Nuovo libro di Fiamma Nirenstein -
"Gli antisemiti progressisti"
Naturalmente il libro
mantiene quel che lascia intendere il titolo: "Gli antisemiti
progressisti - La forma nuova di un odio antico". Il nuovo libro di Fiamma
Nirenstein - come lo fu il precedente "L'Abbandono"- è una
spietata e coraggiosa analisi della situazione mediorentale e delle
conseguenze derivate dal terrorismo. Sotto accusa il pacifismo,
l'arrendevolezza, la connivenza, la responsabilità della sinistra in
merito al risorgere dell'antisemitismo.
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"Non vinceremo la guerra contro
il terrorismo se non vinceremo la guerra contro l'antisemitismo. Non
vinceremo se non difenderemo la democrazia di tutti, in primo luogo
quella del mondo islamico."
Fiamma Nirenstein ripercorre
l'esperienza della generazione dei diritti umani per denunciare una
nuova versione dell'odio verso gli ebrei: un antisemitismo
"democratico", "liberal", che ha al suo centro
un pregiudizio antisraeliano il quale ha ormai contaminato in Europa
i movimenti pacifisti, le organizzazioni non governative, una
frazione maggioritaria dei partiti di sinistra e dell'opinione
pubblica liberal-progressista, la stampa, la tv, l'Unione europea, e
la stessa Onu, e che identifica Israele con l'imperialismo
dell'Occidente e i palestinesi e gli altri popoli arabi con le
vittime sacrificali di una politica di potenza.
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È una visione
distorta della realtà, che trascura il fatto che Israele, l'unica
democrazia del Medio Oriente, è minacciato dal terrorismo suicida e
dall'odio di centinaia di milioni di arabi che non hanno mai
accettato la sua esistenza.
È
una visione fondata su un assurdo giustificazionismo, che
attribuisce sempre e comunque la responsabilità del terrorismo
alle colpe dell'Occidente sfruttatore e colonialista o
all'egemonismo unilaterale degli Stati Uniti o a Israele che
occupa i Territori. È una visione che, con folle incoscienza, non
tiene conto del distillato purissimo di odio ("contro i
crociati e contro gli ebrei") e di cultura di morte
("noi amiamo la morte molto più di quanto voi amiate la
vita") tipico della deformazione dell'Islam operata dai
regimi baathisti e fondamentalisti, oltre che dal fondamentalismo
wahhabita (abbracciato da Osama bin Laden), per il quale la
religione è un'arma.
Questo libro è una denuncia
dell'ascesa dell'antisemitismo — rivelata da centinaia di
attacchi e perfino da sondaggi commissionati dall'Unione europea
— e del pacifismo a senso unico di chi non considera che gli
attentati antiamericani culminati nell'11 settembre sono stati
preparati durante la presidenza democratica e pacifista di Bill
Clinton, e che la seconda Intifada è stata scatenata contro gli
accordi di pace voluti dai governi laburisti israeliani di Yitzhak
Rabin, Shimon Peres ed Ehud Barak. Il nesso fra guerra contro il
terrorismo e lotta contro l'antisemitismo è essenziale: non tutti
gli attacchi terroristici sono antisemiti, ma tutti i terroristi
odiano gli ebrei. Il libro è anche una lucida e documentatissima
difesa di Israele, della sua democrazia, della sua gente che
nonostante la minaccia quotidiana degli attentati suicidi non ha
rinunciato all'amore per la vita, non si è chiusa in casa e
continua a praticare quella democrazia e a dimostrare di credere
in quella libertà che il terrorismo vuole cancellare.
Indice - Sommario
- Introduzione: Non è facile
parlare del nuovo antisemitismo
- Nel 1967 ero una giovane comunista.
- L'Europa non perdonerà mai gli ebrei per AuschwitzLe
piccole bombe scoppiate in faccia
- Il terrorismo non si produce in
un giorno
- Alla fine del secolo scorso la
pace
- Il campo profughi di Deheisheh
- La battaglia di Jenin ha
rappresentato una sfida
- Se avete lacrime, preparatevi a
versarle adesso
- Ogni giorno in Israele, oltre ai
poliziotti e ai soldati
- Fu un panorama soprattutto
agricolo
- Nel 2003, come ogni anno, ho
trascorso le vacanze in Italia
- È una nuova stagione per il
rapporto fra la destra e gli ebrei
- Conclusioni
- Cronologia
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Fiamma Nirenstein, «Gerusalemme, la banalità del
terrorismo»
[su La Stampa del 25 giugno 2004]
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GERUSALEMME. Dove ci incontriamo? Dove vogliamo farci queste due
chiacchiere sul terrorismo? Dove ci sediamo, ora che hai finalmente
deciso di sapere che cosa ho attraversato in questi due anni? No,
non solo quello che ho scritto sul giornale, ma anche quello che è
accaduto dentro di me, nella mia vita?
Bene, troviamoci al caffè
Cafit, nella bohème del Quartiere Tedesco, pietre, fiori, ragazze
che guardano le vetrine, signore cinquantenni vestite con un poncho
rosso, soldati di diciotto anni che ridono con i loro amici mentre
aspettano l’autobus. Al Cafit, dove Shlomi, il cameriere, ha
portato via dalle spalle del terrorista suicida la borsa piena di
dinamite ed è andato a depositarla lontano.
Oppure troviamoci al
Café Moment, una punta di cristallo in pieno centro, dove il 9
marzo 2002 un terrorista suicida ha fatto saltare per aria i ragazzi
e le ragazze seduti ai tavolini: quattordici morti. Possiamo anche
sederci in un ristorante semplice, tipico, che ci faccia buoni
spiedini e serva hummus e pita a Mahanei Yehuda, il mercato
centrale, luogo di almeno quattro attentati con decine di morti,
l’ultimo il 12 aprile 2002; altrimenti si può prendere una pizza
da Sbarro, poco lontano, dove il 9 agosto 2001 ci sono stati venti
morti fra cui una famiglia di cinque persone, tre bambini e i
genitori.
Se scendiamo poco più in basso, nelle strade pedonali
dove si vendono ricordini, non c’è posto dove vorrai sederti: al
caffè Bianchini la padrona ha portato fuori con le sue mani la
borsa piena di tritolo; in Rehov ha-Nevi’im è saltato per aria un
ragazzo di nome Tomer, una guardia di diciannove anni che aveva
fermato una vettura sospetta; Tomer quando Rabin è stato
assassinato aveva scritto una lettera di disperazione a Leah Rabin,
la vedova; a Me’ah She’arim, non pensiamoci neppure, una
famiglia intera è stata sterminata insieme agli amici alla fine di
una funzione religiosa; all’angolo di ognuno dei vicoli pedonali
del centro è saltata per aria una bomba umana, quasi ognuno dei
selciati su cui camminiamo è stato cosparso di membra umane senza
fine, ragazzi sono morti nelle mani dei soccorritori terrorizzati.
Non c’è luogo che non sia stato macchiato dalla strage qui a
Gerusalemme, da Gilo alla Collina Francese, da Nord a Sud, da Kiriat
Yovel a Talpiot, da Est a Ovest; i numeri delle linee che hai letto
sul giornale quando gli autobus sono saltati per aria formavano una
cabala mortale senza fine. Perché, in molti, ben finanziati, ben
organizzati e sicuri di sé, equipaggiati con cura, hanno voluto
(intendo volere, pianificare, immaginarsi soddisfatto il risultato
del suo lavoro, puntare al numero più alto possibile) ammazzare
bambini che vanno a scuola, vecchi che vanno a far la spesa, nonni e
mamme che accompagnano i figli, lavoratori.
I giovani e i bambini sono le vittime privilegiate del terrorismo,
le loro fototessere coprono quasi tutti i giorni le prime pagine. Il
terrorismo adora triturare i bambini, perché non c’è nulla di più
spaventoso per una società che scavare la tomba ai figli, niente di
più inverosimile di un padre che, come quello che ha perduto due
bambini in Kenya nell’attentato all’Hotel Paradise, ripete
singhiozzando alla folla che lo accompagna a seppellirli, mentre
un’altra bambina versa in condizioni gravi all’ospedale e anche
la madre è in fin di vita: «Non piangete, non facciamogli vedere
che soffriamo, siamo più forti di loro, non l’avranno vinta».
Ad Ashkelon, una città povera del Sud, sono andata a trovare la
famiglia di Ofir Rahum, uno dei primi ragazzini uccisi dal
terrorismo: la sua storia è fra le più strazianti, perché
contiene un misto di amore e tecnologia che finisce nelle fauci
della più tribale ferocia. Ofir guarda sul computer nella sua
stanza ancora decorata dal Gatto Silvestro, e trova un messaggio di
una ragazza palestinese più grande, che vive, lei scrive, a
Ramallah.
Frasi civettuole sempre più spinte; Ofir, che è abituato
al massimo a passeggiare con i compagni di scuola per le strade di
Ashkelon, decide di rispondere alla ragazza che, sì, è pronto a
incontrarla. Così, senza dirlo a nessuno, si mette i vestiti
migliori e prende un autobus. Cambia alla stazione centrale di Tel
Aviv per Gerusalemme, e la ragazza lo viene a prendere. Il sole è
già a metà della sua strada. Ofir non sa dov’è, non è mai
stato a Gerusalemme, non capisce neppure che la macchina della
ragazza è entrata a Ramallah.
La sua mamma, magra e bianca, ora che di lui non è rimasto altro
che la borsa scolastica, restituitale dalla polizia, dice: «Io
penso con consolazione che quando la ragazza ha portato Ofir nelle
mani dei Tanzim, la macchina si è fermata e gli è stato detto di
scendere, mio figlio non aveva ancora capito niente: non dove era,
non che la ragazza volesse ammazzarlo, non che quei ragazzi erano là
per fargli del male. Deve essere sceso fiducioso, con una sola
grande preoccupazione che io spero occupasse la sua mente,
distraendolo dalla sua morte imminente: la mamma sarà preoccupata
perché è tardi, cosa racconterò quando torno a casa?».
Dunque
quel magro ragazzo povero non è mai tornato da suo padre e da sua
madre e dai suoi due fratelli, il suo computer l’ho visto ancora
acceso. Purtroppo qualcuno mi ha anche mostrato le foto del corpo di
Ofir. La crudeltà che gli è stata riservata, la violazione del suo
corpo bianco di ragazzino non la racconterò in queste righe.
Allora, solo allora, cominciai a capire cosa stava accadendo: era il
terrorismo, diverso da tutto quanto mi ero mai figurata, la strage
programmata di creature innocenti, e quanto più innocenti tanto
meglio. Perché terrorizza di più la loro morte, perché noi ne
siamo travolti. Io, ad Ashkelon, lo fui.
È una piccola comunità di coraggiosi quella che, guardando i
propri figli che escono di casa per andare a prendere l’autobus,
vuol sapere che potrebbero non tornare; o che è disposta a superare
un autobus perché quando si vive non si può far tardi pensando che
potrebbe scoppiare; che al mattino quando ti dà un bacio di saluto
e ti dice «Ti voglio bene» sa che potrebbe non avere mai più
occasione di dirtelo.
Vivere nel terrorismo non significa soltanto
aspettare il bum, il suono delle sirene come un inevitabile
appuntamento. È una parte minima della vita nel terrore stare
all’erta, guardarsi intorno, cambiare le proprie abitudini,
vagliare i costi della vita sociale, dei posti affollati: quando
vivi nel terrore dopo gli attentati per un po’ non vai più al
supermarket, al cinema, al concerto, a guardare le vetrine, non ti
fermi a parlare sulla porta della scuola, della palestra, del
lavoro, non ti scocci perché ti frugano ovunque, perché stai in
coda dappertutto per i controlli di sicurezza, alla posta, in banca,
al caffè... Poi ci torni, torni alla tua vita perché è tua, non
dei terroristi. Non ti spezzi anche se piangi tutti i giorni, non
smetti di parlare di cibo, di vestiti, di invitare gli amici a cena,
non cessi neppure di cercare un contatto con quei pochi amici
palestinesi che ti sono rimasti. Ma impari la crudeltà umana, e
questo ti terrorizza più del pericolo fisico.
Angelo Pezzana,
«L'antisemitismo oggi è tutto dei progressisti»
[su Libero del 30 giugno
2004]
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Fra gli inviati dei grandi giornali nelle zone
calde del pianeta la maggior parte se ne sta al fresco nei grandi
alberghi, dove le notizie arrivano senza che si debba faticare
troppo. Abituati ad analizzare senza esporsi troppo i nostri grandi
giornalisti sono diventati esperti in previsioni che cucinano nelle
hall degli Sheraton e degli Hilton, nelle quali prevedono scenari
che quasi sempre non si realizzano. È raro trovarli accanto agli
scenari di guerra, al seguito di eserciti americani o inglesi che
liberano l'Iraq, per esempio. Molto meglio il bar di un lussuoso
albergo. Più tranquillo, più sicuro.
È così che veniamo disinformati da inviate
televisive in Chador, da inviati i cui resoconti, ideologicamente già
preconfezionati, non faranno altro che ripeterci che americani e
israeliani stanno sbagliando tutto, che per sapere come vanno
realmente le cose è meglio chiederlo a Gino Strada o a qualcuno fra
i tanti esponenti pacifisti che adesso avremo il piacere di
ascoltare anche dalla tribuna del parlamento europeo.
Se le parole coraggio e giornalismo si potessero
abbinare, fondere, ne verrebbe fuori per primo un nome, quello di
Fiamma Nirenstein. Andata a vivere in Israele dagli inizi degli anni
'90, è per merito delle sue cronache che si riesce a far breccia in
quella montagna di rifiuti giornalistici che invadono gran parte
della stampa italiana. Professionalità e coraggio, dicevamo, grazie
ai quali non c'è vicenda mediorientale che non sia stata raccontata
da questa straordinaria testimone con lucidità, chiarezza ed
equilibrio.
Dalla sua casa di Gerusalemme, sulla collina del
quartiere di Ghilo, circondata da pile di libri, giornali,
telegiornali sempre in funzione, telefonate da ogni parte del mondo,
Fiamma Nirenstein ha pubblicato il suo ultimo libro ("Gli
antisemiti progressisti" ed Rizzoli €18,50), che riconferma
ancora una volta quella qualità che, oltre all'intelligenza,
possiede a dismisura, il coraggio. In un mondo che pronuncia con
malavoglia la parola antisemitismo, come se non proferendola se ne
potesse eliminare la presenza, che preferisce non uscire dai
confini, dall'ambito della Shoah, quasi a voler dire: è là che è
successo, oggi è tutto finito, mentre invece chi non è antisemita
sa che non è vero. In più accostandola alla parola
"progressisti", rompendo così il tabù della sinistra che
tutto può permettersi, anche l'antisemitismo, che le verrà
perdonato nel nome delle truppe sovietiche che entrano ad Auschwitz,
Fiamma Nirenstein consente ai lettori, disinformati,frastornati,
tempestati da immagini e notizie sovente manipolati, di capire una
verità molto semplice.
L'antisemitismo nazista oggi ha un nome nuovo,
anche se la radice della mala pianta è sempre la stessa, è
l'antisemitismo arabo, islamista, pacifista, anti occidentale, anti
americano e anti israeliano. Il suo libro ci fa capire come Israele
sia soltanto una scusa, un pretesto da brandire come una clava, per
tentare di finire, come dice la propaganda terrorista araba, il
"lavoro interrotto di Hitler". Non è il conflitto
israelo-palestinese ad essere in gioco, come vogliono farci credere,
è l'odio antico contro gli ebrei che grazie alla viltà, alla
complicità di un occidente che perso ogni sua identità, rischia
oggi di far saltare in aria gli ebrei là dove hanno ricostruito il
loro Stato.
Attaccandolo fino al punto di metterne in dubbio
la legittimità Il libro di Fiamma Nirenstein non usa eufemismi, va
dritto al cervello e al cuore, non fa sconti nel momento in cui
ricostruisce con accuratezza encomiabile gli avvenimenti di questi
ultimi anni. Leggere "Gli antisemiti progressisti" è
indispensabile se si vuole capire quel che ci sta per arrivare
addosso, addosso proprio a noi che viviamo in un' Europa che troppo
sovente sta dalla parte di chi vuole distruggerci. Che ci dimostra
come capirne le ragioni e difendere Israele sia equivalente alla
lotta contro il terrorismo che minaccia anche noi.
Chiedo scusa ai lettori per questa recensione così
poco ortodossa, ma ho voluto sottolineare di questo libro l'aspetto
storico- politico, che mi sembra del tutto eccezionale. Certo, nel
libro ci sono tutti i racconti "dal vivo" che hanno
guadagnato a Fiamma Nirenstein fama e affetto, il raccontare Israele
come solo lei è capace di fare. Una lettura che non riuscirete ad
interrompere e che vi emozionerà.
Edoardo Castagna su
Avvenire del 26 giugno 2004 torna
su
Si maschera sotto l’etichetta di «antisionismo»,
si trincera dietro il diritto di criticare Israele. Ma per Fiamma
Nirenstein quello che negli ultimi anni sta prendendo piede è
antisemitismo bell’e buono. In Gli antisemiti progressisti. La
forma nuova di un odio antico (Rizzoli, pagine 394, euro 18,50)
la giornalista mette in evidenza come la storica avversione contro
gli ebrei non si sia affatto dissolta dopo la Shoah. Zittito a
destra, l’antisemitismo risorge a sinistra tra intellettuali, Ong,
"pacifisti" e partiti. La sinistra, osserva la Nirenstein,
dopo la Seconda guerra mondiale aveva stretto un’alleanza con gli
ebrei. La Shoah era venuta da destra, e nella commemorazione si
incrociavano i bisogni della memoria ebraica e quelli della lotta
politica della sinistra. Ma lo Stato di Israele mise in crisi questo
schema: «Il "nuovo ebreo", che cerca di non soffrire e
che, soprattutto, può e vuole difendersi, perde immediatamente
tutto il suo fascino agli occhi degli intellettuali di sinistra».
Se perdono il loro ruolo tradizionale di monito vivente contro la
barbarie della destra, gli ebrei diventano –insieme agli Stati
Uniti – l’emblema dell’incapacità europea di affrontare i
propri mali: «Se agli ebrei non sarà mai perdonato di essere stati
fatti a pezzi nella Shoah, agli americani non verrà mai rimesso il
peccato di aver salvato l’Europa da se stessa». Una duplice
avversione che converge nelle corali condanne della guerra al
terrorismo qaedista e palestinese. Tanto per l’opinione pubblica
musulmana quanto per i circoli intellettuali liberal, il
terrorismo è sì male, ma anche il figlio necessario
dell’oppressione imperialista di Israele e Stati Uniti. Fiamma
Nirenstein ribatte punto su punto agli argomenti di chi ribalta i
ruoli degli aggressori e delle vittime, osservando tra l’altro che
della miseria e del degrado dei Paesi islamici siano responsabili in
primo luogo le satrapie locali e non l’Occidente; e inoltre come
miseria e degrado non bastino da soli a generare il terrorismo, ma
occorre una cultura che lo fomenti. L’islam radicale di oggi è
questa cultura, imbevuto di culto della morte come i movimenti
fascisti europei del Novecento. I media occidentali riflettono
questo risorto antisemitismo: l’informazione sul conflitto in
Israele risulta sistematicamente distorta. Si sorvola sulle origini
della guerra e sul ruolo dei campi profughi come base per gli
attentati; si indugia sulle sofferenze dei palestinesi e si trascura
la battaglia quotidiana dei cittadini di Tel Aviv, che
coraggiosamente continuano a prendere i bus e ad andare al
ristorante. Quando si riferisce delle incursioni a Gaza o in
Cisgiordania si privilegiano le fonti palestinesi, anche rischiando
di edificare falsi colossali. Come per la battaglia di Jenin
dell’aprile 2002, descritta come un massacro indiscriminato di
civili inermi con cinquecento, mille morti. Poi emerse che i caduti
palestinesi furono 54, di cui 52 armati, e quelli israeliani 23. Ma
nella memoria si era già registrata la «Strage di Jenin».
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