hanno colpito la Chiesa primitiva
unitaria sono stati collegati con strutture di potere politico che
progressivamente hanno preso il sopravvento.
Si tratta di un conflitto
che non è mai stato risolto definitivamente, all'interno del quale
andrebbero letti meglio alcuni episodi recenti che - come ebrei - ci
hanno feriti e addolorati. La beatificazione di Pio IX, come
confermato da raduni di massa successivi come quello di CL a Rimini,
va visto come un capitolo della battaglia contro il Risorgimento,
tendenzialmente laico ed emancipatore delle minoranze religiose,
ancorché non completato del suo percorso. Il Dominus Jesus con le
spiegazioni del Cardinale Ratzinger ne sono un complemento logico.
La
gerarchia difende orgogliosamente (e, dal suo punto di vista,
giustamente) il proprio diritto alla verità esclusiva e concepisce il
"dialogo" con gli altri solo se è funzionale
all'evangelizzazione, in altre parole se esso tende a diventare un
monologo. Giungono poi le dichiarazioni del Card. Biffi che invoca una
immigrazione cristiana piuttosto che quella musulmana, per non
alterare le caratteristiche "culturali" del Paese. Devo dire
che anche il razzismo cosiddetto "spirituale", all'italiana,
del 1938, sosteneva di seguire questa linea. Che però si è conclusa
con le deportazioni.
È inutile dire che non possiamo immaginare alcun
dialogo con queste posizioni. È verissimo che i musulmani si
distinguono dai cristiani per le loro regole alimentari, per la
circoncisione, per le giornate festive, per il diritto matrimoniale.
Ma questo vale anche per noi ebrei, ed allora? Dovremmo abolire la
mensa kasher , dovremmo dimenticare il Sabato o annullare la milà?
No, non abbiamo alcuna intenzione di farlo. Ma abbiamo il diritto di
restare in Italia come cittadini paritari e altrettanto vale per i
nostri fratelli musulmani. Cambierà l'identità nazionale italiana?
Io non lo so, ma rifiuto una concezione statica di questa, che, come
tutte le identità di gruppo, ha attinto in un passato abbastanza
recente a tanti elementi "estranei", integrandoli,
assimilandoli ed anche arricchendosene.
Gli atteggiamenti anti-dialogo
che abbiamo malinconicamente elencato si arricchiscono quotidianamente
di luoghi comuni e di espressioni che rivelano antiche sedimentazioni
di pregiudizi, insufficientemente combattute se non volutamente
trascurate. "I maomettani credono in Allah". A giusta
ragione i musulmani si risentono di essere chiamati così e noi
dovremmo sapere che Allah significa semplicemente Iddio. Oppure, a
proposito della pena di morte che è di estrema orripilante attualità:
"gli americani l'hanno attinta dall'Antico Testamento, che
afferma <occhio per occhio, dente per dente>".
Si tratta di
una lettura fondamentalista della nostra Torà, che noi ebrei abbiamo
tanto amato da attualizzarla leggendola con le lenti della nostra
Tradizione orale che ha sostituito al principio del taglione quello
del risarcimento. Sarebbe dunque gravissimo per la civile società
italiana se questi atteggiamenti si affermassero e si radicassero. Si
passerebbe, con la demonizzazione dello straniero e con il rifiuto di
riconoscere anche in altre tradizioni (diverse ma tanto vicine) delle
culture che sono degne di essere conosciute ed apprezzate,
all'erezione di nuove e temibili barriere fra i popoli, dalle quali
abbiamo tutto da temere e nulla da guadagnare. Se ne deduce che il
dialogo può e deve continuare. C'è una contraddizione in questa
affermazione? Solo apparentemente. Chi si oppone a continuare ha il
diritto e il dovere di porre una precisa domanda: dialogo…. con chi
e fra chi? E la risposta è chiara: il dialogo fra ebrei e cristiani
non solo può ma deve continuare ma senza altri fini se non il dialogo
in sé e per sé.
Bisogna d'altra parte evidenziare che condizione
determinante perché possano stabilirsi dei buoni rapporti tra le
varie fedi è che lo Stato sia laico; uno Stato cioè che non eserciti
alcuna ingerenza sulle attività delle diverse confessioni religiose,
ma che d'altra parte non subisca le suggestioni dei poteri forti delle
loro gerarchie. In questo momento nel quale certi nuovi interpreti
della storia pongono in discussione gli stessi valori fondanti
dell'Italia civile e democratica, gettando discredito persino sul
Risorgimento, rivolgiamo un appello a tutta la società civile ed alle
sue rappresentanze politiche, affinché si impegnino a fondo nella
difesa della laicità dello Stato, indispensabile non solo per
favorire il dialogo interreligioso, ma anche e soprattutto, per
sostenere e sviluppare nella collettività nazionale una cultura
pluralistica, aperta ai contributi di tutte le sue componenti.
Confidiamo che non saremo soli in quest'impresa.