La politica
medio-orientale della Santa Sede ha seguito per molto tempo linee
ben definite, caratterizzate da alcuni obiettivi chiaramente
identificati.
Negli ultimi anni però gli equilibri complessivi di tutto il Medio
Oriente sono stati modificati dallo sviluppo del radicalismo
islamico, dall’allontanamento delle speranze di risolvere
pacificamente il conflitto israelo-palestinese e, più radicalmente,
dalle scelte compiute dal governo degli Stati Uniti in risposta agli
eventi dell’11 settembre 2001.
Non è soltanto questione dell’intervento militare in Afghanistan
ed in Iraq e dell’appoggio sempre più incondizionato prestato
dall’amministrazione Bush alla politica del premier israeliano
Ariel Sharon: queste iniziative si inquadrano infatti in un disegno
molto più ambizioso, che ha l’obiettivo dichiarato di combattere
il terrorismo internazionale rovesciando (con l’uso preventivo
della forza, se necessario) i regimi dittatoriali del Medio Oriente
e sostituendoli con governi democratici.
È troppo presto per sapere se questo progetto americano avrà
successo: ma con esso (e con gli altri fattori che hanno modificato
il quadro medio-orientale) la politica del Vaticano deve fare i
conti, valutando se la strategia seguita fino ad ora per raggiungere
i propri obiettivi richiede di essere corretta in seguito ai
mutamenti avvenuti.
I TRE
OBIETTIVI CHE HANNO FIN QUI CONTRADDISTINTO LA POLITICA VATICANA IN
MEDIO ORIENTE
1. Il primo obiettivo della politica medio-orientale della Santa
Sede è stato ed è quello di mantenere e consolidare la presenza
delle comunità cristiane, in particolare cattoliche, nei luoghi
dove il cristianesimo ha avuto inizio.
Le memorie della vita di Cristo e delle prime Chiese cristiane,
attestate dai luoghi santi sparsi in tutta la regione, conferiscono
a questo obiettivo un’importanza che trascende la modesta
consistenza numerica dei cattolici, di rito latino od orientale,
residenti in Medio Oriente. La posta in gioco è molto più alta: si
tratta infatti di mantenere intatto il filo che collega le odierne
comunità cristiane a quelle delle origini.
Ormai da molti secoli la salvaguardia della presenza cristiana in
Medio Oriente passa attraverso il riconoscimento della propria
condizione di minoranza e lo sviluppo di forme di coabitazione con
la maggioranza musulmana e, in Israele, ebraica.
Nell’epoca recente il modello ideale di coabitazione è stato
individuato nel Libano, dove l’equilibrio numerico tra cristiani e
musulmani garantiva la parità dei cittadini appartenenti alle due
comunità e consentiva l’instaurazione di un sistema politico con
componenti democratiche più sviluppate di quelle che esistevano in
molti altri paesi della regione.
Ma si trasttava di un’eccezione non riproducibile negli stati dove
i cristiani sono in netta minoranza: qui la Santa Sede accetta il
regime del “millet” – e quindi l’applicazione di statuti
giuridici diversificati in nome dell’appartenenza religiosa – ma
rifiuta quello della “dhimmitudine” almeno in linea di
principio, in nome dell’uguaglianza dei diritti civili e politici
spettanti ad ogni cittadino.
Il progetto, caro a metà Novecento a una minoranza araba di
formazione occidentale, di ripensare i sistemi politici dei paesi
mediorientali sulla base del principio di laicità non ha mai
trovato grande favore presso la diplomazia pontificia, convinta dell’impraticabilità
di trapiantare dall’una all’altra sponda del Mediterraneo una
nozione che la maggioranza della popolazione araba sente estranea
alla propria storia e cultura.
A partire dal 1948 un analogo problema di coabitazione si è posto
in relazione alla popolazione ebraica che costituisce la maggioranza
nello stato di Israele. Ma in questo caso il problema, che in
passato è stato complicato da considerazioni teologiche sulla
legittimità della ricostituzione di uno stato ebraico in Terra
Santa, presenta caratteri differenti: non esiste infatti una
comunità ebraico-cristiana che abbia storia, consistenza e
struttura analoghe alle comunità arabo-cristiane dei paesi
circostanti. La debolezza di una comunità cristiana di espressione
ebraica rappresenta un elemento di squilibrio che si ripercuote
inevitabilmente anche sulla politica vaticana.
2. Il secondo obiettivo dell’azione diplomatica della Santa Sede
consiste nella salvaguardia dei luoghi santi e, in particolare, di
Gerusalemme.
Anche in questo caso la posta in gioco è più alta della pur
importante garanzia dell’integrità fisica di edifici e luoghi che
ricordano la vita e le opere di Gesù: nel disegno sotteso agli
interventi di Giovanni Paolo II e dei suoi predecessori si coglie
con crescente chiarezza la convinzione che il destino di Gerusalemme
sia quello di costituire il punto visibile della riconciliazione tra
ebrei, cristiani e musulmani, divenendo (anche istituzionalmente) il
segno concreto della possibilità di una pacifica convivenza dei
fedeli di queste tre religioni in tutto il Medio Oriente.
L’insistenza con cui la diplomazia pontificia ha sostenuto, in
riferimento a Gerusalemme, le proposte prima di
internazionalizzazione e poi di garanzie internazionali indica, al
di là dei meriti intrinseci a queste soluzioni, la volontà di
testimoniare un valore che travalica i confini della politica: l’approccio
pontificio alla questione medio-orientale non è limitato alla
difesa della presenza cristiana ma, a partire da lì, si estende
alla possibilità di un vicendevole riconoscimento di ebrei,
cristiani e musulmani ed abbraccia il significato che questa intesa
potrebbe avere sulle sorti della regione e del mondo intero.
In questo senso, la salvaguardia dei luoghi santi e la tutela delle
comunità cristiane medio-orientali sono strettamente collegate e si
inseriscono in un disegno che include l’opzione per la
coabitazione islamo-cristiana e il riconoscimento pieno della
presenza del popolo ebraico in Terra Santa: soltanto la coesistenza
di queste tre componenti, infatti, può esprimere l’intento
profondo sotteso alla politica vaticana, volta ad affermare la
possibilità della convivenza tra i fedeli di religioni diverse a
conferma che la fede in Dio può essere un fattore di concordia e
non di conflitto.
3. Strettamente connesso con questi due obiettivi è lo sforzo di
assicurare una soluzione pacifica ai conflitti che attraversano la
regione medio-orientale, e in primo luogo a quello che oppone
israeliani a palestinesi.
Al di là dei motivi ideali che ispirano l’attività della Santa
Sede per la ricerca della pace, vi è infatti la consapevolezza che
le tensioni e i conflitti che insanguinano il Medio Oriente spingono
i cristiani ad emigrare, intaccano il significato dei luoghi santi
– che, senza la presenza di una comunità di fedeli, si
ridurrebbero inevitabilmente a musei privi di vita – e impediscono
di dare spessore concreto all’ipotesi di coabitazione tra ebrei,
cristiani e musulmani che ha guidato la diplomazia vaticana durante
tutto il pontificato di Giovanni Paolo II.
CIÒ CHE
DISTANZIA IL VATICANO DA STATI UNITI E ISRAELE
Questi tre obiettivi – difesa delle comunità cristiane, tutela
dei luoghi santi, ricerca della pace, in un orizzonte segnato dalla
scelta per la coabitazione dei fedeli di religioni diverse –
contraddistinguono la politica medio-orientale della Santa Sede e ne
determinano la marcata indipendenza da quella delle potenze
occidentali e, in particolare, degli Stati Uniti.
In occasione del conflitto israelo-palestinese del 1948, della crisi
di Suez e – per giungere ai giorni nostri – della prima e della
seconda guerra del Golfo, la posizione della Santa Sede non si
appiattisce mai sulla linea politica degli Stati Uniti e dei loro
alleati europei: la lunga assenza, fino a dieci anni fa, di
relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele, il partner più
fedele di cui Washington dispone nella regione, è la manifestazione
più evidente di questa divergenza.
Il principio della coabitazione tra cristiani e musulmani, che guida
la politica vaticana, si concilia male sia con la politica del
confronto che ha portato gli Stati Uniti (e, con crescente
riluttanza, i loro alleati europei) a misurarsi duramente con l’Iran
prima, con la Libia poi e infine con l’Iraq, sia con quella dell’appoggio
incondizionato ad Israele, referente privilegiato degli Stati Uniti
in Medio Oriente.
Non si tratta di differenze marginali, bensì di due diverse
interpretazioni dei processi socio-politici in svolgimento nei paesi
arabi: una che ne privilegia gli elementi di minaccia all’identità
e agli interessi economici dell’Occidente; l’altra che punta
maggiormente (in una visione di lungo periodo) sui fattori di
integrazione, sulla necessità di un equilibrio economico
complessivo tra il nord e il sud del mondo e sulla possibilità di
fare del Mediterraneo il punto di incontro tra differenti civiltà.
Non più, però, di due bensì di tre civiltà: l’inserimento
pieno della componente ebraica (e della sua organizzazione statale)
nell’orizzonte della coabitazione (originariamente concepita tra
cristiani e musulmani) è il risultato di un lungo e tormentato
processo di riavvicinamento con cui la diplomazia vaticana è
riuscita a dare consistenza (entro i limiti che definiscono le
relazioni politiche) all’”utopia” pontificia della
riconciliazione fra le tre religioni abramitiche.
LE OPZIONI
APERTE ALLA DIPLOMAZIA VATICANA DAI MUTAMENTI SEGUITI ALL’11
SETTEMBRE 2001
Nel corso del pontificato di Giovanni Paolo II, lo scenario
politico, culturale e religioso del Medio-Oriente è entrato in un
radicale processo di trasformazione.
Il primo fattore di mutamento è stato la crescita del radicalismo
islamico. Esso individua la strada per la rinascita dei paesi arabi
medio-orientali nel ritorno ai valori dell’islam classico e quindi
anche alla stretta compenetrazione di politica, società e religione
che lo contraddistingueva: la reintroduzione più o meno ampia della
shari’a nel sistema giuridico di alcuni paesi ne è l’espressione
più evidente sul terreno del diritto.
La crescita del radicalismo islamico costituisce una seria minaccia
per le comunità cristiane della regione. La rivalutazione del
diritto islamico classico retrocede i cristiani allo statuto di “dhimmi”,
ponendo nuovamente in questione principi di libertà ed uguaglianza
che sembravano essersi faticosamente aperti la strada nell’ordinamento
giuridico di alcuni stati medio-orientali. Il crescente risentimento
verso gli Stati Uniti e l’Europa, a cui si imputa di volere
mantenere il Medio Oriente in uno stato di inferiorità per poterlo
sfruttare economicamente, coinvolge anche le Chiese cristiane,
identificate a torto o a ragione con l’Occidente. Nei paesi dove
le forze radicali giungono al potere (si pensi all’Iran e all’Afghanistan),
la posizione delle comunità cristiane peggiora drasticamente.
Oltre a queste, la crescita del radicalismo musulmano ha avuto due
altre conseguenze. Essa ha fornito una serie di argomentazioni
religiose allo sviluppo del terrorismo: ne sono un esempio la
giustificazione della guerra santa e la promessa di una ricompensa
eterna per il suicida che si immola allo scopo di uccidere gli
infedeli.
Benché il terrorismo di ispirazione religiosa interessi una esigua
minoranza della popolazione musulmana, esso ha avuto un impatto
devastante sull’opinione pubblica occidentale: da un lato ha
spinto una parte di essa a identificare musulmani e terroristi,
frenando il processo di integrazione delle comunità musulmane in
Europa e ostacolando i progressi del dialogo interreligioso; dall’altro
ha confermato (dopo l’esperienza della ex-Jugoslavia) che la
religione può diventare un potente fattore di divisione e di
conflitto. Ciò ha colpito al cuore il nucleo centrale della
politica medio-orientale di Giovanni Paolo II, tutta incentrata sul
disegno di ricostruire un clima di dialogo e di riconciliazione tra
ebrei, cristiani e musulmani a partire dalla comune fede religiosa.
Il terrorismo islamico ha inoltre innescato la reazione degli Stati
Uniti ed il loro ritorno in forze nella regione medio-orientale.
Dopo l’11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno occupato l’Afghanistan
e, con giustificazioni giuridicamente deboli, l’Iraq. Hanno
inoltre lasciato sostanzialmente mano libera al premier israeliano,
Sharon, per risolvere unilateralmente la questione palestinese.
La Santa Sede ha condannato senza equivoci il terrorismo, definito
un crimine contro l’umanità da cui ciascuno ha il diritto di
difendersi (vedi il messaggio per la giornata della pace del 1
gennaio 2002), ma ha lasciato trapelare più d’un dubbio sulla
bontà della strategia adottata per combatterlo.
Alcuni timori vaticani sono di ordine generale e sono stati ribaditi
nel messaggio pontificio per l’ultima giornata mondiale della
pace, quella del 1 gennaio 2003.
Il primo timore è che la lotta al terrorismo conduca ad alterare l’ordine
giuridico internazionale sostituendo alla “forza del diritto” il
“diritto della forza”. Le critiche alla teoria dell’attacco
preventivo utilizzata per giustificare il secondo intervento
statunitense in Iraq, l’insistenza sul ruolo indispensabile delle
Nazioni Unite, la condanna della violazione delle norme di diritto
internazionale nel trattamento dei detenuti sospettati di terrorismo
sono le principali manifestazioni di questa preoccupazione. A
giudizio della Santa Sede un’efficace azione contro il terrorismo
esige non l’emarginazione ma la riforma e il potenziamento delle
Nazioni Unite, non l’unilateralismo di una sola super-potenza ma
la ricostruzione di una solidarietà internazionale internazionale
che coinvolga attorno agli Stati Uniti il maggior numero di stati.
La Santa Sede inoltre considera pericolosa la dissociazione della
repressione del terrorismo dall’azione politica e sociale volta a
rimuovere le cause profonde che stanno all’origine delle azioni
terroristiche. Sottolineare esclusivamente il lato criminale del
terrorismo, senza analizzarne le motivazioni (e agire di
conseguenza), non basta per dare una soluzione definitiva al
problema, soprattutto in situazioni – come quella palestinese –
dove il ricorso ad atti terroristici affonda le proprie radici nella
frustrazione di una popolazione che non vede prospettive per il
proprio futuro.
Infine trapela nella Santa Sede la preoccupazione per la facilità
con cui alcuni esponenti dell’amministrazione Bush presentano l’intervento
in Medio Oriente come un imperativo etico o addirittura religioso
anziché una scelta in primo luogo politica: i riferimenti alla
superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica o
della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana sono
visti come pericolosi poiché tendono ad avvalorare lo scontro di
civiltà pronosticato da Samuel Huntington e temuto al di là del
Tevere come la peggiore delle disgrazie.
Quest’ultimo scenario è giudicato particolarmente pericoloso
proprio per l’impatto che può avere in Medio Oriente, dove le
comunità cristiane hanno tutto da perdere nella prospettiva di uno
scontro tra civiltà. È questa una delle ragioni per cui la Santa
Sede insiste nel sottolineare l’indipendenza della propria
posizione dalla politica degli Stati Uniti, che taluni in Vaticano
considerano una riedizione del colonialismo europeo dei secoli
scorsi e giudicano destinata, al pari di quest’ultimo, ad essere
respinta dalla popolazione araba.
Di questa popolazione fa parte la grande maggioranza della comunità
cristiana medio-orientale. E dalle sue aspirazioni, espresse da una
gerarchia ecclesiastica che è ormai quasi completamente
arabo-cristiana, la diplomazia vaticana non potrebbe, neppure se lo
volesse, prescindere.
Di conseguenza la Santa Sede considera con scetticismo l’ipotesi
di una democrazia esportata con le armi e continua a puntare,
nonostante le crescenti difficoltà, su un processo di
modernizzazione e democratizzazione che parta dall’interno della
società medio-orientale, secondo la traccia che hanno cercato di
seguire la Giordania e più recentemente il Marocco.
IL NUOVO
ORDINE INTERNAZIONALE SECONDO LA SANTA SEDE
È improbabile che la diplomazia vaticana non si sia accorta che,
con la caduta dell’Unione Sovietica, il quadro della politica
internazionale è cambiato e le impalcature giuridiche che lo
sorreggevano sono diventate obsolete: non è realistico interpretare
la politica della Santa Sede soltanto in termini di rimpianto e
difesa di un mondo che non c’è più. La segreteria di stato
vaticana sa che la partita che si sta giocando riguarda i nuovi
equilibri che si definiranno attorno alla leadership statunitense ed
è consapevole che il Medio Oriente (insieme alla guerra contro il
terrorismo) costituisce oggi il campo principale di questa partita.
Per questa ragione la Santa Sede insiste tanto sulla dimensione
internazionale della questione medio-orientale e sulla necessità di
affrontarla attraverso un coinvolgimento del maggior numero
possibile di paesi. È un’esigenza che essa riafferma ogni volta
che si affronta il conflitto israelo-palestinese (dove il Vaticano
rivendica un ruolo più incisivo al quartetto – Stati Uniti,
Unione Europea, Russia e Nazioni Unite – che dovrebbe attuare la
“road map”), la questione di Gerusalemme (per la cui soluzione
continua a richiedere un sistema di garanzie internazionali), la
guerra e il dopoguerra in Iraq (che il Vaticano vorrebbe ricondurre
entro l’ambito decisionale delle Nazioni Unite).
Sottesa a questa insistenza vi è in Vaticano la convinzione che l’egemonia
degli Stati Uniti debba collocarsi all’interno di un preciso
sistema di diritto internazionale e in un quadro stabile di
cooperazione tra le nazioni: è questo il senso dell’ultimo
messaggio pontificio per la giornata della pace, con la sua
insistenza sul rispetto del diritto internazionale ("La pace e
il diritto internazionale sono intimamente legati fra loro: il
diritto favorisce la pace") e sul ruolo insostituibile delle
Nazioni Unite, da riformare perché siano messe "in grado di
funzionare efficacemente per il conseguimento dei propri fini
statutari, tuttora validi".
La politica medio-orientale della Santa Sede assume in tal modo un
significato che va al di là dei confini regionali, prefigurando la
necessità di un ordine internazionale che sappia coniugare il ruolo
predominante di una sola nazione con il coinvolgimento di tutte le
altre.