Nel 2002 esce per i tipi della Editrice
Missionaria Italiana, il suo libro Dialogo guarigione del mondo. In
questo clima di preparazione alla guerra, in cui peggiorano i rapporti
arabo-israeliani e in cui c’è sempre maggiore violenza – non solo
fisica, ma anche verbale – il dialogo rappresenta una vera e propria
sfida; lei stessa l’ha definito «guarigione del mondo», ed ha
individuato in esso uno degli strumenti per valutare e comprendere i
problemi, quel primo passo per ascoltarsi e trovare insieme nuove
soluzioni. C’è una circostanza particolare che l’ha spinta a
scrivere questo libro?
Questo libro e il frutto di
esperienze maturate in tanti anni, lavorando proprio per il dialogo e
per l’Amicizia Ebraico Cristiana. Ho tenuto delle conferenze,
raccolto delle idee, che poi ho cercato di riordinare, finché un
giovane amico non mi ha spinto a rielaborarle in una forma organica.
Avevo gia degli appunti, un po’ malmessi, ma sostanziosi. Glieli
feci leggere e mi incitò a valorizzarli. Ovviamente lo ‘costrinsi’
a darmi una mano perché da sola non ce l’avrei fatta. Così è nato
Dialogo guarigione del mondo, costituito da capitoli autonomi nel
contenuto, ma allo stesso tempo collegati sempre all’idea del
dialogo e dell’identità. L’identità nasce con le persone e con
esse vive, perché senza identità interiore non esiste dialogo. Per
me era importante che su questi temi ci fosse anche una voce ebraica
al femminile. Non è stato facile trovare il titolo. Io ne avevo
proposto anche un altro: L’ubbidienza è sempre cieca. Però
il titolo definitivo, Dialogo guarigione del mondo, mi sembra
che individui in maniera precisa i contenuti del libro. Non ci sono
ricette confezionate, il libro segue il mio percorso esistenziale, ed
invita ciascuno ad assumersi la responsabilità della propria vita,
senza identificarsi passivamente con nessuno, ma lasciando spazio all’individuo
stesso e alla sua creatività, al fine di dare una corso nuovo alla
propria esistenza e contribuire a migliorare la vita del pianeta. Non
serve aspettare che altri agiscano al posto nostro per poi magari
criticarne le azioni: occorre diventare tutti molto più responsabili.
Io credo che ci sia per tutti una più ampia possibilità di agire,
molto più di quanto non si creda e non si faccia.
In che modo sono stati
organizzati nel libro tutti i materiali e gli appunti raccolti?
Sono confluiti in quattordici
capitoli autonomi, che ho soltanto provveduto a raggruppare seguendo
un filo conduttore; vengono trattati vari argomenti collegati al senso
della vita e al suo significato, arricchiti poi da citazioni e testi
poetici. E un processo educativo che va dal conflitto al dialogo,
dalla religione alla religiosità come cammino interiore e risanamento
esistenziale, dall’emarginazione all’integrazione attraverso la
comunicazione e la scoperta della propria identità. Insomma, "dalla
logica della morte alla logica della vita", questo è infatti
anche il titolo dell’ultimo capitolo, che rappresenta una sintesi
del contenuto del libro. Si è adottato un linguaggio essenziale,
semplice, autentico che bilanciasse la densità degli argomenti, che
consentisse dei momenti di riflessione per elaborare una personale
presa di coscienza e che proponesse un nuovo modo di fare cultura.
C’è qualche argomento che
avrebbe voluto trattare in maniera più approfondita? Qualcosa che
vorrebbe precisare meglio?
No, mi pare che gli argomenti
siano ben trattati. Attualmente la mia idea e di cercare un modo
universale di fare comunità. Ho in mente qualcosa sul modello del
villaggio di Neve Shalom in Israele. Neve Shalom e una esperienza
importante non solo perché si trova in una zona di guerra. Ovunque c’è
bisogno di stabilire un dialogo per la pace. Quello che intendo e che
anche in Italia, fra ebrei e cristiani, restano comunque
incomprensioni e talvolta ostilità: anche in contesti come il nostro,
il dialogo come si fa a Neve Shalom, per accettarsi gli uni con gli
altri, potrebbe assumere una grande importanza. Fra ebrei e cristiani
in Italia e in Europa occorrerebbe un dialogo più ampio e profondo,
non basato solamente su incontri superficiali. Mancano in realtà
occasioni reali di confronto e di condivisione, per approfondire la
conoscenza reciproca e per cercare di eliminare i pregiudizi.Sarei
lieta se il libro potesse rappresentare lo spunto per dar vita ad
incontri, seminari e quant’altro, mettendo a frutto nel modo
migliore il contributo che ciascuno può dare. Ritengo che il lettore
debba svolgere un ruolo attivo arricchendo con riflessioni proprie gli
spunti presenti nel libro.So che lei ha a cuore e segue da vari anni
le iniziative di Nevè Shalom-Waahat as Salaam, il villaggio che, nato
tra il 1970 e il 1972, sorge al centro di Israele, tra Gerusalemme e
Tel Aviv e che rappresenta una sfida rispetto alla guerra tra ebrei e
palestinesi, un tema purtroppo ancora attuale. In Nevè Shalom si
cerca di concretizzare il dialogo in amicizia e collaborazione fra i
popoli affrontando le barriere di incomprensione e paura che spesso
esistono fra culture diverse.
Come si può, nella nostra
vita quotidiana, concretizzare il progetto di Nevè Shalom?
Qui da noi esiste l’Associazione
degli Amici di Neve Shalom, con sede a Milano, ma che opera in tutta
Italia. L’associazione cerca di portare anche in Italia le
esperienze del villaggio, tramite, ad esempio, incontri con persone
che lavorano là. L’associazione contribuisce anche finanziariamente
a sostenere questa esperienza. Hanno una pubblicazione, "Lettere
dalla collina", un resoconto della vita e delle attività del
villaggio.Lo scorso anno, per la prima volta, sono venute dal
villaggio due donne, una israeliana e una palestinese che hanno
mostrato come sia possibile lavorare insieme per la pace e come,
incontrare le stesse difficoltà, le avesse avvicinate. Neve Shalom
non è molto ben visto né dagli israeliani né dai palestinesi e gli
abitanti del villaggio vengono quasi emarginati, come per una sorta di
diffidenza nei confronti di chi opera per la pace. Lavorare per la
pace significa non essere di parte, non appoggiare ne gli uni ne gli
altri e non opporsi ne agli uni ne agli altri, in questo modo non si
è accettati da nessuno dei due. All’inizio a Neve Shalom c’erano
solo poche famiglie, credo 14; adesso sono 40 e ce ne sono molte altre
che ci vorrebbero andare. Queste famiglie convivono in un paese – e
gia la convivenza e un primo passo importante – e i bambini a scuola
imparano sia l’ebraico che l’arabo, crescendo in una doppia
cultura; alle feste degli uni ci vanno anche gli altri e questo crea
un momento di condivisione molto importante. Inoltre vengono
organizzati dei gruppi di incontro tra studenti israeliani e
palestinesi per cercare di abbattere i muri del pregiudizio reciproco.
Non basta appoggiarci a quello che abbiamo in comune,
bisogna accettare l’altro in tutto. Le differenze ci arricchiscono
sempre.
Lei ha detto che questo libro
è frutto di anni di esperienze, fra le quali quella dell’Amicizia
Ebraico-Cristiana. Ci può dire come questa associazione è nata e
quale ruolo ha avuto nella città di Firenze?
L’AEC e stata per me un’esperienza
fondamentale. L’associazione di Firenze è nata nel 1950, un po’
come sono nate tutte le amicizie ebraico cristiane nel resto d’Europa.
Paradossalmente le atrocità della guerra si sono fatte germe di
solidarietà portatrice di riconciliazione