"RADICI
DELL'ANTIGIUDAISMO IN AMBIENTE CRISTIANO" "Nostra Aetate: una pietra miliare" Pier
Francesco Fumagalli Il 28 ottobre 1965 nella basilica di
San Pietro, da quattro anni trasformata in Aula del Concilio Vaticano II,
tra i documenti approvati e promulgati c'era una Dichiarazione
tanto breve quanto significativa, dedicata alle "Religioni non
cristiane". La votazione del breve testo riscosse la quasi totale
unanimità, con 2221 voti a favore e 88 contrari. Poche settimane più
tardi, l'8 dicembre, Papa Paolo VI la confermava solennemente, con tutti
gli altri documenti, alla chiusura di un Concilio che si rivelò di
importanza storica eccezionale per la missione e l'unità della Chiesa, e
per il suo dialogo con il mondo contemporaneo. In realtà, l'iter del piccolo
documento non era stato così semplice come il pressoché unanime consenso
finale poteva lasciar credere, né la sua struttura pareva riflettere
l'intenzione originaria di quanti, a partire da Papa Giovanni XXIII,
avevano inizialmente pensato ad una dichiarazione che riguardasse
solamente l'ebraismo in rapporto alla Chiesa. Tuttavia, alla conclusione
del Concilio, enorme fu la soddisfazione nel vedere che, dopo duemila
anni, la Chiesa affrontava con serenità la questione delle relazioni
religiose con i credenti di fedi diverse, e in particolare con l'ebraismo,
dopo tante incomprensioni e persecuzioni del passato. L'argomento veniva
esposto nella parte centrale (il IV paragrafo) di un documento
caratterizzato da un atteggiamento fiducioso nei confronti delle grandi
religioni del mondo, in particolare dell'Islàm. «Nella nostra epoca...» (Nostra Aetate...), dichiara il Concilio, poiché tutti i popoli costituiscono una sola comunità, è opportuno che la Chiesa esamini «tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino», e quindi in particolare l'apertura dell'uomo verso il mistero dell'essere, espressa nelle varie forme religiose (NAe 1). Esplicitamente sono menzionati l'induismo e il buddismo e si afferma che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo» nelle altre religioni, esortando al dialogo e alla collaborazione con gli altri credenti (NAe 2). Parole di fervida stima e di riconciliazione sono riservate in particolare ai musulmani (NAe 3). Ma il frutto più
maturo - e il più lungamente atteso - del dialogo interreligioso, è
espresso nel quarto paragrafo, dedicato all'ebraismo, nel quale la Chiesa
«ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è
spiritualmente legato con la stirpe di Abramo» (NAe 4). Vengono
poi passati minuziosamente in rassegna tutti i tesori spirituali della
fede di Israele, che costituiscono il «grande patrimonio spirituale
comune ai cristiani e agli ebrei», i quali ultimi sono «l'ulivo buono su
cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i popoli
pagani» (cf. Rom 11, 17-24). Benché molti ebrei non abbiano
accettato il Vangelo, tuttavia essi restano amati da Dio in grazia di una
chiamata e di un dono d'amore irrevocabili. Perciò il Concilio raccomanda
la promozione di un fraterno dialogo, di studi biblici e teologici, per
favorire la mutua conoscenza e la stima fra ebrei e cristiani. Infine,
vengono ripudiati due punti che in passato furono radici di persecuzioni:
l'accusa al popolo ebraico di responsabilità collettiva e perenne per la
morte di Cristo ( il cosiddetto deicidio) e l'antisemitismo. La conclusione della dichiarazione (NAe 5) invoca un amore fraterno fra tutti gli uomini, esecrando «qualsiasi discriminazione o persecuzione per motivi di razza o di colore, di condizione sociale o di religione». Responsabile principale della redazione di questo testo fu il Segretariato per l'unità dei cristiani, sotto la guida sapiente del cardinale Agostino Bea, personalità fra le più attive nel collaborare "all'aggiornamento" auspicato da Papa Giovanni XXIII per la Chiesa cattolica. Bea stesso volle illustrare il documento con queste parole: «Il bimillenario problema, vecchio quanto il cristianesimo stesso, delle relazioni della Chiesa col popolo ebraico, è stato reso più acuto, e si è quindi imposto all'attenzione del Concilio Ecumenico Vaticano II, soprattutto per lo spaventoso sterminio di milioni di ebrei da parte del regime nazista in Germania. Dopo una lunga
preparazione e laboriose discussioni è nata la Dichiarazione
"Sull'atteggiamento della Chiesa verso le altre religioni non
cristiane", che da più parti è stata chiamata una pietra miliare
nella storia delle relazioni tra la Chiesa e il popolo ebraico. Se non
altro essa lo è in realtà, anzitutto perché è stata la prima volta che
un Concilio Ecumenico si sia occupato in modo così esplicito del
problema; inoltre perché, invece di limitarsi a un decreto puramente
pratico o a una semplice condanna dell'antisemitismo, il Concilio ha
affrontato il problema nel quadro più vasto delle relazioni della Chiesa
verso le religioni non cristiane in generale, impostandone insieme la
soluzione su profonde basi bibliche. Per questa ultima ragione si può
dire che la Dichiarazione offre preziose indicazioni a tutti i cristiani
senza distinzione di confessione» (A. Bea, La Chiesa e il popolo
ebraico, 1968, p.7). Le "laboriose discussioni"
cui Bea faceva cenno furono in realtà accompagnate all'esterno del
Concilio da accese polemiche, le quali causarono, nel giugno 1962,
l'esclusione dello schema "sugli ebrei" dall'agenda del
Concilio. Ma Papa Giovanni XXIII, che il 13 giugno 1960 incontrando Jules
Isaac era stato profondamente impressionato dalle osservazioni da lui
fatte circa "l'insegnamento del disprezzo" sugli ebrei nella
Chiesa, con un biglietto autografo del 13 dicembre 1962 spinse il
cardinale Bea a perseverare nell'opera intrapresa. La sorte redazionale
del documento rimaneva però incerta, sembrando che la materia sugli ebrei
potesse rientrare anche in altri schemi, e infatti ne restano importanti
riferimenti anche nelle due Costituzioni dogmatiche sulla Divina
Rivelazione (Dei Verbum nn. 14-16) e sulla Chiesa (De ecclesia
n.16). Per un certo tempo si pensò di emanare sull'argomento un Decreto,
oppure di includerlo nello schema sull'ecumenismo, finché si giunse
all'elaborazione del documento nella sua forma attuale. Perché molti ravvisarono in Nostra Aetate una "pietra miliare" per le relazioni fra Chiesa e popolo ebraico? Gli elementi di novità che conteneva riprendevano invero temi biblici - in quanto tali dunque patrimonio tradizionale della Chiesa - ma che fin dalle origini del cristianesimo non avevano ricevuto particolare sottolineatura. Al contrario, la storia delle relazioni tra cristiani ed ebrei, e l'insegnamento cristiano sugli ebrei, erano stati in genere contrassegnati da polemiche, contrapposizioni, concorrenza missionaria, incomprensioni e persecuzioni. I Padri della Chiesa dei primi secoli, tanto in Oriente quanto in Occidente, furono concordi nel presentare il popolo ebraico come "ripudiato" definitivamente da Dio, e la Chiesa come il popolo scelto in "sostituzione" per portare la salvezza alle genti. Al confronto quindi Nostra aetate, che insegna a stimare il grande patrimonio spirituale comune fra ebrei e cristiani, compie un passo teologico decisivo, scavalcando di colpo secoli di polemiche. Se poi si considera la legislazione canonica dei Sinodi e dei Concilii, e la legislazione civile che nel mondo antico sovente era influenzata da quella religiosa, si constata che agli ebrei vennero progressivamente imposte limitazioni di vario genere, come il divieto di accesso alle cariche pubbliche, di commerciare liberamente, di possedere libri fondamentali quali il Talmud, di scegliere liberamente la residenza. Durante le Crociate la situazione degli ebrei in Europa peggiorò, e si diffuse l'accusa di infanticidio rituale; l'uso della forza per predicare agli ebrei e convincerli a farsi battezzare, benché contrastato dai Papi, non venne per questo abbandonato. Sotto il profilo storico e teologico, pertanto, la Dichiarazione del Concilio Vaticano II rappresenta una fondamentale novità rispetto a due millenni contraddistinti da un orientamento e da una prassi decisamente negativa. Va però ricordato che già al Concilio Vaticano I era stato formulato un progetto per una dichiarazione che avrebbe esposto il ruolo eminente del popolo di Israele nel piano della salvezza, e che nel 1927 la Congregazione del Santo Uffizio condannò fortemente l'antisemitismo allora diffuso in Europa. Papa Pio XI progettò un'Enciclica di condanna dell'antisemitismo, che la morte non gli consentì di scrivere. Fu così che soltanto dopo la Shoah le Chiese presero coscienza che era urgente e necessario compiere un cammino di purificazione: in questo si distinsero il Concilio Ecumenico delle Chiese (Assemblea di Amsterdam, 1948) e le Chiese tedesche (Katholikentag, 1948 e Sinodo di Weissensee, 1950). Altra presa di posizione che influenzò il mutamento della coscienza ecclesiale fu quella espressa in dieci punti alla Conferenza di Seelisberg, voluta dall'Amicizia internazionale ebraico-cristiana: sostenitori convinti del rinnovamento erano il filosofo cattolico Jacques Maritain e il professore ebreo Jules Isaac. Fu proprio quest'ultimo che, all'annuncio del Concilio, compì il passo decisivo, chiedendo udienza al Papa e presentandogli un memoriale. Cinque anni dopo la Chiesa cattolica offriva al mondo, tra i documenti conciliari, la Dichiarazione che apriva la strada al dialogo e alla collaborazione fraterna con il popolo ebraico. |