A questo punto non mi importa
più che ci sia la manifestazione a Roma per Israele, che ha proposto il
direttore del Foglio Giuliano Ferrara.
Proposto non promosso. Perché s'è limitato a chiedere: pensate sarebbe una
buona idea? Pensate sia giusto farla? Una volta tanto non è partito in
tromba. Ed è stata una valanga di sì. Un sollievo per il cuore, come se
fossero state aperte le finestre in una stanza, in cui l'aria era diventata
mefitica e asfissiante.
Ti giravi attorno e non
sentivi che una musica, tutta colpa degli ebrei. Scoppiano le bombe dei
terroristi (c'è un altro modo per indicare quelli che fanno esplodere le
bombe tra la popolazione civile inerme e ignara?) e la colpa è degli ebrei.
Sempre colpa di Sharon, che è ebreo. Potremmo fare una digressione su
quelle ragazzine e su quei ragazzi, che vengono mandati a morire imbottiti
di esplosivo. Perché non ci vanno i loro padri? Perché non ci vanno quelli
che li riempiono di dinamite? Non è infame indottrinare dei ragazzi e
spingerli al suicidio? Lasciamo stare.
È sempre colpa degli
ebrei. Dunque questa è la situazione e il teorema è che Arafat non ha
colpe, perché conta come il due di briscola, perché è capo di uno Stato
che non controlla più. E allora se non lo controlla, che aspetta a
dimettersi come farebbe qualsiasi premier e presidente di Repubblica, foss'anche
quella delle banane? E quando i kamikaze uccidevano cinque anni fa, quattro,
tre anni fa, l'anno scorso, nemmeno allora sapeva nulla? Ma insomma che capo
di palestinesi è? Ricordo con malinconia gli anni — non ne sono passati
troppi — in cui anch'io avevo fiducia e stima per Arafat. Pensavo e lo
penso ancora che ebrei e palestinesi siano i popoli più intelligenti di
tutto il Medio Oriente. Che i palestinesi siano senz'altro il popolo che
anche per le sofferenze che patisce e per la diaspora che sopporta è il più
aperto al nuovo. Come gli ebrei, anche i palestinesi rimasti senza terra,
eccellono ovunque nelle libere professioni. Si fanno onore.
Vincono in qualità. Sono certamente i migliori tra gli arabi, sempre che
abbia un senso fare queste classifiche etniche, che sono sempre un po'
pericolose. Ebbene ancora questa stima resta. Quello che è crollata è
invece la fiducia in Arafat, nella sua capacità, nella sua volontà di
negoziare la pace, di sapere vivere in modo pacifico, di sapere realizzare
la pace e non solo di saper fare — come sicuramente sa — ben
destraggiarsi nelle situazioni di guerra. Ricordo con malinconia quando
presi un biglietto d'aereo per essere in Israele — non per lavoro ma per
il piacere personale di esserci — il 13 settembre del 1993, quando di
fronte a Clinton Arafat e Rabin si strinsero la mano.
Ricordo la gioia, le urla, i canti, per tutto il giorno e tutta la notte dei
palestinesi a Gerusalemme est, quella araba, e a Gerico.
Sembrava l'alba di una nuova epoca. Invece i kamikaze dopo un po' hanno
ripreso a fare stragi di ebrei. E Arafat che stava a guardare e riprendeva a
dire: io non c'entro. Balle. Così in questa altalena di attentati e di «non
so» siamo arrivati alle stragi di questi giorni, stragi da entrambi le
parti. Ma perché siamo arrivati a questo punto? Perché invece di cogliere
quella grande occasione per costruire una convivenza pacifica tra i due
popoli Arafat ha alzato il prezzo delle richieste, ha cominciato a dire che
Gerusalemme spettava tutta a lui, dando in questo modo la giustificazione
politica al fanatismo islamico.
Dà una sensazione di smarrimento vedere quanto siano ignorate le ragioni
degli ebrei, che hanno uno Stato che non ha mai nascosto le sue colpe, che
non è mai venuto meno ai principi della democrazia, che accetta tutto e il
contrario di tutto, che cerca di accogliere anche gli arabi ma (non lo si può
forse capire?) allo stesso tempo ne ha paura, che comunque vive in un clima
di passione civile così intensa e così diffusa.
Nel lavoro, in famiglia, per
strada, alla knesset c'è una moralità di fondo, un sentire comune, un
sentirsi popolo, una condivisione delle cose, una capacità di dividersi, di
azzuffarsi ma di saper tornare uniti, di aiutarsi nel pericolo. Uno Stato
con una sostanza civile e politica da farmi desiderare che l'Italia possa
assomigliare ad Israele. Credevo che si fosse persa la capacità di sapere
vedere il problema dei rapporti arabo-israeliani nella sua interezza.
Ho respirato il gas del buonismo a senso unico, ho sopportato la perfidia
ipocrita dei piagnistei, ho visto da vicino la faziosità, ho ascoltato il
silenzio delle verità taciute e il rumore delle falsità, che sono poi le
condizioni, anzi le conseguenze, dell'intolleranza. Ho capito che
l'antisemitismo è come la mafia. Chi c'è dentro vi dirà sempre: non
esiste. Perciò ho salutato con sollievo la manifestazione proposta per
Israele. E a questo punto non mi interessa più che si tenga o quanti vi
parteciperanno. Mi basta sapere che altri condividono le mie ansie. Non ho
più bisogno di contarli. Mi basta sapere che ci sono. Riscopro di vivere in
un paese
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