Da Informazionecorretta del 1° agosto 2004
Introduzione da "Informazionecorretta"
Gli
ebrei di Francia e l' "assedio" della rabbia araba (La
Repubblica dell' 1.08.2004)
Introduzione da "Informazionecorretta"
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A pagina 1 di La Repubblica del 1° agosto 2004, Bernard Guetta firma un
reportage sull'antisemitismo in Francia dal titolo «Gli ebrei di Francia e l'
"assedio" della rabbia araba»
La chiave interpretativa
del fenomeno proposta dall'articolo, interessante e ricco di
informazioni, ci sembra falsata. Concentrandosi su considerazioni
socio-economiche e concedendo uno spazio eccessivo alle tesi
giustificazioniste di Leyla Shahid, rappresentante dell'Autorità
palestinese a Parigi, non tiene conto del ruolo dell'ideologia islamista
e antisionista, dell'incessante propaganda che le televisioni
satellitari arabe trasmettono in tutto il mondo. Una propaganda che
presenta gli ebrei come dediti a omicidi rituali o a complotti per
dominare il mondo. E che spesso trova un'eco, certamente attenuata, e
una conferma, per chi è in cerca di conferme, nel modo unilaterale e
fazioso con cui i media, anche in Francia, presentano il conflitto
arabo- israeliano.
Marginalmente, occorre poi notare che è sbagliato attribuire a Sharon
l'accusa a tutti i musulmani di Francia di essere antisemiti. Che gli
episodi di antisemitismo vengano prevalentemente da quel 10% della
società francese è un dato di fatto, affermato da tutte le inchieste
sul tema e anche da quella di Guetta. Che, detta dal premier israeliano,
questa verità diventi un'affermazione razzista, ci pare un chiaro
esempio di parzialità.
Ecco il pezzo:
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È francese e i suoi genitori, ebrei arrivati da Salonicco negli anni
´20, l´avevano chiamata con orgoglio Françoise. Essendo atea, ha
rifiutato che i suoi figli fossero circoncisi. Di sinistra, prova
avversione per Ariel Sharon e ciò nonostante la settimana scorsa, alla
fine di un pranzo in famiglia, ha improvvisamente detto ai suoi figli:
«Forse dovremmo smetterla di criticare Israele... potrebbe essere il
nostro solo rifugio». I figli l´hanno guardata sconcertati: «Parli di
rifugio... ma rifugio da che?». Lei, esitante e imbarazzata, ha
risposto: «Non mi piace quest´atmosfera. Non vorrei morire sapendovi
in pericolo».
Sarà paranoia? Forse, senza dubbio, ma se è così, allora si tratta di
qualcosa condiviso da molti dei 600mila ebrei di Francia, vecchi e
giovani, di destra e di sinistra, religiosi o voltairiani, avversari o
sostenitori dell´attuale governo israeliano. Non si tratta di panico,
neppure di paura, eppure l´inquietudine la si avverte, perché i fatti
parlano da soli.
Fin dai banchi di scuola, fin dalle elementari, in Francia si registra
un incremento d´azioni antisemite, gesti di violenza vera e propria o
semplici insulti. I loro autori, nel 70% dei casi, sono giovani
provenienti dall´immigrazione maghrebina, da una popolazione molto
diversa che tuttavia oggi conta quasi 5 milioni di persone.
Sono episodi accertati, indiscussi. Sono talmente ben noti al paese e ai
poteri pubblici che quando all´inizio di luglio un´affabulatrice in
vena di protagonismo ha dichiarato che alcuni delinquenti di origine
nordafricana se l´erano presa con lei e con il suo bambino perché
avevano creduto che fosse ebrea, la Francia è stata travolta dall´angoscia
e dalla vergogna.
Il ministro degli Interni e il presidente della Repubblica sul momento
sono rimasti sconvolti e nei due giorni successivi l´episodio ha fatto
da apertura alle prime pagine dei giornali, se ne sono occupate le radio
e le televisioni, ha scatenato una sfilza di dibattiti e un collettivo
esame di coscienza perché, in fondo, tutto in quella menzogna
corrispondeva alla realtà.
È ordinario che i figli di immigrati seminino il terrore in un treno
della banlieu, scegliendo una vittima a caso mentre sul vagone tutti i
presenti guardano altrove. La borsa svuotata sotto minaccia è la regola
in questo genere di infortuni. I giovani malviventi che si scatenano
perché scoprono un indirizzo dei quartieri alti e ne deducono di avere
a che fare con un´ebrea, anche questo era plausibile. In quanto a ciò
che ne è seguito - le croci uncinate tracciate sul ventre della madre,
i suoi capelli presi a sforbiciate, il passeggino rovesciato, il bambino
che rotola su una banchina - tutto ciò rievocava le retate e le leggi
antiebraiche del regime di Vichy, l´antisemitismo della destra francese
di prima della guerra che odiava gli ebrei, considerandoli alla stregua
di quella Repubblica che li aveva emancipati, quell´"infame"
che aveva deposto la monarchia e separato la Chiesa dallo Stato.
Marie-Léonie, questo il suo nome, ha avuto un colpo di genio. Nello
specchio che ha proteso ai francesi, essi hanno potuto discernervi al
tempo stesso il loro presente e il loro passato. Cosa ancora peggiore, i
francesi hanno visto passato e presente fondersi in un tutt´uno, il
vecchio antisemitismo europeo e l´inedita giudeofobia arabo-musulmana,
in questo scenario francese che potrebbe diventare tragico - e che forse
già lo sta diventando - e che ad ogni buon conto minaccia l´unico
paese europeo nel quale convivono così tante persone di discendenza
ebrea e musulmana.
Il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif)
compila e tiene aggiornato un elenco di tutti gli incidenti che sono
stati riportati. Nel 2002, 516 casi di violenza, insulti o minacce. Nel
2003, 504 casi. Nel primo semestre del 2004, in soli sei mesi, 370
episodi.
Come dice Nonna Mayer, specialista di inchieste sul razzismo, i dati
parlano da soli. Nel decennio scorso, il picco si raggiunse con 390
episodi nel 1990, anno contrassegnato da un declino della causa
palestinese e dalla costituzione della prima coalizione contro Saddam
Hussein.
In questo decennio, quello degli accordi di Oslo, il numero delle
violenze contro gli ebrei in Francia si avvicina allo zero e quello
delle minacce scende al di sotto dei cento casi, ad eccezione del 1994,
anno nel quale il processo di pace conosce i suoi primi insuccessi. Poi
arrivano l´anno 2000, la seconda Intifada, l´interruzione del dialogo
israelo-palestinese. Allora il ministro degli Interni calcola 743 casi
di minacce e violenze antisemite prima di arrivare a registrarne
definitivamente ben 932, quasi il doppio di quelli registrati dal Crif,
nel 2002, il momento più duro del braccio di ferro tra Sharon e Arafat
che molte famiglie di origine magrebina seguono dalle televisioni arabe.
È la cronologia del Medio Oriente a tracciare l´impennata delle azioni
antisemite in Francia.
Alcuni giovani appartenenti all´immigrazione araba si identificano con
i palestinesi e credono di solidarizzare con loro prendendosela con gli
ebrei di Parigi, Marsiglia e Lione, ma, premesso tutto ciò, si inizia a
discutere delle varie interpretazioni possibili. È opportuno parlare di
"antisemitismo", rischiando di confondere la situazione
odierna con quella degli anni Trenta? «No» risponde categorica Leyla
Shahid, rappresentante dell´Autorità palestinese a Parigi e intima
conoscitrice del mondo arabo e di quello ebraico in Francia. «È vero:
nei ghetti dell´immigrazione si diffonde l´odio antiebraico. Non
soltanto, però, questo non ha nulla a che vedere con il vecchio
antisemitismo europeo - aggiunge immediatamente - ma inoltre ciò su cui
si basa questo sentimento più che essere simpatia per i palestinesi, è
disperazione sociale, la sensazione che gli ebrei, loro, non siano
vittime dei pregiudizi che colpiscono invece gli arabi».
Già, non è certo un segreto: in Francia un arabo stenta davvero a
farsi assumere, ad affittare un monolocale o a entrare in un locale
notturno. Un ebreo no. «La buona notizia - sostiene Nonna Mayer - è
che in Francia tutte le forme di razzismo sono in calo. La cattiva
notizia, però, è che gli arabi e in minor misura anche i neri,
rimangono molto più emarginati rispetto agli ebrei».
I rebeux (gli arabi in verlan, il gergo con l´inversione di sillabe che
le banlieues hanno fatto diventare di moda) ne risentono tanto più
fortemente perché gli ebrei francesi con i quali sono in contatto,
quelli che vivono nelle loro stesse città, che provengono come loro
dall´Africa del Nord, le cui famiglie sono arrivate in Francia nel
medesimo periodo delle loro - nel periodo della decolonializzazione - e
che amano la stessa musica, mangiano gli stessi cibi e sono tutti più
mediterranei, da un punto di vista culturale e fisico, del resto dei
céfrans, come vengono chiamati in verlan i francesi.
All´inizio non c´erano problemi, anzi poteva quasi definirsi una
fratellanza, poi il divario si è ingigantito perché gli arabi erano
stati il nemico della Francia nella guerra di Algeria - non gli ebrei -
e perché nelle famiglie arabe, non in quelle ebree, le madri di
famiglia erano incapaci di seguirli nei compiti non essendo padrone
della lingua francese. I primi hanno fatto dei buoni studi, i secondi
studi meno buoni o niente affatto. I loro destini si sono separati. Nei
ghetti la disoccupazione non smette di aumentare: ormai sfiora il 40 per
cento e quando gli attentati dell´11 settembre hanno messo sotto accusa
il mondo arabo-musulmano, il bisogno di allontanare da sé quei sospetti
è stato tale che i deliri sul complotto "giudeo-crociato" e
sugli impiegati ebrei delle Twin Towers che sarebbero stati avvisati di
non andare al lavoro quella mattina hanno attecchito nell´immigrazione
maghrebina, facendo gravi danni.
All´inizio, ci fu dunque questa sorta di fratellanza spezzata, questa
«invidia dalle parvenze di Palestina» di cui parla Leyla Shahid.
D´accordo. Ma adesso, in conclusione, quale altra parola impiegare se
non antisemitismo? Il problema è che si tratta di una
parola-contenitore, straboccante di Storia, che impedisce di analizzare
il presente. Perfino degli sociologi meticolosi e desiderosi di
insistere sulle radici socio-economiche del fenomeno, quali Michel
Wieworka e Didier Lapeyronnie, non hanno esitato a parlare il primo di
una «terribile liberazione della parola antisemita», l´altro di un
«antisemitismo ormai parte del linguaggio quotidiano». Ebreo (in
francese juif), in verlan si dice feuj e per i giovinastri dei ghetti
tutto ciò che è malvagio, antipatico o non funzionante, un film come
un compagno di classe o una penna, è feuj.
Nipote di un rifugiato tedesco, Florençe è molto impegnata nelle
associazioni della comunità ebraica. Il suo paese è la Francia, non
Israele. Non le è piaciuto che Ariel Sharon descrivesse la Francia, tre
settimane fa, come una terra di «antisemitismo incontrollato» e,
soprattutto, non può perdonargli di aver accusato collettivamente «il
10 per cento circa della popolazione» che è musulmana. Non solo ella
ne è stata sconvolta, al pari della quasi totalità degli ebrei di
Francia, ma definisce lei per prima gli immigrati arabi come una
«popolazione devastata», «vittima di discriminazione» e di cui è in
grado di comprendere «il risentimento».
«Capisco tutte le loro difficoltà, ma perché tocca sempre a noi, gli
ebrei, pagarne il prezzo, pagare per il colonialismo, per
l´emarginazione degli immigrati, per l´insuccesso dell´integrazione?»
si chiede Françoise. Anche questo non accetta, perché «qualcosa sta
finendo con l´attecchire. Molti ebrei ormai hanno paura, soprattutto i
più svantaggiati e occorrerà del tempo per porre rimedio ai guasti che
si cono creati, qualsiasi cosa dica o faccia la Repubblica».
È vero. Si tratta di un circolo vizioso. In questi tempi di austerità
di budget, la vera risposta a questa crisi, questo "Piano Marshall
per i ghetti" che i sociologi reclamano a gran voce, sarebbe
difficilmente proponibile agli elettori. Non restano che le parole, ma
quanto più i poteri pubblici denunciano l´antisemitismo, tanto più
gli immigrati arabi si domandano per quale motivo la Repubblica non
nutra altrettanta sollecitudine nei loro confronti. Più si propaga nei
ghetti questo interrogativo, più si rafforza il loro antisemitismo.
Meno gli ebrei di Francia si sentono sicuri per il loro avvenire, più
rimbomba nelle loro orecchie il monito di Ariel Sharon.
Non è un incendio, ma le braci sono accese. Il ministro degli Interni
non nasconde la sua inquietudine: «Cerchiamo un dialogo» ha detto.
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