Lei scrive di personaggi come Abramo e Mosè, che sono stati
punti di riferimento per miliardi di persone in migliaia di anni.
Eppure sono tutti uomini pieni di difetti: perché abbiamo scelto dei
modelli così limitati?
«Ambire alla perfezione divina era impossibile. Nella nostra
tradizione, invece, essere profondamente umani vuol dire anche essere
santi. I loro difetti, poi, dimostrano a tutti che possiamo superare i
nostri limiti».
Lei mostra comprensione per i loro errori, dalla moglie di Lot che si
gira a guardare la distruzione di Sodoma e diventa una statua, a
Sansone che sarà pure un donnaiolo, ma è anche il primo e più
efficace «agente segreto» del popolo ebraico. Perché tanta simpatia
per chi sbaglia?
«Sono comportamenti più naturali. Era ovvio per una madre voltarsi a
guardare la fine dei suoi figli; piuttosto è incomprensibile e
inumano Lot, che obbedisce e non lo fa. Sua moglie così diventa il
simbolo della memoria, un elemento essenziale della nostra
esistenza».
La questione della memoria è particolarmente importante per
tutti i sopravvissuti dell'Olocausto come lei. C'è il rischio di
perderla?
«Senza dubbio. Basta notare che un attore, come è successo, può
salire sul palco a ritirare un premio e ringraziare Hitler, perché è
risultato così divertente nel suo spettacolo. La trivializzazione, la
commercializzazione, sono tutte minacce che minano la nostra memoria.
Prendono un concetto unico legato ad un evento unico e lo degradano,
fino a farne un episodio come tanti altri».
Parlando di Abramo, Isacco e Ismaele, lei scrive che se non
fosse stato per lui, il figlio della schiava Hagar, forse non avremmo
avuto il conflitto tra ebrei e arabi.
«È vero, perché Ismaele è riconosciuto dai musulmani come un
loro fondatore. Se avesse avuto un rapporto diverso con Isacco, forse
anche la storia sarebbe cambiata».
Vuol dire che già nella Bibbia esiste un senso di
inevitabilità del conflitto?
«Non mi spingerei così lontano. Sono passati molti secoli, e
adesso le ragioni dello scontro stanno nella politica e nell'economia,
ancora più che nella religione».
Eppure, alla fine della storia, Ismaele ritorna per presenziare
al funerale del padre Abramo: possiamo leggerci l'inevitabilità
biblica della riconciliazione?
«Dobbiamo. È troppo pericoloso permettere a dei kamikaze non solo
di distruggere un processo di pace come quello in Medio Oriente, ma di
minacciare il mondo intero. Perché la violenza terroristica degli
ultimi anni non riguarda solo gli ebrei, ma è un piano globale».
Abramo e Mosè erano riconosciuti come profeti anche dai
musulmani, e migliaia di anni fa rappresentavano un punto di contatto
tra le nostre culture: cosa è successo nel frattempo, che ci ha
portato a discutere di scontro tra le civiltà?
«Nessuno lo sa. Perché proprio ora? Avete sentito il presidente
della Malaysia? Durante la conferenza dei paesi islamici ha lanciato
in pratica un appello a spazzare via gli ebrei. Come si fa a dire una
cosa simile? Io penso che la questione ebraica sia un pretesto usato
dagli estremisti: in fondo l'11 settembre non aveva molto a che vedere
con Israele, ma soprattutto con gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita.
Piuttosto ho la sensazione che l'odio di oggi sia un'altra ricaduta
dell'odio della Seconda Guerra Mondiale, con tante conseguenze anche
sul piano sociale, da avere ancora un fall out nucleare nel fanatismo
e nell'odio. Uno degli ultimi attentati a Gerusalemme è stato
compiuto dall’imam di Hebron, un padre di famiglia che si è ucciso
per uccidere. Perché lo ha fatto? Per essere un esempio. E perché
tutto questo odio? Non lo capisco. Ci saranno molti elementi, dalla
povertà alla disperazione. Ma l'odio è la soluzione più facile ai
problemi, semplifica tutto. Chi odia sa perfettamente cosa fare:
l'odio è un'ossessione che acceca tutti, assassini e vittime».
Condivide l'idea dello scontro fra le civiltà?
«No, la considero una generalizzazione. Tra le motivazioni del
fanatismo c'è tutto: politica, economia, filosofia, oltre che
religione. Ogni cosa sembra spingere verso il fanatismo. Non so come
sia possibile combatterlo, ma so che qualunque sia la risposta,
l'istruzione e l'educazione dovranno esserne una componente
fondamentale».
Raccontando la storia di Esaù e Ietro, lei dice che bisogna
capire la violenza presente nella Bibbia, perché essa caratterizza
tutti i momenti in cui comincia qualcosa di nuovo e si passa dal
vecchio ordine al successivo. Oggi viviamo in un'epoca violenta
perché stiamo attraversando un'altra fase di cambiamento?
«La violenza viene quando perdiamo il nostro linguaggio, ed essa
diventa il linguaggio. Oggi c'è un fallimento della comunicazione:
parliamo in continuazione, ma non sappiamo cosa dire. Dovremmo riunire
i popoli e le nazioni per farli dialogare: forse questo scambio
continuo allontanerebbe la violenza».
E cosa dovremmo dirci?
«Che l'odio è contagioso. Perché quando una persona odia, ce
l'ha con tutti e con se stesso, e trasmette questo sentimento negativo
a chiunque ne diventi oggetto. Se potessimo trovare le parole giuste,
molte catastrofi sarebbero evitabili. Ma noi cerchiamo sempre la
soluzione più facile. Non abbiamo più la pazienza di pensare e
ragionare. Tutto deve essere istantaneo: gratificazione istantanea,
filosofia istantanea».
Raccontando la storia di Isaia, lei scrive che quando pensiamo
alla pace, pensiamo a lui. Perché dovremmo ricorrere ad un profeta
vissuto migliaia di anni fa? Oggi non ci sono più uomini saggi, non
ci interessano, oppure non sappiamo riconoscerli?
«Io ricorro ad Isaia per il linguaggio: nessuno, da allora in poi,
ha scritto con la stessa forza. Una sua frase basta a scuoterti
perché contiene un destino. Oggi non c'è più fiducia in chi parla,
perché tutti sospettano l'esistenza di secondi fini. Gli antichi
profeti, invece, fronteggiavano i re senza timore e senza agende
personali. Io cerco nel mondo voci morali, persone capaci di farti
fermare per ascoltarle. Ma quando chiedo ai miei studenti di indicarmi
chi ammirano, non sanno rispondermi. Gandhi, Martin Luther King,
personaggi con quella forza non ci sono più. Forse perché servono
intere generazioni per costruire simili caratteri. I politici, poi,
invece di guidare seguono i sondaggi: siamo governati dai sondaggi.
Voglio scrivere un libro in cui due o tre pollster si riuniscono in
una stanza e ordiscono una cospirazione per governare il mondo:
potrebbero farlo».
In questo genere di mondo lei scrive un libro dedicato alle
antiche scritture, e quindi alla comunicazione tra Dio e gli uomini:
crede ci sia ancora interesse per Dio?
«Per me sì. Questi sono i miei libri favoriti, che mi aiutano
anche a ricostruire la mia infanzia. Ma credo che ci sia un bisogno di
spiritualità diffuso. Magari è una religiosità vissuta più a
livello personale, perché nel secolo scorso le religioni organizzate
hanno fallito, ma esiste».
A quali religioni si riferisce?
«Tutte. Anche il fascismo e il comunismo, con il loro linguaggio e
i rituali, non erano religioni?».
Lei pensa che trovando le parole giuste per comunicare potremmo
risolvere i problemi della nostra era, colmando i vuoti di
comprensione con la cultura islamica?
«Certo. C'è il fanatismo, eppure questo è il momento migliore della
storia nel dialogo tra cristiani ed ebrei. Dobbiamo ringraziare le
aperture ecumeniche di Giovanni XXIII, confermate anche da Giovanni
Paolo II. Da allora in poi sacerdoti, rabbini e laici hanno iniziato
ad incontrarsi ovunque. Però abbiamo commesso tutti un grave errore:
ci siamo dimenticati dell'Islam, che avremmo dovuto includere subito
come partner nel dialogo. È troppo tardi, ora, per affermare che
siamo tutti figli di Dio? Non lo so, ma spero di no».