Il giorno di Pentecoste, Pietro, levatosi in piedi con gli altri Undici, tenne al popolo un discorso che si può riassumere in tre parole; tre parole che hanno, però, ognuna la forza di un tuono: Voi avete ucciso Gesù di Nazaret! Dio lo ha risuscitato! Pentitevi! 

Il mio desiderio è di raccogliere queste tre parole e di farle penetrare nel nostro cuore, con la speranza che esse riescano a "trafiggerlo", come trafissero il cuore delle tremila persone che quel giorno ascoltarono l'apostolo e si convertirono alla fede (cf. At 2, 22 ss.). 

Quei tremila, ai quali Pietro rivolse quella terribile accusa, non erano stati certamente tutti sul Calvario a battere i chiodi; forse, non erano stati neppure davanti al pretorio di Pilato a gridare: Crucifige! 

Perché allora "avevano ucciso Gesù"? Perché appartenevano al popolo che l'aveva ucciso. Perché non avevano accolto la notizia che Gesù andava recando: "È venuto il regno di Dio: convertitevi e credete al Vangelo!". Perché, forse, quando Gesù passava per le strade di Gerusalemme, avevano abbassato la tenda del loro negozio per non avere noie... Fin qui, noi rievochiamo queste cose, ma ci sentiamo abbastanza al sicuro. La cosa - ci sembra - riguarda coloro che vissero in Palestina al tempo di Gesù, non noi. Siamo come il re David, il giorno che ascoltò dal profeta Natan il racconto del grande peccato commesso in città e alla fine gridò, furibondo: Chi ha fatto questo merita la morte! (2 Sam 12, 5). 

Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, ci si è appassionati molto al problema della responsabilità della morte di Cristo, anche a causa della tragedia vissuta dal popolo ebraico. I libri e le rappresentazioni sul processo di Cristo non si contano. 

Grandi conseguenze scaturivano dalla risposta data a quel problema, anche per la partecipazione dei cristiani alle lotte di liberazione in varie parti del mondo. Il problema della morte di Cristo è diventato un problema essenzialmente storico e, come tale, neutrale; ci interessa, cioè, indirettamente, per le conseguenze che se ne possono trarre per l'oggi; non direttamente, come parte in causa. In ogni caso, non come imputati, ma, semmai, come accusatori.

Alcuni accusano, della morte di Gesù, il potere religioso, cioè gli ebrei del tempo; altri il potere politico, cioè i romani, facendo, così, di Gesù, il martire di una causa di liberazione; altri, infine, accusano gli uni e gli altri insieme. Si è come a un processo, in cui ognuno ripete, più o meno consciamente, dentro di sé, la frase di Pilato: lo sono innocente del sangue di costui! (M t 27, 24). Ma cosa rispose, quel giorno, il profeta Natan a David? Rispose, con il dito puntato verso di lui: Tu sei quell'uomo! 

La stessa cosa la parola di Dio grida a noi che cerchiamo di sapere chi ha ucciso Gesù: Tu sei quell'uomo! Tu hai ucciso Gesù di Nazaret! Tu eri là quel giorno; tu hai gridato con le folle: Via, via crocifiggilo! Tu eri con Pietro quando lo rinnegava; eri con Giuda quando lo tradiva; eri con i soldati che lo flagellavano; tu hai aggiunto la tua spina alla sua corona, il tuo sputo al suo volto! Questa certezza appartiene al nucleo più essenziale della nostra fede: Cristo è stato messo a morte per i nostri peccati (Rm 4, 25). 

Il profeta Isaia ha dato, in anticipo, a questa verità, l'espressione più drammatica: Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si e addossato i nostri dolori... Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si e abbattuto su di lui per le sue piaghe noi siamo stati guariti (Is 53,4 s.). 

Siamo tutti imputati della sua morte, poiché tutti abbiamo peccato e se diciamo che siamo senza peccato mentiamo. Ma dire: Gesù è morto per i nostri peccati, è la stessa cosa che dire: Noi abbiamo ucciso Gesù! Di coloro che tornano a peccare dopo il battesimo (cioè di noi), l'epistola agli Ebrei dice che crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all'infamia (Eb 6, 6). AI sentire quell'accusa: "Voi avete ucciso Gesù di Nazaret!", quei tremila, ai quali parlava Pietro, si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli "Che dobbiamo fare, fratelli? " (At 2, 37). Un grande spavento si impadronì di loro e si impadronsce, in questo momento, anche di noi, se non siamo di pietra. Come non essere atterriti da questo pensiero. "Dio ha tanto amato il mondo da dare per esso suo Figlio Unigenito" e noi glielo abbiamo ucciso! Abbiamo ucciso "l'autore della vita"; abbiamo ucciso la Vita! 

Finché non si è passati attraverso questa crisi interiore, questo "timore e tremore", non si è dei veri cristiani maturi, ma solo embrioni di cristiani in cammino per venire alla luce. Finché non ti sei sentito mai una volta veramente perduto, degno di condanna, un povero naufrago, tu non sai cosa significa essere salvato dal sangue di Cristo; non sai cosa dici, quando chiami Gesù tuo "Salvatore". 

Tu non puoi, a rigore, nemmeno conoscere le sofferenze di Cristo e piangere su di esse; sarebbe ipocrisia, perché conosce veramente le sofferenze di Cristo solo chi è persuaso nell'intimo che esse sono opera sua, che gliele ha inflitte lui. Gesù ti potrebbe dire, come alle pie donne: Non piangere su di me; piangi su di te e sul tuo peccato! (cf. Lc 23, 28).


Raniero Cantalamessa, Il mistero pasquale, Ancora, 1985, pp. 85-88)

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