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    Religiose, “martiri della carità” per salvare gli ebrei

Suor Grazia Loparco racconta il coraggio delle case religiose durante la persecuzione nazista

Intervenendo venerdì 15 settembre a Roma al Convegno dell’Associazione italiana dei Professori di Storia della Chiesa, Suor Grazia Loparco, docente della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium” di Roma, ha riportato i risultati dei suoi studi sulla assistenza prestata dalle religiose di Roma agli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.

Suor Grazia ha parlato di come “una capillare ricerca di testimonianze e di documentazione inedita, avviata da alcuni anni, ha svelato l’apporto singolare delle religiose per nascondere gli ebrei a Roma tra l’autunno del 1943 e il 4 giugno 1944, quando cessò l’emergenza”.

La religiosa ha raccontato della premura della Santa Sede che “aveva provveduto a garantire gli stabili dinanzi al governo e poi incoraggiò l’ospitalità e la misericordia”. Alle indicazioni della Santa Sede c’è da aggiungere che molte congregazioni religiose, anche di clausura, non esitarono a spalancare le porte dinanzi a un’ingiustizia inaccettabile.

La docente dell’“Auxilium”, ha rilevato che “le case religiose femminili presenti a Roma nel 1949 erano 475, appartenenti a 274 istituti, mentre i maschili erano 146, distribuiti in circa 270 case e parrocchie officiate dai religiosi”.

“Il numero non ha paragoni con altre città italiane – ha osservato –, come anche quello della comunità ebraica nella capitale, che oscillava tra 10.000 e 12.000, sui circa 30.000 ebrei presenti in tutta Italia”, ha continuato.

“Sul totale di 745 case religiose a Roma, si dispone di informazioni concernenti circa 200 (di cui 133 femminili), poco meno di un terzo. Finora è accertato che gli ebrei ospitati in vario modo furono più di 4300”, ha quindi aggiunto.

Questa cifra, molto probabilmente per difetto, si basa sulla prima ricognizione pubblicata da De Felice nel 1961, che riprendeva un articolo de “La Civiltà Cattolica” dello stesso anno, firmato da padre Robert Leiber.

Nei nove mesi di occupazione nazista di Roma, notevole fu il flusso di gente che chiedeva rifugio presso le case religiose. I tanti ebrei che in un primo tempo avevano trovato rifugio presso alcune famiglie, dopo qualche mese bussarono agli istituti religiosi e talvolta si spostarono.

L’atteggiamento delle religiose in questi frangenti è testimoniato da una suora Maestra Pia Filippini, la quale dinanzi a un ebreo che indicava il pericolo, ha affermato: “Noi seguiremo la vostra sorte, rimanete”.

E suor Maria Antoniazzi delle Suore di Nostra Signora di Namur, ha sostenuto: “Non ho fatto niente di più di quello che avrebbe fatto chiunque altro. In quei momenti non si pensava al pericolo, tiravi avanti con quel poco che potevi fare. La gente aveva bisogno di aiuto, questa era l’unica cosa che importasse, inoltre, noi non avevamo una famiglia o dei dipendenti di cui preoccuparci. Come gente di fede, potevamo rischiare più di altri”.

I canali che consentivano agli ebrei di mettersi in contatto con gli istituti erano costituiti da conoscenze, da raccomandazioni o da una semplice richiesta disperata. Le Superiore dovettero valutare, e spesso rapidamente, la compatibilità tra l’osservanza della Regola, la prudenza necessaria e la risposta alle richieste che coinvolgeva tutta la comunità in un grave rischio.

In molti casi l’adesione fu autonoma; in altri, si attesero indicazioni. Una suora Compassionista Serva di Maria ricorda che Pio XII aveva esortato ad aprire le porte e il cuore agli ebrei: “Ci sono stati i martiri della fede, ci siano ora i martiri della carità”.

Il rischio corso dalle religiose era molto alto, perché l’esibizione del cartello di proprietà della Santa Sede, fermò alcuni tentativi di perquisizione, come presso le suore di Maria Bambina e le Brigidine, ma il 23 ottobre 1943 padre Aquilino Reichart, OFM Conv, della sacra Penitenzieria per la lingua tedesca, aveva avvertito i Superiori che mentre il compiacente generale Stahel (comandante militare di Roma dopo l’8 settembre) avrebbe rispettato gli stabili religiosi, non avrebbero fatto lo stesso le SS (Schutzstaffeln, “squadre di protezione”).

Nonostante i pericoli la Santa Sede aprì anche le porte dei conventi di clausura. Suor Grazia ha confermato come “l’obbligo della clausura fu superato per diretto incoraggiamento delle autorità ecclesiastiche già il primo ottobre 1943, presso le Suore di Nostra Signora di Sion”.

“Le informazioni su monasteri di clausura veri e propri sono piuttosto scarse, ma – ha continuato Sor Grazia – con certezza sappiamo delle Clarisse di S. Lorenzo, in Via dei Selci, 82, delle camaldolesi, delle benedettine di Priscilla, che dovettero far visitare le catacombe a gruppi di tedeschi mentre avevano dei rifugiati e mentre fabbricavano carte d’identità false; recentemente si è aggiunta documentazione delle Agostiniane dei Santi Quattro Coronati”.

Dal punto di vista religioso, Suor Grazia ha sottolineato come, seppure in quei tempi ci fosse una certa diffidenza tra ebrei e cristiani, con “la conoscenza forzata dalle circostanze caddero pregiudizi e nacquero varie amicizie, talvolta persino reciprocità nell’aiuto”.

Sotto il profilo umano, Suor Grazia ha rilevato come “l’emergenza provocò il superamento di diffidenze che duravano da secoli e si alimentavano di pregiudizi a distanza. In quei mesi avvenne una conoscenza relativa e una spontanea graduale apertura reciproca, che per molte religiose ebbe il sapore di una scoperta; la nascita di relazioni di stima e di amicizia in alcuni casi, di riconoscenza o di pura fruizione di un’opportunità, in altri, senza particolare coinvolgimento”.

“Statue della Madonna, quadri, oggetti religiosi, ma soprattutto lunghe amicizie, corrispondenza e visite riprese dopo decenni sono la traccia eloquente di quei gesti di fraternità”, ha aggiunto.

In conclusione, secondo Suor Grazia “la rigidità dottrinale e la secolare diffidenza tra ebrei e cattolici fu superata dalla necessità, per cui si guardò alla persona umana in difficoltà, a prescindere dalle appartenenze religiose o politiche”.

“La carità e il buon senso pratico prevalsero sui pregiudizi, anticipando di fatto i percorsi di avvicinamento, col linguaggio convincente di una rischiosa solidarietà. Si percorse in breve tempo, senza disquisizioni e preparazioni, un lungo tratto che permise l’incontro”, ha detto.

“Alla fine dell’occupazione – ha commentato suor Grazia –, varie religiose rimasero a lungo in contatto con persone rifugiate. Il primo riconoscimento ufficiale fu la medaglia al valore civile attribuito subito dopo la guerra a suor Maria Goglia, Compassionista Serva di Maria, prima donna italiana a ricevere tale onorificenza”.

“Alcune religiose furono ricordate e ringraziate ufficialmente dagli ebrei nel decennale, nel 1955, altre nell’ultimo decennio, in cui si è svegliato anche in Italia l’interesse per i Giusti delle nazioni”, ha aggiunto la religiosa.

“Vari ebrei, all’epoca bambini o ragazzi, sono voluti tornare sui luoghi. Alcuni sono riusciti a rintracciare le suore in vita, non potendo dimenticare un’accoglienza gratuita e affettuosa, come un pezzo di pane nascosto sotto il cuscino, parole di conforto e momenti di pericolo vissuti insieme”, ha infine raccontato.

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