Siamo lieti di condividere con i nostri visitatori i seguenti testi, che danno notizie in qualche modo inedite su un fenomeno noto, ma la cui connotazione positiva forse non è stata valutata appieno, riguardante il comportamento nei confronti degli ebrei, di molte persone di buona volontà - laiche e religiose - nell'Italia del tempo di guerra. Nonostante la vergogna delle leggi razziali, esso ha ridotto notevolmente la portata delle loro pur sempre drammatiche conseguenze.




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È un semplice dato numerico, ma che supera tante tesi preconcette: furono oltre quattromila gli ebrei romani salvati nei conventi della capitale tra il 1943 e il 1944, nei mesi più bui della guerra, quelli che videro l'orrendo rastrellamento del ghetto il 16 ottobre 1943, sessant'anni fa. Più di quelli accreditati dalla storiografia e soprattutto nell'opinione corrente: su un totale di diecimila iscritti alla comunità ebraica insomma, ne furono salvati un po' meno di metà.

La novità è stata anticipata da Avvenire, e sarà discussa in un seminario di studio del Coordinamento Storici Religiosi, presieduto da Giancarlo Rocca. La ricerca ha fornito i dati raccolti: 4.329 ebrei rifugiati tra un centinaio di istituti religiosi femminili, una quarantina di istituti maschili e una decina di parrocchie. Anche questi numeri sono maggiori di quelli conosciuti.

Anche se, ha precisato la storica Grazia Loparco, "sembra che per lo più si tratti di cifre per difetto. In alcuni casi sono per eccesso, ma questo si spiega con il fatto che gli ebrei non furono tutti compresenti allo stesso momento".

E lo scrupolo della giovane ricercatrice non è soltanto segno di correttezza storica, ma indizio d'un metodo "nuovo". È cioè la scelta dell'indagine paziente per superare ricostruzioni finalizzate a corroborare tesi precostituite e più ancora le caricature che trasformano l'indagine storica in processo (soprattutto a Pio XII "papa di Hitler"), magari a forti tinte.

Una via lunga, certo, ma promettente, e che ha il merito di svelenire argomenti scottanti, in un confronto tra molte voci che vuole evitare le trappole delle ricostruzioni apologetiche o denigratorie. Significativa è la presenza tra i relatori di Emanuele Pacifici, presidente dell'associazione Amici di Yad Vashem (il museo della Shoah), che fu salvato in un convento fiorentino. A differenza di sua madre, deportata in seguito a una delazione.

Ricostruire i fatti - compresi i pericoli corsi da suore, soprattutto, da religiosi e parroci per salvare gli ebrei braccati - è insomma storicamente più importante di un processo a Pio XII e di un dibattito infinito su cosa avrebbe potuto dire o fare il pontefice. Come rivela quello che avvenne dopo l'irruzione nel ghetto del 16 ottobre, che portò all'arresto di ben 1.259 persone. Di queste, il mattino seguente 252 furono rilasciate e 1.007 avviate nei campi di sterminio.

Il fatto è un'eccezione nella storia delle deportazioni e "il salvataggio in extremis" dei 252 "coniugi e figli di 'matrimoni misti' potrebbe" essere stato il risultato ottenuto dalla Santa Sede in cambio della "rinuncia a una protesta formale e ufficiale", come ha scritto Enzo Forcella nel suo postumo "La Resistenza in convento" (Einaudi).

Insomma una metodologia di indagine davvero rilevante: ricostruire la storia di ieri - complessa e dolorosa - tassello per tassello, abbandonando invettive e difese su responsabilità o connivenze. Nella consapevolezza di servire la verità e, anche, di costruire la storia di domani.

Gian Maria Vian


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Non poche centinaia, come sostenevano gli storici, ma quasi la metà degli abitanti del ghetto furono nascosti dai religiosi della capitale. Nuovo rapporto sui dati

Furono più di quante si riteneva finora le case religiose che accolsero e salvarono ebrei durante l'occupazione di Roma e, di conseguenza, il numero degli ebrei salvati è stato finora sottostimato: furono oltre 4mila (vedi box e scheda a fianco). Sono i risultati di una ricerca in corso, che saranno presentati il 24 settembre a Roma nel convegno Povertà e ricchezza di una storia nascosta, organizzato dal Coordinamento storici religiosi (residenza La Salle, via Aurelia, 476, partire dalle 8). Un punto della situazione anche in vista del 60° dalla deportazione degli ebrei romani, il 16 ottobre 1943.

In quei giorni «subito alcuni istituti vengono invasi. E nel giro di alcuni giorni sono tutti stracolmi. All'inizio gli ebrei si dirigono verso gli istituti più vicini all'ex ghetto. Man mano, invece, si spostano in periferia, pensando di essere più sicuri. Quindi anche gli istituti più periferici conoscono le ondate di questa sorta di esodo», spiega suor Grazia Loparco, Figlia di Maria Ausiliatrice, docente di Storia della Chiesa al Pontificio Ateneo «Auxilium», nonché vicepresidente del coordinamento.

La ricostruzione si basa sulle cronache delle case. «Tranne alcuni casi, elenchi generalmente non ce ne sono. Ma alcuni indizi mi fanno pensare che in giro negli archivi si possa trovare della documentazione», sottolinea suor Loparco. Lo sforzo è «guardare i fatti sia dal punto di vista dei religiosi - e soprattutto le religiose, che quantitativamente furono il numero maggiore - sia da quello degli ebrei», prosegue. Tra i relatori del convegno ci sarà, infatti, Bruno Pacifici, presidente dell'associazione Amici di Yad Vashem (il Museo dell'Olocausto dove sono ricordati i Giusti tra le nazioni, tra i quali molti religiosi) e testimone dei fatti. E se la storia dei salvati fu soprattutto scritta da suore, non mancò l'apporto dei religiosi. Il laico Bruno Marchi, ex allievo orionino (vissuto tra Genova e Roma in quegli anni) e don Flavio Peloso porteranno i dati e le esperienze riguardanti la Piccola Opera della Divina Provvidenza in varie località: Genova, Torino, Milano, Roma. Nell'Urbe si distinse, ad esempio, il provinciale don Piccinini. La Città eterna, dunque, ma non solo. «Ci stiamo concentrando su Roma. Con la speranza di coinvolgere i vari istituti religiosi della penisola, in modo che indaghino e forniscano dati per questa ricerca», spiega la Loparco. Suor Maddalena Lainati delle Francescane di Maria parlerà di Firenze, dove fu il cardinale Elia Della Costa a raccomandare l'ospitalità e fu la curia a fornire liste di indirizzi cui rivolgersi. Di quelle suore, madre Ester Busnelli è stata inserita nell'elenco dei giusti. Tra i nascosti dalle suore vi fu proprio Pacifici, mentre sua madre fu deportata. Per una delazione.

Era questo uno dei principali pericoli. Gli ospiti, perciò, dovevano essere occultati anche in caso di perquisizioni. Molte furono le strategie: gli uomini venivano nascosti nei sotterranei e coperti di foglie o tavole, alle donne veniva prestato l'abito religioso, i maschi fatti passare per chierici. Oppure ci si adattava al tipo di opera: negli ospedali gli ebrei divenivano malati, nei collegi i bimbi ricevevano documenti appartenenti ad alunni degli anni passati. Si cercò di mantenere la distinzione uomini/donne, ma i fatti la travolsero e vennero ospitate famiglie intere. «È molto interessante il fatto che in brevissimo tempo persone che non si conoscevano e per strada non si sarebbero neanche salutate, sotto lo stesso tetto si legarono in un solidarietà comunicativa, elaborando vere e proprie strategie: un certo tipo di tocco di campanello significava "attenzione"», nota la Loparco. I bimbi ebrei non si dovevano distinguere dagli altri e perciò venivano portati a Messa. Come racconta Marchi, don Piccinini, per delicatezza faceva fare il centralinista a un bimbo ebreo durante la Messa, sollevandolo così dal rito senza destare sospetti. Qui si apre un problema spinoso: i religiosi hanno spinto psicologicamente per le conversioni? Non fu così. «Nei casi in cui ci una conversione ci fu, viene sottolineato dai racconti come fosse una scelta libera scaturita dalla testimonianza di fede e amore che quelle persone avevano trovato».

Nella stragrande maggioranza dei casi, l'accoglienza fu gratuita e a prezzo di grandi sacrifici (gli ebrei non avevano le tessere dell'annona e, come potevano, contribuivano con i propri beni). In questa vicenda, insomma, «i cristiani emergono nella carità», sottolinea suor Loparco. Si pensi che si era ben prima del Concilio e del dialogo con i fratelli maggiori. «E sussisteva ancora un certo antigiudaismo teorico. Ma quando si deve salvare la pelle a qualcuno le differenze religiose cadono».

Gianni Santamaria

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[Fonte. Avvenire 23 settembre 2003]

 


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De Fiore, il Perlasca romano "Mio padre salvò 350 ebrei"

Questa è la storia di un Uomo Giusto; nel marzo ´55 l´Unione delle Comunità israelitiche italiane così gli scriveva in una lettera: «La ringraziamo perché col suo fermo atteggiamento riuscì a salvare centinaia di ebrei, interpretando le inique disposizioni razziali con nobile e umana sensibilità, collaborando con le organizzazioni ebraiche, noncurante delle conseguenze che tale atteggiamento addensava sulla sua posizione e sulla sua stessa vita». Questa è la storia ancora poco conosciuta, o forse poco ricordata, di un signore non qualunque che si chiamava Angelo De Fiore, funzionario di polizia per una vita, morto nel ´69, tra i primissimi in Italia ad ottenere nel 1966 (pratica n° 0334) il riconoscimento dei Giusti di Israele, il suo nome scolpito nelle stele della collina degli ulivi, nel più grande monumento dedicato alla Shoa.

Era romano di origini calabresi, personaggio schivo, curato nel vestire, uno dei pochissimi funzionari della questura non epurato dopo la caduta del fascismo. Altra fine fece l´allora questore di Roma, Pietro Caruso, processato e giustiziato nel ´44 a Forte Bravetta. Lui, De Fiore, nel ´55 è questore di Forlì.

Solo una volta il "dottor Angelo" disse a suo figlio Gaspare perché, dopo la guerra, nei vicoli intorno al Ghetto tanta gente lo salutava e lo abbracciava: «Perché credo di averne salvati almeno 350». Come riuscì a farlo? Lo raccontò così: «Non facevo altro che dare l´impressione di non sapere niente», salvo poi «aver creato un gran confusione negli archivi».

Molti ebrei stranieri ebbero i nomi camuffati, e decine di ebrei italiani furono regolarizzati come profughi dell´Africa settentrionale. Carte false, incluse le tessere annonarie, elaborate con un tal "signor Charrier", che poi nell´ufficio dell´inappuntabile "dottor Angelo" ottenevano i timbri ufficiali e poi i permessi di soggiorno. Si legge poi nel libro "Il ghetto sul Tevere" che «quel De Fiore si dimostrò un campione di solerzia nel mettere a disposizione degli instancabili investigatori tedeschi i suoi schedari, quelli che decideva lui, facendone sparire molti altri, quelli che per la Gestapo non dovevano esistere».

Racconta oggi il figlio Gaspare, settantenne prof universitario in pensione e presidente Uid, Unione Italiana per il disegno, nella sua casa in via Orti della Farnesina tappezzata di suoi quadri: «Quando uscì il film su Schindler e più tardi su Perlasca, noi fratelli li andammo subito a vedere: persone meravigliose, davvero, però, pensammo, anche papà aveva lavorato bene.

Ancora Gaspare: «Avevo 18 anni, mi accorgevo poco del dramma immenso che stavamo vivendo, mio padre era sempre sereno, a casa non una parola sul suo lavoro. Vivevamo in via Clitumno, al quartiere Coppedè, io ero preso dall´esame di maturità, frequentavo la terza C al Giulio Cesare col professore di italiano che il sabato indossava la camicia nera. Poi entrano gli alleati a Roma, mio padre sempre lì, sempre preciso negli orari d´ufficio, io iscritto al primo anno di architettura. Si sparge la voce che un generale americano si era innamorato della fontana delle Tartarughe di piazza Mattei, che pensava di smontarla per portarsela a Miami. In facoltà i professori pensarono che, nell´eventualità, sarebbe stato utile averne un rilievo, farne almeno una copia. Andai anche io, disegnavo bene. 

Con papà eravamo rimasti d´accordo che sarebbe passato a prendermi all´uscita dell´ufficio. Lo vedo sbucare da un vicolo, con suo abito color panna, cappello a larghe tese e sigaretta in bocca. Gli sto per andare incontro e vedo un uomo apparire da non so dove che urla qualcosa in ebraico. Ho paura, ma poi gli si butta ai piedi, gli abbraccia le gambe. Dai negozi, dai magazzini, dai portoni escono due, tre, dieci persone quasi tutte donne vestite a lutto, che si fanno attorno. Parlano a voce alta, concitati. Uno di loro dice, in italiano «È tornato il nostro Angelo salvatore». E un altro: «Gli devo la vita, gli devo la vita». E un altro ancora, un giovane, racconta a tutti: "Ero stato preso in una retata e portato alla pensione Jaccarino di via Tasso, avevo nome e documenti falsi, ma i tedeschi insistevano. Volevano che dicessi di essere ebreo, che qualcuno aveva fatto la spia, mi interrogavano, mi davano botte. Poi entra lui, mi dà uno schiaffo e mi grida: "Ti hanno preso eh? Cos´hai rubato stavolta? Lo conosco bene questo qua, un ladruncolo da poco. Mandatemelo in questura" I tedeschi mi fecero uscire a calci"». 

Anche Enza, l´altra figlia del "dottor Angelo", ora ottantenne, non capì allora che uomo fosse realmente suo padre. Se ne accorse di più finita la guerra, quando dietro largo Chigi comprò un paio di guanti di pelle e andò alla cassa per pagare. "Quanto devo?" "Niente, signorina De Fiore". "Come niente? E come sa il mio nome?". "Lei non mi conosce ma io sono venuto tante volte a casa vostra per ringraziare suo padre. Diciamo così, questo regalo è pelle contro pelle». Enza De Fiore quei guanti li conserva ancora e Gaspare non vuole che finisca qui: «Più vado avanti con l´età e più ripenso a lui. Vorrei ritrovare qualcuno che lo ha conosciuto, che sappia qualcos´altro della sua vita. È ancora vivo qualcuno che può rispondere al mio appello?».

Simona Casalini


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