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domande 21 risposte
per conoscere correttamente la
questione israelo-palestinese
a cura di Luciano Tas, scrittore e
giornalista, già direttore del mensile Shalom
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Quasi duemila anni fa
esisteva uno Stato ebraico in Palestina, ma poi ci hanno vissuto gli
arabi, cioè i palestinesi. Dopo tanto tempo non hanno acquisito il
diritto alla loro patria?
Gli arabi non hanno abitato a lungo in modo stabile
la Palestina. Continuativamente, solo poco più di un secolo. Per quattro
secoli, dal 1516 al 1918, la Palestina è stata una negletta provincia
turca quasi disabitata, consegnata dall'incuria dei governi di Istanbul
alla sabbia del deserto e alle paludi. La Palestina (meglio conosciuta in
quei secoli come "provincia di Damasco" e comprendente l'attuale
Israele, Cisgiordania, Giordania, Libano e parte della Siria) incomincia a
essere "restaurata" solo a partire dalla seconda metà dell'800, quando i
primi pionieri ebrei, giunti dall'Impero zarista, creano qualche
occasione di lavoro, capace di attirare lavoratori di altre province
turche, come la Siria, l'Iraq, l'attuale Giordania (creata
artificialmente, a tavolino, solo nel 1921), lo stesso Egitto.
Maggiori
occasioni lavorative si sviluppano tra la prima e la seconda guerra
mondiale, sia per l'occupazione britannica che per le fatiche dei
contadini ebrei, con i loro aranceti e le terre acquistate a caro prezzo
dagli sceicchi arabi e strappate alla sabbia, e al conseguente indotto.
Che oggi i palestinesi, cioè i pronipoti dei tanti lavoratori arabi
giunti in Palestina un secolo fa, esistano e abbiano acquisito una
coscienza nazionale, prima del tutto inesistente, è vero. Che abbiano
diritto a un loro territorio e a un loro Stato autonomo oltre alla
Giordania, dove più dei due terzi degli abitanti sono palestinesi, è
ormai altrettanto accettato. Ma non è falsando la Storia che questi
diritti diventano più sicuri.
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Ma allora cos'è, di chi è la Palestina?
Come entità autonoma la Palestina (Peleshet) non è mai esistita, né sono
mai esistite una lingua e una cultura palestinesi. I palestinesi, come i
giordani, i siriani, i libanesi e gli iracheni (tutte entità nazionali
inventate dopo la prima guerra mondiale, nel 1920) sono arabi, proprio come i giordani, i siriani e così
via, e tali unicamente si considerano. Per quasi 1900 anni l'area
designata con il nome greco-romano di Palestina (per far dimenticare il
nome stesso di Giudea) non è stata una nazione e non ha avuto frontiere,
ma solo confini amministrativi.
Gli Arabi conquistano la Palestina
soltanto nel 637 e vi regnano fino al 750, per 113 anni in totale. Poi vi
si alternano Persiani, Turchi, Circassi, Bizantini, Curdi, e nel 1099 i
Crociati cristiani, sconfitti nel 1187 da un condottiero curdo, il
Saladino. Nel 1244 sono delle tribù alleate di Gengis Khan a occupare e a
mettere a sacco la Palestina. Poco dopo arriveranno i Mongoli, cacciati
nel 1516 dai Turchi che costituiranno l'Impero Ottomano, dalla Turchia ai
paesi del Magreb, vale a dire lungo tutta la costa meridionale del
Mediterraneo. I Turchi vi resteranno fino alla fine della prima guerra
mondiale, nel 1918.
La decadenza e il degrado della Palestina la fa
apparire una " landa desertica e paludosa (..) quasi disabitata"
agli occhi di Edmondo De Amicis nella seconda metà dell'800, mentre nel
1867 Mark Twain scriveva che la Palestina era (una silenziosa e funerea
estensione, una desolazione (...) Non abbiamo mai visto un essere umano
sulla strada (...). Perfino gli ulivi e i cactus, quegli amici sicuri di
un terreno incolto, hanno per lo più abbandonato il paese (..). La
Palestina siede su sacchi di cenere, desolata e brutta...".
Gli unici
insediamenti permanenti in Palestina - segnatamente a Gerusalemme e a Safed, sede ininterrotta quest'ultima di università religiose - sono
stati quelli ebraici, a partire dalla fine del regno ebraico nel 70.
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Perché gli ebrei dopo la seconda guerra
mondiale hanno scelto di andare proprio in Palestina, dove già c'erano
gli arabi?
Non si può dire che abbiano scelto.
Prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, il
nazismo in Germania già perseguitava i suoi 500.000 cittadini ebrei. Le
disperate richieste di quegli ebrei di essere accolti nei paesi
democratici al fine di evitare quello che già si profilava chiaramente
come il loro tragico destino, vennero respinte.
Nel luglio 1938 i
rappresentanti di trentuno paesi democratici s'incontrarono a Evian, in
Francia, per decidere la risposta da dare agli ebrei tedeschi. Ebbene, nel
corso di quella Conferenza, la risposta fu che nessuno poteva e voleva
farsi carico di tanti profughi.
Dal canto suo la Gran Bretagna, potenza
mandataria della Palestina, venendo meno al solenne impegno assunto verso
gli ebrei nel 1917 di creare una National Home ebraica in Palestina, nel
1939 chiudeva la porta proprio agli ebrei con il suo Libro Bianco, nel
vano tentativo d'ingraziarsi gli arabi. È stata questa doppia chiusura a
condannare a morte prima gli ebrei tedeschi e poi, via via che la Germania
nazista occupava l'Europa, gli ebrei austriaci, cechi, polacchi,
francesi, russi, italiani, e così via. Il costo per gli ebrei d'Europa,
che contavano allora una popolazione di dieci milioni, fu di sei milioni
di assassinati, inclusi un milione e mezzo di bambini. Appena finita la
seconda guerra mondiale i 5/600.000 ebrei superstiti, in massima parte
originari dell'Europa orientale, si trovarono senza più famiglia, senza
amici, senza casa, senza poter rientrare nei loro paesi, dove
l'antisemitismo divampava (in Polonia ci furono sanguinosi pogrom persino
dopo la guerra, e nell'Unione Sovietica Stalin dava l'avvio a una feroce
campagna antiebraica).
Tra il 1945 e il 1948 nessun paese occidentale,
Gran Bretagna e Stati Uniti in testa, volle accogliere neanche uno di quel
mezzo milione di ebrei displaced persons, come venivano definiti dalla
burocrazia alleata. La Palestina, malgrado la Gran Bretagna e il suo Libro
Bianco, sempre in vigore anche dopo la fine della seconda guerra
mondiale, non fu quindi una scelta, ma l'unica speranza, legata al sogno,
all'utopia sionista, cioè quella del "ritorno" a una patria,
all'antica patria, il sogno di Teodoro Herzl. Una patria antica/moderna
dove da tempo si era già formata una infrastruttura ebraica.
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Gli arabi non hanno mai perseguitato gli ebrei.
E perché poi gli arabi dovrebbero pagare per il fatto che gli ebrei sono
stati sterminati dai nazisti?
Se il metro di misura dell'odio per gli ebrei è
quello che nei secoli passati ha esercitato in Europa la Chiesa, con i
suoi ghetti, i suoi roghi, i suoi pogrom, allora si può dire che gli
arabi non hanno mai fatto nulla di simile, almeno nelle stesse dimensioni.
Nel passato la vita degli ebrei nei paesi islamici e negli stessi paesi
arabi è stata nell'insieme sopportabile. Di serie B, ma sopportabile. Gli
arabi hanno incominciato a sviluppare in Palestina un odio
"politico" nei confronti degli ebrei pochi anni dopo l'inizio,
nel 1920, del Mandato britannico. L'odio, sapientemente fomentato dai capi
arabi, primo tra i quali il Gran Muftì di Gerusalemme (che durante la
seconda guerra mondiale avrebbe raccolto volontari per formare una
divisione SS araba andata poi a combattere a fianco dei tedeschi contro
l'Unione Sovietica), doveva culminare, dopo molti altri gravi fatti di
sangue antiebraici, nella strage perpetrata a Hebron nel 1928 contro
l'inerme, antica comunità religiosa ebraica.
Dopo il rifiuto arabo di
accettare nel novembre 1947 la spartizione della residua Palestina -
esclusa cioè la parte maggioritaria della Palestina diventata Giordania
- in due Stati, uno arabo e uno ebraico, e dopo la nascita dello Stato
d'Israele, il 15 maggio 1948, i dirigenti dei paesi arabi - Siria, Iraq,
Giordania, Libano, Egitto - mossero i loro eserciti contro il nuovo Stato
ebraico. L'aggressione fallì un anno dopo, ma i paesi arabi non vollero
mai trarre le conclusioni dal loro fallimento. Per questo non vollero mai
assorbire i 4/500.000 profughi arabi loro fratelli, in gran parte fatti da
loro stessi fuggire dalla Palestina, quella rimasta dopo l'escissione
della Giordania, e in parte costretti ad andarsene, spinti dagli eventi
bellici. Preferirono tenerli confinati in campi, dove la loro
sopravvivenza era assicurata dagli aiuti delle Nazioni Unite e tenendoli
per due generazioni nell'ingrato ruolo di arma politica contro Israele.
Nessun paese arabo, con la parziale eccezione del Regno giordano, volle
accogliere e integrare i profughi palestinesi e qualche volta li espulse,
come fece il Kuwait, appena liberato nel 1991 dall'occupazione irachena,
una occupazione per la quale i lavoratori palestinesi in Kuwait avevano
prematuramente e inopportunamente festeggiato.
Nello stesso 1948 i paesi
arabi avevano espulso o costretto a partire mezzo milione di ebrei, che
trovarono pronto rifugio in Israele. Questi profughi dai paesi arabi
misero a dura prova la capacità organizzativa ed economica dello Stato
ebraico, ma alla fine la loro integrazione finì per essere compiuta.
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A proposito del 29 novembre 1947, quando le
Nazioni Unite assegnarono una parte della Palestina agli arabi e un'altra
agli ebrei. Quella ebraica non fu forse sottratta agli arabi?
Quando l'ONU votò quella Risoluzione, da parte
ebraica ci fu un'esplosione di entusiasmo, sia fra gli ebrei di Palestina
che quelli della Diaspora. Uno Stato ebraico rappresentava per i primi la
salvezza, per i secondi l'assicurazione sulla vita, un polo di
riferimento, una garanzia.
E si trattava di meno di un decimo della Palestina
originale, di meno di un centesimo del mondo arabo.
Lo stesso mondo arabo respinse invece con furore la
spartizione di un lembo di Palestina, che sottraeva alla loro influenza un
pur minuscolo, insignificante e poverissimo spazio. L'assegnazione agli
ebrei di quel minuscolo spazio fu considerata dagli arabi una profonda
ferita, un'offesa inaccettabile.
Per questo i paesi arabi vicini - Libano, Siria,
Iraq, Giordania, Egitto - con l'appoggio finanziario e militare di tutti
gli altri più lontani, non vollero rispettare la Risoluzione dell'ONU e
aggredirono lo Stato d'Israele, prima ancora che la mezzanotte del 14
maggio ne segnasse la nascita.
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Israele ha occupato militarmente la Palestina,
cacciandone i palestinesi nel '48, nel '49 e nel '67. E ora non vuole
farli tornare sulla loro terra, né restituire i territori occupati nel
1967.
Non è vero che Israele abbia espulso tutti gli
arabi durante e dopo le guerre del 1948, '49 e '67. Altrimenti non si
saprebbe spiegare come mai nello Stato ebraico vivano oggi oltre un
milione di arabi di nazionalità israeliana, e come mai ne vivano un
milione e mezzo in Cisgiordania.
Secondo le stime dell'ONU, si può fissare in
4/500.000 gli arabi che lasciarono o furono cacciati dalla Palestina nel
corso di quelle guerre. Una parte era fuggita dalla guerra, stimolata
dagli appelli dei paesi arabi che si accingevano, secondo le loro
intenzioni, a entrare in forza in Palestina e "buttare a mare gli
ebrei". In numerosi messaggi agli arabi di Palestina, diffusi dalle
radio di Damasco e del Cairo, veniva assicurato che essi sarebbero ben
resto ritornati alle loro case da vincitori, con tutto quello che questo
significava: per il momento però la loro presenza avrebbe ostacolato le
vittoriose operazioni di guerra.
Un'altra parte venne effettivamente cacciata dagli
ebrei nel corso delle operazioni belliche. È curioso osservare che il numero di arabi che in
un modo o nell'altro lasciarono la Palestina, è uguale a quello degli
ebrei espulsi o costretti a fuggire dai paesi arabi nel 1948, subito dopo
la nascita dello Stato d'Israele, e che Israele assorbì allora con
immense difficoltà.
Dei territori occupati da Israele nel 1967, la
Cisgiordania e la parte orientale di Gerusalemme facevano parte del Regno
di Giordania, il Sinai dell'Egitto, e Gaza era occupata dall'Egitto ma non
ne faceva parte, per cui agli abitanti venne sempre rifiutata la
nazionalità egiziana. Si sa che il Sinai venne integralmente restituito
all'Egitto quando nel settembre 1978 venne firmato a Camp David dal
Premier israeliano Begin, dal Presidente egiziano Sadat, e con
l'autorevole avallo del Presidente degli Stati Uniti Carter, il trattato
di pace.
Quanto alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, la Giordania non
volle più trattare la loro restituzione, preferendo girare il problema
alle nascenti organizzazioni palestinesi che mai, nei decenni precedenti,
avevano rivendicato una sovranità su quei territori: i palestinesi della
Cisgiordania erano semplicemente cittadini giordani, come lo sono tuttora
i palestinesi di Giordania, vale a dire i due terzi degli abitanti il
Regno hascemita.
Perché poi gli abitanti della Cisgiordania non abbiano
mai rivendicato un loro Stato quando facevano parte della Giordania, e gli
arabi di Gaza non abbiano fatto altrettanto durante l'occupazione
egiziana, nessuno lo ha spiegato.
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Ma Israele non ha voluto accogliere i profughi
palestinesi
In seguito agli accordi di Oslo del 1993, il
negoziato di pace tra Israele e Organizzazione per la Liberazione della
Palestina di Yasser Arafat, sembrava giunto a conclusione a metà del
2000: Israele aveva offerto ai palestinesi il 98% della Cisgiordania e
naturalmente Gaza, con la possibilità di una strada extraterritoriale
che unisse la prima alla seconda, e un settore orientale di Gerusalemme.
L'offerta, avallata negli Stati Uniti dal Presidente Clinton, venne però
respinta da Arafat, il quale volle aggiungere alle clausole di pace anche
l'impegno d'Israele di prendersi - nel territorio d'Israele - quattro
milioni, quattro milioni e mezzo di "profughi" palestinesi,
quanti cioè sembravano essere diventati secondo i calcoli dell'OLP, i
discendenti di quei 41500.000 del 1948. Con una popolazione ebraica di
cinque milioni, la pretesa diventava palesemente provocatoria, come ebbe
a dichiarare senza mezzi termini lo stesso Presidente degli Stati Uniti
ad Arafat. Facendo le debite proporzioni, come farebbe l'Italia, con tutta
la buona volontà, ad assorbire 40, 45 milioni di immigrati nel suo
territorio?
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È stato Israele, e non i paesi arabi, ad avere
incominciato la guerra del 1967, allo scopo di espandere il suo
territorio.
È falso. E bisogna fare un passo indietro. Nel
1955 l'Unione Sovietica decise di "cambiare cavallo":
dall'appoggio politico dato a Israele nel 1948, passò ad appoggiare,
politicamente e militarmente, l'Egitto, fino a rompere pretestuosamente
le relazioni diplomatiche con Israele. L'Egitto di Nasser voleva prendersi
la rivincita della sconfitta subita nel 1948 e 1949, e incominciò ad
ammassare nel Sinai truppe e mezzi corazzati forniti dall'URSS. Nel 1956
Israele prevenne l'attacco egiziano e travolgendo i mediocri mezzi
motorizzati forniti dall'URSS, occupò tutto il Sinai, giungendo fino al
Canale di Suez.
Le pressioni e le garanzie americane persuasero pochi
mesi dopo Israele a ritirarsi da tutti i territori egiziani occupati. A
partire dai primi anni Sessanta l'Egitto ricominciò a preparare una
seconda rivincita, con l'aiuto ormai tanto scoperto quanto massiccio,
dell'Unione Sovietica, che mirava a sostituire l'influenza americana
nella regione con ogni mezzo.
I raid di terroristi palestinesi e di
commando egiziani contro kibbuz israeliani si moltiplicavano, partendo
dalle basi di Gaza. In perfetta sintonia si muovevano dal fronte opposto i
siriani, i quali dalle alture del Golan sparavano con le loro artiglierie
sui sottostanti insediamenti e kibbuz ebraici di Galilea. Dopo alcuni mesi
di tensione, il 7 aprile 1967 artiglierie e carri armati siriani attaccano
pesantemente villaggi ebraici di frontiera. Damasco fa alzare in volo i
suoi caccia, ma quelli israeliani ne abbattono sei. L'umiliazione di
Damasco è cocente.
L'URSS riprende massicciamente i suoi rifornimenti di
armi alla Siria e all'Egitto. Poi a maggio i suoi servizi segreti
forniscono a siriani ed egiziani un'informazione falsa. Dicono cioè che
Israele ha ammassato truppe e mezzi corazzati ai confini con la Siria. Il
Segretario Generale dell'ONU, Sithu U Thant, smentisce: "I rapporti
degli osservatori delle Nazioni Unite hanno confermato l'assenza di
concentramenti di truppe o movimenti di truppe di qualche rilievo su ambo
i lati della linea armistiziale ".
Il 14 maggio è l'Egitto che fa sbarcare numerose
unità oltre il Canale per rinforzare il suo già massiccio schieramento
nel Sinai. Il 16 maggio il Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser intima al
comandante delle forze dell'ONU nel Sinai e a Gaza, generale Rikhye, di
sgombrare le truppe presenti nel Sinai dal 1957, all'indomani del
conflitto che aveva visto Israele arrivare al Canale di Suez. Poi Nasser
proclama il 22 maggio il blocco dello Stretto di Tiran: nessuna nave, di
nessuna nazionalità, che si rechi al porto di Eilat, in Israele, o che da
Eilat parta, potrà più passare. Secondo il diritto internazionale è
"atto di guerra".
Le dodici potenze marittime non onorano le
garanzie che nel 1956 avevano offerto a Israele per la libertà di
navigazione, e non mandano le loro navi da guerra a proteggere la libertà
di navigazione.
Il 30 maggio re Hussein di Giordania mette le sue truppe
sotto il comando egiziano. Truppe egiziane, saudite, irachene affluiscono
in Giordania. Truppe irachene, algerine e kuwaitiane raggiungono invece
l'Egitto. Il 3 giugno il generale Murtaji, capo delle forze egiziane nel
Sinai, dirama un ordine del giorno alle truppe, nel quale invoca "la
Guerra Santa con cui voi ristabilirete i diritti degli arabi conculcati
in Palestina e riconquisterete il suolo derubato della Palestina ".
(Da notare che il generale parla di arabi e di Palestina, ma non di
palestinesi, che nessun paese arabo nel 1967 conosceva e riconosceva,
tanto è vero che quando la Cisgiordania era parte della Giordania non si
sentiva neanche parlare di sovranità palestinese).
Il 5 giugno 1967,
all'alba, Israele risponde.
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Perché gli ebrei, che hanno tanto sofferto per
il nazismo, fanno ai palestinesi quello che i tedeschi hanno fatto a loro?
Ecco un esempio di "parole malate". L'abuso di certi termini finisce per
distruggerne il significato. I
nazisti sono quelli che hanno scientificamente sterminato sei milioni di
ebrei, tra cui un milione e mezzo di bambini, che hanno proditoriamente
invaso e saccheggiato i paesi europei, devastato, bruciato, distrutto e
ucciso e fatto uccidere milioni di persone. I nazisti si erano prefissi di
distruggere non un nemico, che in realtà esisteva solo nella loro mente
malata, ma tutto un popolo, quello ebraico, con accuse immaginarie e
folli.
Non si trattava dunque di un conflitto, come quello che contrappone
israeliani e palestinesi, ma di un genocidio. La differenza non è
piccola.
Definire "nazisti" gli ebrei è quindi affermare il
falso e commettere un'infamia. Se poi a dare una simile definizione sono
degli europei, cui meglio converrebbe come minimo il silenzio per tutte le
loro responsabilità, dirette e indirette, per le persecuzioni e lo
sterminio degli ebrei, l'infamia diventa anche più abietta. L'occupazione
israeliana di territori abitati da arabi non è stata sempre indolore.
Nessuna occupazione militare lo è mai.
Ma non è successo in Israele
quello che è accaduto in Europa, dove decine di milioni di persone, dopo
la seconda guerra mondiale, sono state cacciate dalla loro terra. In
Israele vivono più di un milione di cittadini israeliani arabi con pieni
diritti, e oltre due milioni di arabi vivono in Cisgiordania e a Gaza.
Oggi nessuno in Europa, tedeschi, polacchi, italiani, rivendica la terra e
le case abbandonate quando la guerra ha ridisegnato confini e proprietà,
come normalmente accade quando dei paesi vincono una guerra e altri la
perdono. Ma tutto in Europa ha finito per sistemarsi perché c'era la
volontà generale di farlo e nessuno ha speculato sull'esodo forzato di
milioni di persone.
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Sionismo uguale a razzismo
All'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove la
maggioranza dei seggi appartiene ai paesi islamici e ai loro alleati, già
una volta fu votata questa ignobile equiparazione. Le Nazioni Unite sono
sicuramente una istituzione democratica, la maggioranza dei cui membri è
però altrettanto sicuramente antidemocratica. E di tanto in tanto questa
maggioranza automatica ci riprova.
Che cos'è il sionismo? È l'idea,
affermata da Teodoro Herzl sul finire del XIX secolo, che l'antisemitismo
non può essere vinto se non con la costituzione di uno Stato ebraico in
grado di garantire la sicurezza degli ebrei che ne fanno parte, con un
passaporto che li protegga ovunque si trovino: uno Stato che li accolga
quando ne hanno bisogno, un governo che li rappresenti nei consessi
internazionali, e un esercito pronto a difenderli. E ancora: il sionismo
è oggi la realizzazione politica e nazionale di un sogno millenario mai
dimesso. Il sionismo è uno Stato ebraico che offre un confortevole
margine di sicurezza agli ebrei di tutto il mondo, garantendo con legge
dello Stato (la "Legge del Ritorno") il loro diritto permanente
a entrare in Israele, diventandone immediatamente cittadini.
Con uno
Stato ebraico non si ripeterà più quanto è accaduto nei secoli, e
soprattutto prima della seconda guerra mondiale, quando nessun paese volle
accogliere gli ebrei per salvar loro la vita. Questa l'idea di Teodoro Herzl,
questo e nient'altro è il sionismo.
È interessante osservare che
nel 1897 nascevano a poche settimane di distanza il primo partito
socialista russo in assoluto, l'Unione Generale Operaia Ebraica di Russia
e di Polonia", brevemente detta Bund e l'Organizzazione Sionista
Mondiale, le due anime dell'ebraismo dell'impero russo. Al di là delle
formulazioni teoriche, il socialismo e il sionismo sono semplici da
spiegarsi. Il primo risponde a un'esigenza di giustizia, molto forte nel
dettato religioso ebraico, il secondo nasce da un giornalista austriaco,
Theodor Herzl, che incontrando nella Francia uscita dalla grande
Rivoluzione una imprevedibile campagna antisemita seguita al famigerato
processo Dreyfus, si rese conto che l'antisemitismo non era eliminabile né
dal liberalismo, né dal socialismo.
Herzl arrivò alla conclusione che
agli ebrei restava una sola strada valida: dar vita a un loro Stato
indipendente e sovrano. Il sionismo è tutto qui. L'antisemitismo si è
sempre mascherato dietro qualche nome: gli ebrei sono stati a lungo
deicidi per la Chiesa, semplicemente giudei per i nazisti, che non avevano
bisogno di mascherare le loro idee, cosmopoliti per Stalin, che non
riteneva producente dichiararsi antisemita e basta, sionisti per larghi
settori politici (che si vergognavano di dirsi antisemiti), a partire da
quando la politica estera sovietica nel 1955 era cambiata radicalmente in
favore dei paesi arabi. Ecco come la parola "sionismo" ha
assunto una connotazione negativa.
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Gli israeliani si sono macchiati della strage
di Sabra e Chatila del 1982
Il 6 giugno 1982 Israele lancia un attacco con
60.000 soldati in Libano, dove l'OLP ha istituito una specie di Stato
nello Stato, e da dove partono gli attentati contro i villaggi israeliani
al confine settentrionale. L'OLP è costretto a trincerarsi dentro Beirut,
già dal 1975 in preda alle convulsioni della guerra civile. Sotto il
controllo di forze dell'ONU francesi, americane e italiane, alla fine
d'agosto una parte dell'OLP lascia il Libano. Alla fine dell'anno
successivo sarà costretto a lasciarlo definitivamente anche Arafat.
La
vittoria israeliana nel sud e al centro del Libano è salutata con
entusiasmo dai libanesi cristiani, che eleggono alla Presidenza del paese
un loro illustre combattente, Bashir Gemayel, l'uomo della pace con
Israele. Prima ancora di prendere possesso della carica, Bashir Gemayel
viene assassinato. I libanesi cristiani vogliono vendicarsi
dell'assassinio del loro condottiero Bashir. Così penetrano nella parte
occidentale di Beirut in mano israeliana, dilagano nei due quartieri di
Sabra e Chatila e compiono un vero e proprio massacro. Quasi mille
palestinesi vengono sgozzati.
La carneficina riempie d'orrore l'opinione
pubblica di tutto il mondo, che subito punta il dito contro Israele che
controllava la zona. Qui però Israele dimostra la sua robusta
collocazione democratica. Il governo (di destra) non esita a nominare una
commissione d'inchiesta che dimostra la sua assoluta indipendenza e, senza
guardare in faccia nessuno e nemmeno farsi condizionare dalla delicatezza
della situazione politica (estera e interna) d'Israele, accerta la
responsabilità oggettiva dei comandi militari, ma anche quella politica
del governo.
I responsabili, riconosciuti colpevoli di non essere
intervenuti a impedire la strage, sono tutti esemplarmente puniti. Il
ministro della Difesa Ariel Sharon è costretto a dimettersi. La crisi
farà poi cadere il governo. Il bilancio libanese di tanti anni di feroce
guerra civile, in gran parte fomentata e diretta dalla Siria, è
disastroso. Tra i 1975 e la fine degli anni Ottanta sono morti 150.000
libanesi, su una popolazione di poco più di due milioni.
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Ma perché i palestinesi non possono tornare a
casa loro?
Chi può essere qualificato "profugo
palestinese"? Secondo l'ONU era considerato profugo palestinese
qualunque arabo che avesse vissuto in Palestina per due anni, e che avesse
lasciato il paese nel 1948. Due anni di permanenza ed ecco che anche un
siriano, un iracheno, un giordano, tutti sono trasformati in palestinesi e
profughi. Quando nella Dichiarazione Balfour del 1917 si garantiva agli
ebrei una National Home in Palestina, per Palestina non s'intendeva il
territorio al di qua del Giordano, ma in realtà tutta la Palestina, cioè
il territorio del futuro Mandato nella sua interezza. Quindi la National
Home ebraica doveva essere costituita su una parte della Palestina e non
su una parte di una piccola parte della Palestina.
Il distacco della
Giordania, che rappresentava il 75% della Palestina, fu un atto
arbitrario di Londra ed una violazione della Dichiarazione Balfour. Quanto
ai profughi palestinesi del '48/'49, il loro numero, come abbiamo già
visto, non superava i 4/500.000, anche considerando "refugees"
chi era entrato in Palestina solo due anni prima. Se nelle ultime
richieste di Yasser Arafat, quel numero viene moltiplicato per dieci, è
evidente che non c'è volontà (o possibilità) di giungere a un accordo
definitivo.
Nessun paese al mondo potrebbe assorbire un numero di
immigrati pari all'80% della sua popolazione. Non vi sono precedenti nella
Storia di un "diritto al ritorno", né la giurisprudenza
internazionale lo prevede. Giusto o sbagliato che sia, l'orologio della
Storia non può esser rimesso indietro di oltre mezzo secolo. È curioso
poi che tale "diritto" sia stato preteso non per il ritorno dei
palestinesi in uno Stato palestinese, ma nello Stato d'Israele.
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Ma perché gli israeliani vogliono avere
proprio Gerusalemme come capitale? Che diritto ne hanno, dopo esserne
stati assenti per quasi duemila anni?
Gli ebrei non hanno mai lasciato Gerusalemme e
anzi, secondo tutte le statistiche note, vale a dire dalla metà
dell'800, a Gerusalemme gli ebrei hanno sempre costituito la maggioranza
relativa della popolazione, che a una delle prime rilevazioni statistiche
ammontava in totale a 15.000 persone.
Nel 1876, assai prima dunque della nascita del
sionismo, vivevano a Gerusalemme 25.000 persone, delle quali 12.000,
quasi la metà, erano ebrei, 7500 musulmani e 5500 cristiani.
Nel 1905 gli abitanti erano saliti a 60.000. Di
questi 40.000 erano ebrei, 7000 musulmani e 13.000 cristiani.
Nel 1931 su 90.000 abitanti, gli ebrei erano
51.000, i musulmani 20.000 e i cristiani 19.000.
Nel 1948, alla vigilia della nascita dello Stato
ebraico, la popolazione di Gerusalemme era quasi raddoppiata: 165.000
persone, di cui 100.000 ebrei, 40.000 musulmani e 25.000 cristiani.
La
presenza ebraica a Gerusalemme ha sempre costituito il nucleo etnico
numericamente più forte. Con Gerusalemme gli ebrei hanno sempre avuto un
forte legame religioso, storico, nazionale, e di nessun altro popolo
Gerusalemme è mai stata capitale. È quindi una leggenda l'affermazione
che gli ebrei siano stati assenti da Gerusalemme per quasi venti secoli o
che costituissero una insignificante percentuale della popolazione
gerosolimitana.
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Israele non ha voluto portare a compimento gli
accordi di Oslo del 1993
È vero il contrario, e cioè che Arafat ha
volutamente fatto saltare quegli accordi quando si è accorto che
potevano sul serio essere realizzati. L'accordo di Oslo del 1993,
perfezionato nel 1995, prevedeva il progressivo ritiro israeliano da gran
parte della Cisgiordania e da Gaza, fatte salve tutte le misure di
sicurezza necessarie. Il territorio evacuato da Israele sarebbe stato
gradualmente affidato "in gestione a una Autorità
palestinese". Preliminare ad ogni passo verso la concreta attuazione
dell'accordo erano il rifiuto ad ogni atto di terrorismo e il reciproco
riconoscimento. Molti termini di questo pre-accordo erano in parte stati
deliberatamente tenuti nel vago: ognuna delle due parti li avrebbe
interpretati come voleva, ma non impegnavano nessuno. I nodi cruciali del
contenzioso israelo-palestinese, dopo l'offerta del Premier israeliano
Barak di evacuare il 95-98% della Cisgiordania (e naturalmente tutta Gaza)
erano sostanzialmente questi:
Primo. Gerusalemme, per la quale i
palestinesi volevano una soluzione che non li escludesse da quella che
consideravano la loro capitale. Israele aveva offerto all'Autorità
palestinese il controllo del quartiere orientale della città e un
compromesso per il Monte del Tempio (o Spianata delle Moschee).
Secondo.
Quanti insediamenti israeliani nelle zone che sarebbero andate all'Autorità
palestinese sarebbero stati smantellati? Presumibilmente sarebbero rimasti
sotto l'autorità israeliana solo quegli insediamenti di sicura stabilità
che avrebbero garantito la sicurezza militare dello Stato ebraico e alcuni
altri che rappresentano motivi cari ai religiosi. Il discorso rimaneva
aperto.
Terzo. E questi insediamenti che status avrebbero avuto? Secondo
Israele avrebbero dovuto godere di una sorta di extra-territorialità.
Anche qui l'applicazione degli accordi avrebbe richiesto lunghe
consultazioni israelo-palestinesi in un clima di pacificazione.
Quarto.
Quale sarebbe stato il disegno finale del nuovo spiegamento israeliano di
forze, quali i punti considerati strategici?
Quinto. Gaza come sarebbe
stata collegata con la Cisgiordania? Si ipotizzava una strada sopraelevata
extraterritoriale a sorveglianza mista israelo-palestinese. Se questi
negoziati si sono impantanati, ciò è stato determinato dal fatto che
Arafat ha dimostrato di non avere l'intenzione o la possibilità di
concludere la pace. Di fronte all'offerta del Premier laburista israeliano Ehud Barak di cedere all'OLP il 95-98% della Cisgiordania, oltre a Gaza e
a un settore arabo di Gerusalemme per costituirvi la capitale della
"entità palestinese", Arafat rifiutava e "rilanciava',
chiedendo, come abbiamo visto, che Israele assorbisse entro i suoi confini
quattro milioni, quattro milioni e mezzo di profughi arabi, vale a dire i
figli, nipoti, bisnipoti, parenti e amici dei quattro, cinquecentomila
profughi del 1948/49.
Invece di mettere una firma o di presentare una
controproposta, il leader palestinese organizzava una nuova e più
cruenta Intifada, prendendo a risibile pretesto una passeggiata
considerata provocatoria (ma effettuata dopo accordi precisi presi con
l'autorità musulmana delle Moschee) di Ariel Sharon, non ancora Premier
e in quel momento capo dell'opposizione, sulla Spianata delle Moschee (o
Monte del Tempio, a seconda dell'ottica).
Per questo si sono acuite
l'insicurezza e i timori degli israeliani, che già si erano divisi
sull'iniziativa di pace di Rabin. Insicurezza e timori resi più acuti dai
crescenti atti terroristici palestinesi, perpetrati proprio per sabotare
ogni negoziato. Una visione distorta e degenerata del dettato religioso
aveva fatto armare la mano di un giovane ebreo, ortodosso fanatico, che la
sera di sabato 4 novembre 1995 uccise il Premier Yitzaak Rabin, artefice
degli accordi di Oslo. Da quel momento i governi israeliani, di sinistra o
di destra, sono risultati tutti indeboliti. Shimon Peres, Benjamin
Netanyahu, Ehud Barak, e oggi in parte forse anche Ariel Sharon, non hanno
più avuto quella larga maggioranza di consensi necessaria per affrontare
i forti nodi da sciogliere.
Non può meravigliare che i timori e il senso
d'insicurezza degli israeliani siano molto aumentati dopo il fallimento
della proposta di Barak, che lo pagò con una bruciante sconfitta
elettorale. Ovviamente timori e insicurezza indeboliscono Israele.
l'atteggiamento di Arafat di fronte alle offerte di Barak spiega inoltre
come mai l'opinione pubblica e per la prima volta gli intellettuali
d'Israele si siano compattati intorno a Sharon.
Gli intellettuali
israeliani si sono sempre schierati in larghissima parte con il fronte
politico progressista e pacifista. Scrittori noti anche in Italia, come
Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman, Yoram Kaniuk, Un Orlev, Meir
Shalev e così via, hanno sempre sostenuto con forza i diritti dei
palestinesi. Il movimento "Shalom Achshav", Pace Subito, ha
riempito spesso le piazze d'Israele. Di fronte alla palese intenzione
della dirigenza palestinese di non voler concludere alcuna pace, ma anzi,
di costringere Israele a una resa senza condizioni, questo non poteva
essere accettato neanche dal più ostinato dei pacifisti.
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Gli israeliani rispondono con le armi al lancio
di sassi da parte di ragazzi.
È un ragazzino di 11 anni quello che in
Macedonia ha ucciso con un sasso un soldato inglese di 20, arrivato con
altri soldati europei per dare una garanzia di pace alla zona. I sassi
possono uccidere, come è accaduto in Italia con quelli gettati dai
cavalcavia sulle strade e autostrade. Se gli adulti non temono, come
fanno gli estremisti arabi nei territori dell'Autonomia palestinese di
farsi scudo di ragazzi e di bambini per proteggere il cecchinaggio, la
responsabilità ricade interamente su di loro. E talvolta è il fuoco
arabo che uccide i bambini arabi, anche se la loro propaganda che ha
successo nei media internazionali, accusa sempre e soltanto Israele.
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Ma le rappresaglie israeliane? L'uccisione
mirata dei capi dei movimenti palestinesi nei territori dell'Autonomia?
Quale risposta alternativa ci sarebbe alle stragi
nei supermarket, nelle discoteche, nei ristoranti, nelle strade e piazze
d'Israele? Che cosa potrebbe dissuadere coloro che mandano dei poveri
esaltati fanatici a farsi saltare in aria insieme a israeliani presi a
caso, se non forse la loro eliminazione fisica? Se un bandito o un pazzo
compie una strage, non si cerca di catturarlo ed eventualmente ucciderlo
per evitare altre stragi?
C'è poi da notare che ogni volta che Israele
distrugge per rappresaglia qualche posto di polizia palestinese, lo fa
sapere in anticipo. Altrimenti non si capirebbe come un attacco portato da
carri armati, aerei, elicotteri e navi, non produca che un numero minimo
di vittime e quasi nessuna tra la popolazione civile.
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Gli attentatori suicidi, i kamikaze
palestinesi, sono dei martiri che si sacrificano per ottenere una patria.
I kamikaze erano piloti giapponesi che, a guerra ormai perduta, volevano
salvare l'onore della loro patria, secondo una concezione molto lontana
dalla cultura e dalla civiltà occidentali, e si gettavano, facendo
esplodere i loro aerei, sulle tolde delle navi da guerra USA. Navi da
guerra, non ristoranti e discoteche. Chi si fa saltare insieme ai ragazzi
che ballano o agli avventori di una pizzeria o tra i banchi di un mercato,
non compie alcuna azione eroica, né tutela un onore che così anzi viene
offeso e calpestato.
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Anche gli ebrei per conquistare la loro
indipendenza hanno richiamato l'attenzione dell'opinione pubblica
compiendo attentati terroristici.
Dopo la seconda guerra mondiale e negli anni del
Mandato britannico, di fronte all'ostinata politica filoaraba e
antiebraica dell'Inghilterra, ci fu un episodio terroristico ebraico,
quando fu fatto saltare un albergo di Gerusalemme, il King David, che
ospitava il quartier generale militare inglese. Prima di farlo saltare, i
suoi occupanti furono avvisati e si salvarono quasi tutti. Non si ricorda
che una, e una sola azione terroristica ebraica, ormai lontana nel tempo,
contro la popolazione civile araba, e nel corso di una guerra. Non si può
dire altrettanto del terrorismo arabo.
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Israele organizza azioni belliche con armi
pesanti, elicotteri e aerei, contro popolazioni civili.
Ma è proprio quello che evita bagni di sangue. Le
azioni sono sempre mirate con sorprendente accuratezza. Non si capirebbe
altrimenti come un missile potrebbe essere guidato con precisione
millimetrica (un ufficio, una finestra) sull'obiettivo prefissato.
Talvolta purtroppo succede che dei civili vengano coinvolti, ma è la
conseguenza del terrorismo organizzato a freddo dalla direzione
palestinese.
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L'elezione del "falco" Sharon a capo del governo israeliano è una provocazione, ed è la
dimostrazione che gli israeliani non vogliono la pace.
Probabilmente se
Arafat avesse accettato le proposte del precedente Premier israeliano,
Ehud Barak, la pace sarebbe ora vicina e il popolo d'Israele lo avrebbe
confermato alla guida del paese. Si può quindi affermare che è stato
Arafat a determinare il successo di Sharon, che oggi, secondo tutti i
sondaggi, gode dell'appoggio del 70% della popolazione, la quale
evidentemente non crede più alla buona fede di Arafat, o alle sue
effettive possibilità di controllare i suoi quadri.
Di fronte al rifiuto di Arafat il governo
israeliano di coalizione (della destra e della sinistra) ha prontamente
accettato tutti gli accordi precedenti quel rifiuto.
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Se gli israeliani hanno la coscienza a posto,
perché non accettano la presenza di osservatori internazionali?
Gli osservatori internazionali non potrebbero
impedire le azioni terroristiche palestinesi, ma impedirebbero le risposte
israeliane, perché le prime sono evidentemente sempre clandestine e
sfuggono ad ogni controllo. I terroristi potrebbero continuare a compiere
i loro attentati nei luoghi affollati d'Israele senza preoccuparsi della
presenza di osservatori neutrali.
Israele, che è un paese sovrano,
membro dell'ONU, riconosciuto internazionalmente, non potrebbe rispondere
se gli osservatori neutrali coprissero, magari involontariamente, le basi
da cui partono gli attentatori. L'esperienza degli osservatori in Libano e
successivamente in Bosnia non offre sufficienti garanzie. Nessun accordo
davvero e finalmente fattivo può essere raggiunto senza una vera tregua e
prima che l'Autonomia Palestinese abbia debellato le sue frange
estremiste, sotto qualunque sigla si nascondano.
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