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Tornano in circolazione per decreto ministeriale i crocifissi di Stato, di nuovo il simbolo della Nonviolenza è impugnato come corpo contundente per affermare un diritto politico di Dio, o rilanciare una religione dell'utile, all'insegna del vecchio motto della borghesia volterriana: "Ciascuno per sé e Dio per tutti". Era spaventosa l'immagine del Crocifisso brandito sui carri della morte dei Franchisti durante la guerra civile spagnola. È ripugnante l'uso politico del Crocifisso per verniciare di una ipocrita patina di cristianesimo culturale l'ateismo pratico di una politica basata sul culto dell'Oro, sull'individualismo esasperato, sulla caccia feroce agli immigrati in cerca di pane alle mense dei nostri Epuloni. Il crocifisso viene di nuovo crocifisso da quegli stessi che lo vogliono appeso sui muri pubblici: una mistificazione. Ci sono stati vari progetti nella storia di abrogazione del cristianesimo. Oggi il progetto diventa più che mai astuto: si tenta di abrogare il cristianesimo usando il Crocifisso di Stato. Faust è passato un'altra volta a Villa Casati ad Arcore. Ed ha imparato qualcosa. In questa discussione, si è ricordato che non serve essere liberal-cattolici, basta essere semplicemente liberali per decidere come schierarsi nella polemica sul crocifisso nelle scuole: perché il crocifisso è sì il simbolo di una fede, ma anche della civiltà giudaico-cristiana che ha improntato di sé l'Occidente. Qualche esponente del centro destra ne ha fatto una questione di identità. Ormai siamo alla paranoia delle impronte: il crocifisso sarebbe l'impronta dell'Occidente, anzi "il simbolo della nazione", come il chador - dice Ferdinando Adornato - è un diritto delle donne afghane. Non si scopre ora l'ignoranza in cultura religiosa di certa "intellighentzia" laica: trascura che il crocifisso è per i cristiani l'immagine del corpo di Dio, comprensibile solo nell'ordine della fede, non in quello dell'abbigliamento, e neanche in quello di una cultura particolare. Ignora che per i musulmani Dio non può essere rappresentato in alcun modo. E che anche per gli Ebrei vige l'interdetto mosaico: "Non nominare il nome di Dio invano". I cristiani hanno sempre qualcosa da imparare dagli Altri: meglio un crocifisso praticato che giocato ai dadi tra partiti politici e messo al muro. La sua croce doveva essere scandalo e follia, diceva san Paolo, noi lo abbiamo ridotto a un tranquillante "culturale" e a un portafortuna per i calciatori che entrano in campo. Doveva essere un segno di salvezza per tutti, ora qualcuno tenta di renderlo segno di salvezza per alcuni, e di perdizione per gli altri. Nasce tardi il crocifisso nell'iconografia cristiana. I primi crocifissi sono del VI secolo. Per sei secoli le comunità cristiane ne hanno fatto a meno. In ogni caso, li dipingevano con gli occhi aperti, come ancora viventi, e vicino alla tomba vuota, tanto era prevalente nella cultura il paradigma della resurrezione. La quale non a caso è tornata in forze ad emergere nella riflessione teologica con la riscoperta "moderna" dell'escatologia. In qualunque tempo il crocifisso significa questo: la potenza divina si è fatta inerme, rifiuta la spada non solo per la conquista ma anche per l'autodifesa e sceglie di morire su un patibolo infame. Un simbolo per la nonviolenza come fonte di storia. Come dunque si può pretendere che sia il simbolo dell'Occidente? Anche il nazismo ornava le sue armate messianiche con la croce, per quanto uncinata. La Chiesa firmava concordati con Hitler, con Mussolini e con Franco, ma la croce era al suo posto nell'immoralismo politico delle dittature e sulle stragi del fascismo in Etiopia? Padre Turoldo mi raccontava di quando vide un crocifisso sulla scrivania d'un banchiere a Ginevra. Era un pezzo d'antiquariato. Si tirava l'asta verticale e dal crocifisso si estraeva un pugnale. Era usato dai crociati per offrirlo al bacio dei prigionieri musulmani. Se non lo baciavano venivano infilzati. E commentava che l'offesa più grave che si possa fare al Nonviolento Crocifisso è proprio di brandirlo come un emblema di parte, di usarlo come collante dell'etno-centrismo, di mistificarlo e bestemmiarlo come ingrediente dello "scontro di civiltà" per giustificare la guerra. Non sono iconoclasta ma mi oppongo a questa spericolata, simoniaca e oltraggiosa offensiva anticristiana che usa il crocifisso per liquidare le ultime, fragili resistenze della religione della carità in questo paese. Vorrei solo che il crocifisso esistesse nei cuori prima che sui muri pubblici, nelle coscienze prima che negli apparati statali. Sono convinto che non sono i crocifissi esibiti a fare cristiana una società, ma i cristiani, se sono capaci di pace e di giustizia, di adorazione e di rivolta di fronte all'oppressione e al massacro dei più deboli. Di questo anzitutto i dirigenti ecclesiastici dovrebbero preoccuparsi: di rifare i cristiani, di rifarli dall'interno, in modo che non pieghino la loro coscienza di fronte ai tiranni. Confesso di non comprendere le ansie per la segnaletica esterna, se non come sintomo della vetustà intellettuale dei nostri integralisti cattolici, pallida eco di Maurras, ma come lui indaffarati "a togliere dal Vangelo il suo veleno rivoluzionario". A loro non gli par vero che il segno della croce sia divenuto, almeno nei media, il ghiribizzo scaramantico dei calciatori all'ingresso in campo. Un amuleto calma l'ansia. E intanto mettono tutto l'impegno possibile nell'accelerare il processo di secolarizzazione in chiave neoliberista, facendo strame della verità e della giustizia, e segando il ramo dei valori cristiani sui quali si regge l'ordine democratico. Chiedono ai vescovi di allargare la cruna dell'ago, ma offendono pubblicamente quelli che non accettano di farci passare i loro cammelli da nababbi. Pretendono il crocifisso nelle scuole, ma diseducano con mezzi potenti e su tutte le reti le nuove generazioni. Vorrebbero una Chiesa ridotta al foro interno e al culto, privarla della carità e dei poveri, cioè dei "segni dei chiodi" per i quali può fluire ad essa la luce del Cristo. Questa vecchia Chiesa madre, grazie all'armatura che ci irrita talora e che consideriamo vetusta, ha preservato grazie alla carità il mistero della vita divina. Essa ha mantenuto contro tutte le eresie, e continua a mantenerla anche contro la gnosi anticristiana di oggi, la parola del Cristo che ha cambiato il destino dell'umanità: "Questo è il mio corpo, offerto per tutti voi". È il corpo vivente di Colui che ha dato il proprio sangue perché il sangue dell'uomo non sia più versato. Il cristianesimo ha imparato a proprie spese cosa ha significato per 1500 anni preferire i crocifissi "di stato" a questo altro tipo di icona. La società si è fatta profana e multireligiosa, nemmeno il Cardinale Ratzinger accetta che il cristianesimo torni ad essere una "religione della società", nella quale i crocifissi siano esibiti come emblemi di una nuova alleanza tra trono e altare, messi sui muri e abrogati dalla vita. È soltanto allontanandosi da quei muri pubblici e dalla loro ambiguità che il crocifisso potrebbe tornare ad essere significativo per mobilitare le forze spirituali, nell'ora in cui il mondo agonizza, e ri-spiritualizzare l'uomo. Questa rimozione può apparire traumatica e "laicistica", ma forse è necessaria per purificare il senso del Dio crocifisso dalle immagini ereditate della religione utilitaria. Molto a ragione Jurgen Moltmann ha affermato che "cogliere Dio nel Crocifisso abbandonato esige una rivoluzione dell'idea di Dio". Ciò che era scandalo e follia per i contemporanei di Paolo resta tale anche per molti nostri contemporanei. È difficile abituarsi a questa figura di Dio inutile e impotente. Essa non funziona come utensile del dominio. È questo cui richiamava François Verillon quando avvertiva: "Noi cerchiamo Dio nella luna mentre lui sta lavandoci i piedi". Per quanti riconoscono nel crocifisso il Cristo di Dio e continuano a credere in lui quella croce significa che colui che ha subito la più profonda umiliazione da parte del potere politico diventa portatore della massima dignità e che la gloria di Dio non illumina più le corone dei potenti. Come notava Hegel, se colui che è morto impotente, esautorato e inutile sulla croce diventa per i credenti la massima e unica fonte di autorità, allora svanisce per essi la base religiosa del vincolo con il potere politico, che postula in ogni caso un rapporto di scambio delle utilità, un do ut des. Da queste poche osservazioni diventa chiaro che una teologia politica della croce è qualcosa che non ha nulla da spartire con la teologia politica delle religioni di stato. Essa si presenta anzi come l'avversaria irriducibile delle religioni politiche, e contesta a partire da un punto cardinale la possibile omologazione della fede cristiana a funzioni utilitarie nell'ambito degli interessi del sistema dominante. Al contrario, essa si traduce in una forza critica di liberazione dell'uomo dal giogo delle religioni politiche e dell'alienazione. Di qui il significato anti-idolatrico della teologia della Croce nel senso in cui essa si costituisce in fattore critico delle pretese dell'assolutismo. Non sarebbe impropria, da questo punto di vista, una lettura teologica delle Beatitudini nelle quali il rovesciamento introdotto dal Cristo manifesta il divino nelle figure dei poveri, dei semplici, degli umili, dei deboli e dei sofferenti, dei pacifici e dei diseredati. Il divino si costituisce nel mondo come scarto e non più nelle tradizionali categorie della potenza trionfale. In un mondo senza compassione, la mitezza di Gesù di Nazareth non può essere presentata in modi schiaccianti e trionfanti: Gesù non schiaccia nessuno, anzi "è il Dio che si è fatto schiacciare per l'amore verso l'uomo" ci ha insegnato il Cardinale Carlo Maria Martini. Il Dio crocifisso è dunque un Dio dello scarto. Il Totalmente Altro è per eccellenza il Non Potente. Egli non si arruola nelle file dell'idolatria politica e non può funzionare come utensile del potere, né ordinare a Pietro di impugnare la spada del potere per difendere lui e una civiltà, come ancora tentano di fare i nostri mammalucchi cristiani che aspirano a conquistare il mondo all'arma bianca. Perfino il papa polacco preferì consigliare le carmelitane del convento di Auschwitz a togliere la grande croce che avevano installato nel lager e trasferirle altrove. Ed è proprio ripensando alla Shoah che Emmanuel Levinas ha scritto una pagina su cui giova soffermarsi nella triste ora presente: "L'idea di una verità che si manifesta nell'umiltà, l'idea di una verità perseguitata, è l'unica modalità possibile della trascendenza. Manifestarsi come umile, come alleato del vinto, del povero, del perseguitato significa proprio non rientrare nell'ordine. L'umiltà disturba totalmente. La persecuzione e l'umiliazione a cui essa espone sono modalità del vero". |
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Riccardo
Di Segni Gli antichi testi rabbinici raccontano una storia su Rabban Gamliel (Gamaliele), l’autorevole rabbino che difese nel Sinedrio i primi fedeli di Gesù e di cui l’apostolo Paolo si vantava di essere stato discepolo. Gamliel frequentava le terme di Afrodite di Acco, un luogo pieno di statue dedicate agli dei; ed era molto strano che lo facesse il rappresentante tanto importante di una religione che rifiutava l’idolatria. Gamliel si giustificava in questo modo: «Non sono stato io ad andare nel territorio di Afrodite, ma è stata Afrodite a venire nel mio territorio». In altri termini, bisogna distinguere tra il territorio di Afrodite, cioè il tempio che le è dedicato e nel quale chi rifiuta l’idolatria non deve entrare, e la casa di tutti, come le terme pubbliche, dove qualcuno può anche averci introdotto immagini proibite, ma non per questo diventa proibita ai frequentatori. La posizione di Gamliel era quella del rappresentante di una religione allora senza potere politico, che non poteva permettersi, anche se l’avesse voluto, l’abolizione forzata delle immagini idolatriche. Cominciarono a farlo e ci riuscirono, tre secoli dopo questa storia, i rappresentanti del cristianesimo trionfante sugli «dei falsi e bugiardi». Da allora fu il cristianesimo a riempire gli spazi pubblici dei segni della sua fede. Non fu un processo senza ostacoli, perché anche nel cristianesimo l’uso delle immagini nella pratica religiosa fu sempre causa di discussioni e divisioni; non tanto per il cattolicesimo: e noi in Italia, dove la realtà cristiana è in gran parte cattolica, dobbiamo confrontarci con le scelte di questa parte del mondo cristiano così fedele alle sue immagini di culto. Per Gamliel, che era lo spettatore passivo dell’irruzione nel luogo pubblico di immagini che lo disturbavano, ma contro le quali non poteva fare nulla, si trattava di decidere se era lecito frequentare il luogo pubblico. Per la società moderna, nella quale ogni cittadino partecipa democraticamente alla decisione collettiva, il problema va oltre: si tratta di decidere se sia lecita l’introduzione di un segno privato in un luogo pubblico. La questione che oggi si pone del crocifisso nelle scuole, forse con un’enfasi esagerata, è quella dei limiti da porre al desiderio di una fondamentale componente della società a porre e imporre il segno della sua fede nella casa di tutti, nella quale coabitano tutte le altre parti della società. Non bisogna dimenticare che ogni stato moderno, per quanto laico possa dichiararsi, ha stabilito dei patti con le religioni, maggioritarie e minoritarie, derogando più o meno dal principio dell’assoluta separazione tra stato e religioni. Ciò che è avvenuto in Italia è il prodotto di una storia lunga e travagliata, e ciò che non è stato ancora definito con precisione, e che sta ai limiti delle decisioni consolidate, come il caso del crocifisso, solleva di tanto in tanto delle polemiche, banco di prova e di scontro tra almeno due concezioni diverse. In questo dibattito può avere qualche importanza conoscere gli stati d’animo e le domande di molti ebrei italiani. Si dice che il crocifisso sia un segno culturale, e che non bisogna rinunciare alla propria cultura e alle proprie tradizioni per un malinteso senso di rispetto delle minoranze. È vero che il crocifisso è anche un segno culturale, ma non è per questo che lo si vuole nelle scuole; lo si vuole perché è prima di tutto un segno religioso, e il problema è essenzialmente religioso. I cattolici rivendicano con giusto orgoglio che questo è per loro un segno di amore e di speranza, e non si capisce allora perché non debba essere presente ovunque. Ma visto da altre parti, come quella ebraica, il senso di quel segno è differente. Per noi è prima di tutto l’immagine di un figlio del nostro popolo che viene messo a morte atrocemente; ma è anche il terribile ricordo di una religione che in nome di quel simbolo, brandito come un’arma, ha perseguitato, emarginato, umiliato il nostro ed altri popoli, cercando di imporgli quel simbolo come l’unica fede possibile e legittima. La storia passata della Chiesa ha trasformato quel simbolo, che dovrebbe essere di amore, in un segno di oppressione e intolleranza. L’ultimo Concilio ha cambiato nettamente la direzione, ma la richiesta ripetuta di occupare il luogo pubblico con quel segno ripropone alla nostra memoria il tema dell’intolleranza. La domanda che allora si pone a quella parte del mondo cattolico che si batte tanto per il crocefisso è se siano tornati, o non siano mai finiti, i tempi in cui la religione cattolica ha pensato di imporsi e diffondersi non con la testimonianza e la pratica esemplare delle sue virtù, ma con l’invasione, la forza, l’occupazione. Il problema che ci preoccupa è quale modello di religione sia dietro alle richieste dei difensori del crocifisso. Come membri minoritari di una società pluralistica continuiamo a ragionare con Gamliel, e a non rinunciare agli spazi pubblici, subendone, se inevitabile, l’occupazione con segni privati; come cittadini partecipiamo al dibattito civile per definire i limiti e i diritti di ogni religione nella società laica; come fratelli, rivolgiamo ai fratelli cattolici una domanda preoccupata sulla loro identità, sul loro modo di vivere e proporre la loro fede al mondo circostante. |
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Il crocifisso e i
crocifissi della storia
Si discute se
l'immagine del Crocifisso sia simbolo universalmente accettato o invece
sia un'ostentazione illiberale che ricorda solo una parte della formazione
della coscienza europea. Così posta, la questione è destinata solo a
radicalizzarsi, suscitando inopportuni patriottismi laici o cattolici, e
curiosi interventi di minoranze religiose.
Cum Passione, dove Passio, parola liturgica significa in maniera diretta
ed esclusiva la passione di Cristo. Entra nella lingua parlata un termine
nuovo che indica la partecipazione al dolore del supplizio, la
comprensione del dolore della Madre, la cui raffigurazione verrà chiamata
Pietà. Compassione sarà il lievito dei secoli bui, la fratellanza degli
oppressi, l'eguaglianza nel dolore, la libertà di chi non ha più nulla
da perdere. Bartolo Ciccardini |
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