Laura Delsere, su "Avvenire del 20
maggio 2004
Mentre esce un suo saggio su antisemitismo e sionismo, parla Abraham
Yehoshua: «Se si continuerà a dire che "tutto il male viene da
Israele", si alimenterà il clima che ha creato lo scontro in
Palestina» - «Il punto d’arrivo anche per
noi è la separazione fra Stato e religione. Il ritiro dai Territori non
basta ma serve. Alla fine anche da parte palestinese vincerà la
moderazione»
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Il complesso e
sofferto dibattito sulle relazioni tra ebrei e non ebrei tende
spesso a distinguere ciò che viene definito «antisemitismo moderno»
da ciò che lo precede, nel mondo antico e nell'età di mezzo. Si
riconoscono matrici differenti, di ordine religioso, economico,
identitario, ma tutte più o meno contingenti e legate al momento
storico e al luogo geografico esaminato di volta in volta. Molto più
difficile è tracciare un quadro complessivo delle relazioni tra
ebrei e «gentili», che trascenda la contingenza storica e delinei
un fattore comune in grado di abbracciare duemilacinquecento anni di
storia e un ambito geografico che includa l'intero pianeta.
Rivendicando il suo ruolo di scrittore e non di storico
professionista, Abraham B. Yehoshua propone la sua personale ipotesi
di lavoro, nella speranza che altri raccolgano la scintilla e la
elaborino con rigore scientifico. Per Yehoshua, la particolarità
degli ebrei nasce dalla coincidenza di religione e identità
nazionale e nella tensione che questa coincidenza ingenera, presso
gli stessi ebrei e presso i popoli tra i quali gli ebrei si sono
trovati a vivere. Tensione che il sionismo, forse, potrebbe
risolvere. |
Esce in Italia in anteprima mondiale Antisemitismo
e sionismo, saggio di Abraham Yehoshua (Einaudi) in risposta
all'inchiesta di un trimestrale tra 10 storici, di prossima
pubblicazione in Israele. L'autore ne ha parlato a Roma, inaugurando il
Centro Romano di Studi sull'ebraismo all'università di Tor Vergata.
Yehoshua, fiume in piena nel suo inglese acceso, stavolta è
insolitamente prudente, tiene a distanza la cronaca sanguinosa che
arriva da Rafah, lungo il confine egiziano. Eppure «frontiere», borders,
è la parola chiave della sua riflessione.
Perché questo saggio adesso?
«È un momento cruciale per l'antisemitismo. Vanno cercate oltre lo
scenario politico attuale le radici di un fenomeno riapparso con forza.
Ha tratti e linguaggi comuni l'odio che si è perpetuato in secoli e in
nazioni diverse. Seneca e Tacito usano espressioni antisemite,
"tribù esecrabile", "detestabili" prima del
cristianesimo».
Per lei, l'antisemitismo fu rafforzato dall'identità ebraica, forte
e flessibile a un tempo.
«L'alta flessibilità degli ebrei verso ogni società o parte del mondo
li ha fatti illudere sulla loro identità. Se un italiano vive 40 anni
in Russia gli resterà ben poco della prima patria. Gli ebrei della
diaspora invece hanno fatto una sola cosa di popolo e fede. Il grande
lavoro di immaginazione ha prodotto una crescita spirituale nei
millenni, ha generato premi Nobel, ma ha anche alimentato le
frustrazioni degli antisemiti. Hanno proiettato sugli ebrei un'ombra di
onnipotenza e ambiguità. Non parlo solo delle ossessioni di Hitler
quando ne aveva già annientati a milioni. Ma dell'idea di fondo per cui
un quotidiano come "The Guardian" dà spazio alla teoria di un
Mossad al corrente in anticipo dell'attacco alle Twin Towers e che
avrebbe taciuto ai non ebrei la minaccia. E questo quando non abbiamo
nemmeno saputo predire l'Intifada a un chilometro dai nostri confini».
Lei respinge chi parla di invidia degli antisemiti.
«L'antisemitismo è questione di paura verso un popolo che ha un
identità stabile nel tempo, non di invidia. E di che cosa? Della
miseria, di ogni sorta di limitazioni e umiliazioni, dell'Olocausto
forse?»
E l'antisemitismo di oggi nel mondo arabo?
«La prova che le radici dell'odio sono nell'immaginario sta nel fatto
che i palestinesi sono i meno antisemiti del mondo arabo. Possono
odiarci in questa guerra sanguinosa, ma non fantasticano su di noi, come
un vice-primo ministro malese sugli "ebrei che dominano il
mondo". I palestinesi ridono di idee come questa, sanno che non
riusciamo nemmeno a dominare il loro mondo».
Gli intellettuali non sfuggono alla deriva irrazionale.
«Quando sento criticare la politica di Israele oggi, posso essere
d'accordo su più di una questione. Ma è tutt'altro parlare della non
legittimazione dello Stato d'Israele. È incredibile che personalità
come Theodorakis dicano che "tutto il male del mondo viene da
Israele". O che un Josè Saramago osi affermare che Ramallah
equivale ad Auschwitz».
Il sionismo fa da contraltare. Perché lo considera medicina per gli
ebrei della diaspora?
«Il sionismo è nato come soluzione per riparare e cambiare le
relazioni tra gli ebrei e il loro ambiente, è rivoluzione rispetto allo
statu quo tra Stato e fede, che aveva garantito la sopravvivenza
al popolo disperso. La diaspora non fu solo un obbligo, ma una scelta. E
forse se avessimo avuto uno Stato sovrano prima della Shoah, ne avremmo
limitato le devastazioni».
Il futuro per Israele è la separazione tra Stato e religione?
«Sì, come già avviene in tante nazioni, Italia compresa. È la nostra
normalizzazione. Qualche secolo fa il filosofo Spinoza, non credente
eppure ebreo, era un unicum. Oggi è molto comune. In un futuro
in cui la religione rappresenterà un elemento d'identità ancora
importante, è una ricchezza per il Paese avere cittadini ebrei
appartenenti ad altre fedi. Ci sono stati nostri soldati uccisi, la cui
famiglia ha celebrato funerali in chiesa. Per gli ebrei della diaspora
il processo è più delicato, ma possibile».
Siamo alla globalizzazione dell'antisemitismo, al tempo dello scontro
di civiltà?
«Ho paura che dopo mille anni di scontro con il cristianesimo si apra
quello con l'islam. Dobbiamo evitarlo. L'avanzamento culturale fa sì
che paesi arabi come Marocco o Giordania non vivano lo scontro con
l'Occidente. Se non separeremo Stato e fede, togliendo forza ai coloni,
zoccolo duro dello scontro con i palestinesi, pagheremo un prezzo
altissimo. Così il ritiro dai Territori proposto da Sharon non basta ma
conta. I palestinesi di fronte a esso non rivendicheranno il diritto al
ritorno per tutti, al contrario di quanto dice Arafat, prevarrà la
moderazione. E indispensabili sono anche le frontiere per i due Stati,
come voi europei non riuscite a capire. È disastroso non averle come
ogni altra nazione».