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«La nostra sfida: arabi
e cristiani»
Luigi Geninazzi, da Gerusalemme,
Avvenire 30 dicembre 2006
Parla il vescovo destinato a
succedere al patriarca Sabbah. Il ruolo di ponte della comunità cristiana, le
preoccupazioni per la ripresa delle ostilità e le prospettive di pace. È
necessario che ciascuna parte assuma le sue responsabilità. La Chiesa chiede
libertà e indica la via del perdono: una prospettiva tanto necessaria quanto
poco praticata nella regione
È arrivato qui da poco più di un
anno ma sa già che lo attende un incarico impegnativo e delicato. Monsignor Fuad
Twal è il vescovo coadiutore del Patriarca Michel Sabbah, designato a
succedergli nel 2008 quando l'attuale responsabile dei cattolici latini di Terra
Santa dovrà lasciare per limiti d'età. Ma se c'è una persona da cui traspare
grande serenità e fiducia è proprio monsignor Twal. Questo prelato arabo,
massiccio e imponente, è abituato alle missioni difficili. Prima d'iniziare
l'intervista ricorda sorridendo che cosa gli fu detto in Vaticano quando
all'inizio degli anni Novanta venne inviato a Tunisi: «Vai e salva il
salvabile!». Un consiglio che ritiene utile anche a Gerusalemme, un luogo che
conosce bene e dove «tutto è più complicato ma nello stesso tempo più
coinvolgente e affascinante».
Eccellenza, la vita dei
cristiani in Terra Santa resta molto difficile, anche quest'anno le festività
natalizie si sono svolte in un'atmosfera carica di preoccupazioni....
I cristiani in Terra Santa vivono i problemi comuni a tutta la popolazione,
non sono un ghetto a parte. E' una situazione drammatica che dura da oltre
cinquant'anni, da quando è iniziata un'occupazione militare. Dal 2000 questa
situazione si è aggravata con le pesanti limitazioni agli spostamenti, i posti
di blocco, il muro ed il conseguente peggioramento delle condizioni economiche,
sociali e sanitarie nei Territori palestinesi. Ma non dobbiamo solo lamentarci..
La Chiesa, in ogni situazione, è e vuole essere un segno di speranza. Tanto più
qui nei Luoghi Santi, a Gerusalemme che è la città della croce ma anche della
resurrezione. Abbiamo comunità vive e dinamiche che respirano la fraternità
universale della Chiesa. Nonostante tutto abbiamo celebrato il Natale con il suo
messaggio di pace e di gioia. E siamo molto grati a tanti amici e pellegrini che
sono arrivati per quest'occasione e non ci hanno fatto sentire soli e
abbandonati.
Nei giorni scorsi Benedetto XVI ha inviato una lettera ai catt olici della
Terra Santa in cui li esorta a non limitarsi a «fare il conto dei torti subiti
ed elencare le proprie ragioni». È un invito deciso a cambiare atteggiamento,
non le sembra?
Siamo grati al Santo Padre per la sua vicinanza e la sua attenzione nei
nostri riguardi. Il Papa ci ricorda che insieme alla rivendicazione dei propri
diritti i cristiani devono far valere la loro peculiarità che è quella del
perdono. Tutti i popoli e le nazioni del Medio Oriente parlano di giustizia, ma
solo chi crede in Gesù Cristo è capace di perdonare. È questo l'elemento
caratteristico dei cristiani, ed è quello di cui c'è grande bisogno in Terra
Santa.
Finora, dice il Papa, non è stato fatto molto in questa direzione...
Vede, il perdono è una cosa molto difficile. Come tutti i pastori della Chiesa
anch'io richiamo sempre i fedeli a questo atteggiamento. Ma per chi ha perso i
suoi cari e si è visto distruggere la casa, i terreni e non ha più un futuro, è
un atto d'eroismo. E molti non ce la fanno purtroppo e scelgono la via
dell'emigrazione, non vogliono più vivere qui. È un dramma che affrontiamo tutti
i giorni.
Qual è il ruolo della Chiesa
in questa situazione drammatica?
La Chiesa ha un ruolo di pace e di riconciliazione e in questo si sente
responsabile non solo dei cristiani ma anche degli ebrei e dei musulmani. Il
conflitto in Medio Oriente ha radici politiche ma ha finito inevitabilmente per
avere implicazioni religiose. La maggior parte dei cristiani che vivono in Terra
Santa sono arabi e per mentalità, lingua e cultura hanno un approccio ai
problemi che gli altri non possono avere. È questa la nostra forza e la nostra
responsabilità, è una sfida: possiamo e vogliamo avere un ruolo di dialogo fra
le civiltà, un ruolo di ponte per quanto possibile.
Però spesso succede che siete visti con sospetto come una quinta colonna
dell'Occidente, perchè cristiani, e guardati con diffidenza dall'Occidente
perchè arabi. Non pensa che questo sia un handicap più che un vantaggio?
Ma questi sono solo pregiudizi dettati dall'ignoranza che non ci scoraggiano.
Sul Medio Oriente c'è abbondanza di pregiudizi e incomprensioni! Noi siamo
orgogliosi della nostra identità araba e cristiana, anche se viviamo dentro una
massa che non condivide il nostro credo, come pure siamo coscienti dei nostri
limiti e dei nostri errori.
Alla radice di tutto c'è la questione palestinese che recentemente è
diventata ancor più complicata con lo scontro interno tra Fatah ed Hamas. Teme
il rischio di una guerra civile?
No, non temo nessuna guerra civile. Il problema di fondo è l'instabilità
politica e sociale che può degenerare nel caos. In una simile situazione dove
non esiste un governo palestinese forte è ovvio che i gruppi armati diventino
più aggressivi. È urgente che i palestinesi abbiano un proprio Stato. E' questa
la strada che conduce alla pace ed alla stabilità in tutto il Medio Oriente.
A suo avviso chi ne porta le
responsabilità maggiori?
Nel conflitto che oppone Israele ai palestinesi tutti hanno le loro colpe.
Tutti devono cambiare atteggiamento ed avere più fiducia reciproca. Dobbiamo
guardare avanti. E tocca al più forte, ad Israele, fare il primo passo. Credo
che qualcosa stia cambiando: dopo la guerra con il Libano Israele si è accorto
che non può riporre la propria fiducia solo nell'esercito e nell'uso della
forza. E sembra che tutti in Medio Oriente inizino ad essere stanchi di questa
situazione. Staremo a vedere, soprattutto dopo l'incontro tra Olmert ed Abu
Mazen. Come al solito, dipenderà molto dall'Occidente che si è comportato in
modo contraddittorio: prima ha chiesto ai palestinesi di tenere elezioni
democratiche ma poi non ha accettato il risultato ed ha punito non il governo di
Hamas ma tutta la popolazione, bloccando gli aiuti e spingendo alla
disperazione. Adesso dice di voler appoggiare il presidente Abu Mazen. Se
l'avesse fatto con decisione fin dall'inizio, forse Hamas non sarebbe diventato
così forte.
Come procedono le trattative
tra Chiesa e governo israeliano per l'attuazione dell'Accordo fondamentale
siglato nel 1993?
La Commisione mista, dopo tanto tempo, è tornata a riunirsi due settimane fa
ma non c'è stato nessun passo in avanti. Il prossimo incontro è fissato a
gennaio a Roma. Speriamo bene. Quel che chiediamo, oltre all'adeguata tutela
dello statuto fiscale della Chiesa, è soprattutto il riconoscimento giuridico
delle comunità religiose così che siano messe in grado di svolgere la loro
attività. La cosa più importante è stabilire un meccanismo di fiducia reciproca
che si allarghi alla società israeliana ed a quella palestinese.
Benedetto XVI ha espresso il
desiderio di visitare la Terra Santa ed Israele ha già avanzato l'invito. Quando
potrà realizzarsi questo viaggio?
La risposta a questa domanda l'ha già data il Santo Padre dicendo: «verrò
volentieri quando ci sarà la pace». Lui è sempre il benvenuto tra noi, la sua
presenza ci richiama a vivere fino in fondo il mistero dell'amore di Dio.
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