Da un kibbutz dell’Alta Galilea, le parole di un’ebrea incontrata quasi per caso. «La speranza è questo dialogo
che è scaturito come una benedizione… è questo miracolo che fa sì che abbiate aperto i cancelli ai vostri fratelli
maggiori»
Lo scopo di questo intervento è di presentare una
testimonianza ebraica su alcuni problemi specifici di bioetica. essendo
questa l'unica occasione, nell'ambito del corso organizzato dall'ordine
dei medici di Roma e provincia, di parlare dal punto di vista ebraico,
sono necessarie alcune premesse generali.
In un paese come l'Italia, che ha una sua particolare
tradizione culturale e una netta maggioranza, almeno formale, che si
collega alla religione cattolica, il dibattito sulle questioni di bioetica
si riduce molto spesso all'esposizione del pensiero della chiesa
cattolica, e alle sue possibili opposizioni con l'etica definita laica.
Il ruolo di altre realtà culturali e religiose è
praticamente ignorato o sottovalutato. Per quanto riguarda l'ebraismo, ciò
è determinato soprattutto dalla scarsa rilevanza numerica della presenza
ebraica in Italia.
Ma in una società pluralistica non è ammissibile che
opinioni potenzialmente diverse siano ignorate, solo in quanto
minoritarie, mentre proprio su questioni essenziali per la convivenza
civile e la dignità dell'uomo, come quelle che si dibattono in bioetica,
è necessario tener conto della diversità, che è uno stimolo alla
comprensione e all'arricchimento dei valori, per arrivare a soluzioni
comuni di rispetto e promozione.
Gli organizzatori del corso dell'ordine dei medici,
invitandomi ad esporre un punto di vista ebraico, hanno manifestato
sensibilità per questo aspetto, e meritano un particolare ringraziamento.
L'ebraismo fonda la sua cultura sulla bibbia ebraica
(l'antico testamento) e sulla tradizione dell'insegnamento dei rabbini, i
maestri interpreti della scrittura. L'antico testamento, non va
dimenticato, è anche la radice sacra dalla quale attinge la sua fede il
cristianesimo. Nell'ebraismo il rapporto con l'insegnamento biblico e con
quello rabbinico, che ne sviluppa in una ininterrotta continuità le
premesse, è radicale e fondamentale. Tutti i problemi etici, e in
particolare quelli bioetici, vengono affrontati sistematicamente a
confronto con la tradizione precedente, cui viene riconosciuta un'origine
sacra e un'autorità indiscussa.
Per quanto riguarda i problemi etici nuovi, che si
pongono ogni giorno parallelamente allo sviluppo delle tecnologie, la loro
soluzione spetta ai rabbini; ma nell'ebraismo manca ormai da molti secoli
un'autorità centrale, che sia in grado di imporre a tutti una soluzione
unitaria; per cui può accadere che su determinate questioni particolari e
nuove vengano espresse sentenze e opinioni differenti, ciascuna delle
quali si giustifica per l'autorità e la competenza di chi l'ha formulata
e per il rigore del ragionamento giuridico che la sostiene.
Dopo queste premesse, ecco alcune indicazioni di
massima sui problemi in discussione. Per quanto riguarda l'eutanasia e la
bioetica degli stadi terminali, non esistono indicazioni chiare e
specifiche su questi punti nella bibbia, ma da questa vengono comunque
tratte le basi per il ragionamento successivo della tradizione.
Un caso notevole è quello della morte del re Saul,
narrata al cap. 31 di 1 Samuele, e al cap. 1 di 2
Samuele. Saul muore durante una battaglia contro i filistei;
accerchiato dai nemici, vede profilarsi la sconfitta, e temendo di cadere
prigioniero ed essere esposto a sofferenze intollerabili, chiede allo
scudiero di togliergli la vita; lo scudiero si rifiuta, e allora Saul si
trafigge da sé con la sua spada. Ma questo non basta a farlo morire, e
allora il re in agonia si rivolge a un giovane amalecita, chiedendogli di
finirlo.
L'amalecita uccide Saul, e lo va a raccontare a David,
rivale di Saul e futuro re; ma David, ascoltato il racconto, condanna l'amalecita.
L'episodio e' troppo complesso perché se ne possano derivare indicazioni
univoche; ma emergono alcune linee tendenziali, che saranno sottolineate
dalla tradizione successiva. Il tentato suicidio commesso da Saul potrebbe
essere un atto illecito, ma diventa comprensibile e giustificabile per le
circostanze; ciò che un uomo fa su di sé, o chiede che gli venga fatto
per la realtà o il timore di sofferenze non è punibile; l'uomo che
soffre non è pienamente responsabile delle sue azioni. D'altra parte non
è consentito aderire alla richiesta suicida del re; lo scudiero si
rifiuta, e l'amalecita che lo fa viene per questo punito.
Più in generale, al di là di questo episodio, la
bibbia prescrive di non uccidere e impone a chiunque il sacro
rispetto della vita umana. La tradizione rabbinica sviluppa questo
principio affermando che nessuno è padrone, e può liberamente decidere
non solo della vita altrui, ma anche della propria. E ciò vale anche
quando si tratta di un malato terminale o gravemente sofferente.
Il timore è quello della relativizzazione del concetto
di santità della vita, e dell'apertura di una breccia che possa
progressivamente allargarsi.
Se si diminuisce il valore della vita di un uomo perché questi sta
per morire, la vita dell'uomo in generale perde il suo valore assoluto e
diventa relativa
(I. Jakobovitz, jewish medical ethics, p. 152 dell' ediz. ebraica,
jerusalem 1966).
Di qui la regola: è proibito ogni atto che possa
accelerare la morte di un agonizzante, a nessuno è concesso il diritto di
procurare la morte anche se si tratta di un processo irreversibile e
imminente, e anche se per i medici non c'è più alcuna speranza di vita,
e anche se è il malato stesso a richiederlo. Il medico non deve agire
direttamente in questo senso, né deve consigliare al malato i modi per
togliersi la vita da solo.
Nel conflitto di interessi tra tutela della santità
della vita e l'esigenza legittima di liberare dalla sofferenza,
quest'ultima non può avere la prevalenza. Questo non significa tuttavia
che non sia parimenti doveroso preoccuparsi della dignità del malato e
lenire al massimo le sue sofferenze. I farmaci antidolorifici sono
permessi, anche se possono affrettare la morte, purché non siano dati
proprio per questo scopo.
Più in generale la necessaria durezza di una scelta di
principio e' in qualche modo mitigata da ulteriori analisi e precisazioni.
Se infatti esistono ampi spazi eticamente legittimi per l'esercizio della
professione medica, perché è stato dato ai medici il permesso di
curare, vi sono anche attività di cura illecite, perché curare non
significa prolungare le sofferenze. Di qui l'importante distinzione: così
come è proibito accelerare la morte di un individuo, parimenti può
essere proibito ritardarla con mezzi artificiali. Le fonti medioevali
abbondano di strane casistiche in questo senso: ad esempio il rumore
ritmico di uno spaccalegna che entra in risonanza con il battito cardiaco
di un agonizzante, o il rumore o il pianto nella stanza dove si trova il
malato, se ne prolungano l'agonia, possono essere ridotti al silenzio. In
altri termini, appare lecito rimuovere ciò che impedisce la morte, mentre
è illecito mettere in atto ciò che direttamente la affretta.
La distinzione è molto sottile e di difficile
applicazione, per cui sono molte le precisazioni necessarie su problemi
attuali. Un esempio riguarda le varie apparecchiature che tengono
artificialmente in vita i pazienti nelle sale di rianimazione; c'è chi
suggerisce la possibilità di programmare nell'attività di queste
apparecchiature delle pause automatiche, che consentano di verificare
l'attività spontanea del malato, e in base a queste decidere se far
ripartire l'apparecchio. Si parla ovviamente di malati in situazioni
irreversibili e senza speranze, legati per loro sopravvivenza al mezzo
meccanico, ma ogni situazione è un caso a parte e impone scelte difficili
dal punto di vista etico-giuridico e sofferte per tutte le loro
implicazioni umane.
La bioetica dei trapianti è un altro tema di questo
incontro. L'argomento dei trapianti, per la sua complessità, non può
essere affrontato neppure per sommi capi in questo spazio, ma si possono
dare alcuni orientamenti su un aspetto particolare, collegato al tema
precedente, quello del malato terminale. Per l'ebraismo chi salva una
vita umana e' come se avesse salvato un mondo intero.
La tutela della vita umana passa al disopra di ogni
altra legge. Si può violare qualsiasi altra norma per salvare una vita,
ma esiste un limite implicito in questo principio, ed è la tutela di un
altra vita. il Talmu'd dice: il tuo sangue non è più rosso di quello
di un altra persona. La tua vita vale quanto la sua. Si può far
tutto per salvare una vita, tranne che sacrificarne un'altra. Ed è questo
uno dei problemi bioetici principali in quei trapianti, nei quali l'organo
donato e' un organo vitale, come nel caso del cuore. L'imperativo
di salvare una vita umana, o di migliorare in modo significativo la qualità
di un'esistenza, rappresenta in linea di massima la giustificazione etica
per l'esecuzione dei trapianti, così come il rispetto della vita altrui
ne rappresenta il limite.
In altri termini non è assolutamente lecito sopprimere
una vita di una persona per estrarre dal suo corpo un organo da donare.
Nel caso del trapianto cardiaco il problema si è posto per la necessità
di disporre di un organo funzionante. A che punto dell'agonia di un malato
terminale è lecito intervenire per prelevarne l'organo vitale? È una
domanda alla quale le legislazioni civili cercano di dare una risposta ben
precisa, definendo con la massima cura i criteri per la valutazione della
morte cerebrale. Ciò che è successo, in parallelo, nel mondo ebraico
rappresenta un evento per molti versi straordinario.
Nel 1968, all'epoca dei primi trapianti cardiaci, le
valutazioni di molte autorità rabbiniche furono negative, e vennero
formulate contro i chirurghi accuse di duplice omicidio dell'accettore,
in quanto sottoposto a una procedura che non gli dava garanzie di
sopravvivenza, e del donatore, perché il cuore gli era stato tolto mentre
ancora batteva. La prima difficoltà si e' risolta con il progresso
tecnico e il controllo delle reazioni di rigetto; oggi il trapianto
cardiaco è considerato una valida misura terapeutica.
Ben più complessa la seconda difficoltà, che implica
un dibattito sulla definizione del momento della morte. I primi
pronunciamenti rabbinici si erano basati su alcune tradizioni che
consideravano come criterio certo di morte la cessazione dell'attività
cardiaca, e quindi avevano proibito il trapianto, in quanto l'espianto di
un cuore battente si identificava con un omicidio.
Ma il dato dell'efficacia clinica del trapianto, ha
imposto una completa revisione delle fonti e degli atteggiamenti
conseguenti, con il risultato di un nuovo e più approfondito esame, che
ha portato a privilegiare, tra le fonti antiche, le linee giuridiche degli
autori che identificavano la morte con la cessazione dell'attività
respiratoria e quindi con quella cerebrale.
Di qui un pronunciamento ufficiale del rabbinato
centrale israeliano, del 1986, che ha stabilito i criteri per la
definizione di morte in base alla cessazione dell' attività cerebrale, e
ha aperto la strada per l'autorizzazione, dal punto di vista della norma
ebraica, dei trapianti cardiaci.
Non tutti i rabbini hanno accettato questa posizione,
ma il caso è dimostrativo dell' atteggiamento che le autorità
rabbiniche, e più in generale il pensiero ebraico, hanno su problematiche
di bioetica: una grande attenzione agli sviluppi tecnici e ai loro
potenziali benefici per l'uomo, insieme a una prudente vigilanza e a una
incessante e talora lacerante riflessione, per la tutela dei principi
etici su cui si fonda la tradizione dell'ebraismo e la convivenza civile
dell'umanità.
Rav Riccardo Di Segni
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[Fonte: tracce.it - gennaio 2003]