Ci
sembra pertinente, per completare il quadro, questa intervista che
riporta gli echi della visita e dei gesti simbolici compiuti da
Giovanni Paolo II in terra Santa, nel marzo del 2000. Vi riconosciamo
- vi accenna anche Wiesel - il mistero di un nuovo «inizio»
Dieci giorni fa Giovanni Paolo II si
recava a Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme,
cos'ha provato?
Ho visto sullo schermo un uomo
vulnerabile, debole, emozionato, molto emozionato ed era
talmente emozionato che lo ero anch'io. Toccato nel vederlo
là. Allora mi sono detto: ecco, è un miracolo, un miracolo
umano. Talvolta la storia produce questi momenti, momenti
speciali. Sapete, la vita non è fatta di anni, ma di momenti
e questo momento resterà.
Esattamente una settimana fa, lo
stesso Giovanni Paolo II si trovava davanti al muro delle
Lamentazioni. Egli fa scivolare in una delle fessure del muro
una preghiera, la preghiera di pentimento che, dieci giorni
prima, aveva pronunciato a Roma. Pentimento faccia a faccia
con il popolo dell'Alleanza e con i torti causati al popolo
dell'Alleanza. Si tratta della fine di un contenzioso tra Ebrei e
Cristiani?
Diciamo l'inizio di un grande
dialogo, di un dialogo molto grande che ora continuerà, non
soltanto a questo livello ma, io spero, a tutti i livelli,
perché, se ci si ferma a questo capitolo, ci si dimentica e non
bisogna dimenticare. Bisogna che tutto ciò non avvenga a
scapito della memoria. Al contrario, bisogna arricchire la
memoria, bisogna approfondire tutto questo e farne un'azione di scambio.
Ora, io penso che tutto sarà diverso, ed è certo che sarà diverso
a partire da ora.
Si può
parlare, come certi hanno detto, d'una nuova era nelle
relazioni ebraico - cristiane, dal momento che restano sicuramente
ancora degli ostacoli, dei malintesi? Lei come si pone?
Sì, tutto ora dipende da ciò
che sta accadendo in Vaticano ed altrove, ma sono convinto che
lui, questo Papa, resterà come un grande Papa. Innanzitutto
perché i rapporti, le relazioni tra Ebrei e Cristiani non
sono mai state così buone, così feconde, così generose, così
aperte, così umane. E questo lo si deve a questo Papa ed
anche, sicuramente, non bisogna dimenticarlo, a Giovanni XXIII
che era senza dubbio colui che, col suo cuore e la sua ragione
e tutto il suo essere, aveva aperto la Chiesa perché gli altri
guardassero all'interno, ed in senso inverso. Dunque, questi
due Papi resteranno dei grandi, molto grandi Papi. Ciò
continuerà? Lo spero molto, è necessario.
E cosa rispondete a coloro che
affermano, in certi ambienti ebrei, che la Chiesa, il Papa,
non sono ancora andati abbastanza lontano?
Lontano? Da dove? Se si paragona Giovanni
Paolo II ad altri Papi come Pio XII o lo stesso Paolo VI che
è venuto in Israele, - è rimasto undici ore in Israele senza
mai pronunciare la parola «Israele» - dunque, quand'anche...
Bisogna sapere da dove si proviene! Questo Papa prima di tutto
aveva riconosciuto Israele. Questo Papa aveva organizzato un
concerto ed una commemorazione dell'Olocausto in Vaticano.
Questo Papa che parla contro
l'antisemitismo e contro l'oblio. È un Papa diverso. Cosa si
vuole di più? Che egli avesse chiesto perdono? Egli ha
chiesto perdono. Egli non ha menzionato l'olocausto, forse lo
avrebbe dovuto, ma penso che era talmente emozionato che era
semplicemente la sua anima che parlava, il suo cuore che
parlava, e ora bisogna rispettare quest'uomo. Io, guardandolo,
ho avuto un moto d'affetto per questo Papa e quindi, voglio
essere sincero, all'inizio del suo pontificato, avevo dei
dubbi. Perché? Perché andando ad Auschwitz per la prima
volta come Papa, in tutte le sue omelie, mai appariva la parola «ebreo» e poi ha celebrato una messa - non conosco molto
bene la religione cristiana, ma so che la messa fa parte degli
aspetti più sacri della liturgia cristiana. Allora, una messa
ad Auschwitz, per le vittime di Auschwitz, è un po' troppo. A
mio parere avrebbe dovuto chiedere ad un rabbino di venir lì
e dirgli: voi dite il Kadish per gli Ebrei e io
dirò questa messa per tutti gli altri. Avevo dei sospetti,
ebbene! no, egli è molto cambiato, è cresciuto, si è
elevato.
Lei constata
questa evoluzione, diciamo dal lato cristiano e cattolico.
Dall'altro lato, dal lato ebreo, se questa dialettica ha un
senso, ci sono forse delle iniziative da mettere in atto, o
anche dei passi che portino oltre?
Quando ero giovane non conoscevo nulla del Cristianesimo,
salvo la paura che mi ispirava. Andando da casa mia a Sighet o
in sinagoga, cambiavo marciapiede per non passare vicino alla
chiesa. Avevo paura della chiesa perché non ne conoscevo
nulla. Conoscevo soltanto le crociate, conoscevo
l'Inquisizione, ma non il resto. Ora si conosce molto e
bisogna conoscere di più, dunque il dialogo, a questo
livello, deve ripercuotersi ad altri livelli. Bisogna che noi,
Ebrei, sappiamo anche cos'è il Cristianesimo. Ciò non
significa che devo cambiare religione, nessuno mi convertirà,
io resterò ebreo; ma ciò che è necessario sopra ogni cosa, è
parlare con rispetto l'uno all'altro e l'uno dell'altro.
La Chiesa,
quest'anno, vive un grande Giubileo ispirato ad una tradizione
ebraica. Cosa esso può apportare?
Nulla agli
Ebrei, in verità, perché nella nostra tradizione il
calendario è diverso. Il nostro anno ora, è il 5760 e non il
2000. Ma è bene che si celebri l'inizio, io adoro gli inizi,
il mistero del principio, è ciò che mi ha sempre
colpito. Sapete che il misticismo ebraico è ancorato nel
mistero dell'inizio, allora è bene che i nostri amici
cristiani lo facciano ma per noi non è questo.
Se c'è un
ravvicinamento tra Ebrei e Cristiani, quale potrebbe esserne
il significato per il mondo?
Dire che il
cammino verso D-o passa attraverso l'altro, D-o solo è
solo. Io vivo con gli altri; perché io mi avvicini a D-o,
bisogna che mi avvicini al mio simile, chiunque sia questo
simile e da ovunque egli venga.
Qual è la
sua speranza per questo secolo, questo millennio?
Che la fede
sia una fede vera e generosa e non una fede che isola.
_________________
[Fonte: Jean-Marie GUÉNOIS, per La Croix, New York 3 aprile 2000 -
Traduzione dall'originale francese a cura della redazione di LnR]