Il Cardinale
Tettamanzi sui quarant’anni di progressi nei rapporti ebraico-cattolici
Discorso pronunciato il 9 marzo 2006 dal
Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano, durante un incontro sul
tema “Chiesa Cattolica - Popolo Ebraico - Israele. Quarant’anni di
progressi nella reciproca comprensione”. Aula Magna dell’Università
degli Studi di Milano – nell’ambito di una tavola rotonda in occasione
della presentazione del libro “Fratelli prediletti” (Mondadori, 2005),
curato da monsignor Francesco Fumagalli, già Segretario presso la Santa
Sede della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo e attuale
membro della Commissione diocesana per l’ecumenismo e il dialogo.
Eccellentissimi Ambasciatore e Rabbino Capo,
Illustri relatori,
Carissimi fratelli, sorelle, amici,
In chiusura di questo incontro vorrei richiamare
un’immagine biblica assai eloquente, che sta scolpita nel marmo sul
basamento della facciata del Duomo di Milano, e che è ripresa tuttora nel
logo del Ministero del turismo israeliano. E’ l’immagine, di grande
efficacia evocativa, degli esploratori della terra di Canaan, dodici
principi delle tribù d’Israele mandati da Mosè in avanscoperta. Questi
tornano dalla valle di Eshkol recando «un grappolo d’uva» tanto enorme
«che portarono in due su una stanga, con melagrane e fichi» (Numeri 13,
23).
Commentando questo episodio, il teologo Bruno Forte [1] fa notare che alcuni
tra i Padri della Chiesa del V secolo – come Evagrio e san Massimo di
Torino – hanno visto in questi due portatori la figura d’Israele e della
Chiesa, entrambi uniti nel portare sulle spalle l’unico grappolo, che è
simbolo del Messia. La stanga che li unisce evoca un’altra figura
messianica, quella di Sofonia che preannunzia un’epoca nella quale i
popoli pagani e gli ebrei «serviranno il Signore sotto uno stesso giogo» (Sofonia
3, 9), spalla a spalla. Più tardi, nel secolo XII, un grande medico e
filosofo ebreo, Mosè Maimonide, ha visto raffigurati in questi popoli i
cristiani e i musulmani, che preparano la strada per la venuta del Re Messia
(Mishneh Torà, Hilkhòt Melakhìm XI, 4) [2].
Infine, quarant’anni fa, con una sfumatura diversa, il Concilio Vaticano
II (Nostra aetate, 4) ha
riferito la profezia di Sofonia agli ebrei e ai cristiani, entrambi chiamati
a servire il Signore sotto uno stesso giogo. Ma qual è questo giogo? Per un
ebreo è spontaneo rispondere così: si tratta del giogo della Torà, con le
mitzvòt (precetti) e le opere buone (ma‛asìm tovìm).
Per un cristiano è altrettanto pronta la risposta: il giogo è la croce di
Gesù Cristo. Ci chiediamo però: queste due risposte sono davvero tra loro
distanti, forse inconciliabili? Oppure non distano più del grappolo d’uva
appeso alla stanga, al punto che non si sa se esso gravi più sulle spalle
del primo che del secondo portatore… il quale è facilitato dal fatto che
vede in anticipo i passi del primo, e misura gli sforzi di chi lo precede?
Un giorno Gesù diceva ai suoi discepoli: «Prendete il mio giogo su di voi…il
mio giogo infatti è dolce» (Matteo 11, 28-29). È il giogo che Gesù
porta, cioè il giogo della Torà, dei precetti, delle opere buone. Gesù,
infatti, afferma esplicitamente di essere venuto non per abolire, ma per
adempiere perfettamente, fino alla croce. Ecco, l’imitazione di Cristo
può dunque passare per la via della Torà, che anche Paolo proclama
«santa, e «santo e buono e giusto il precetto» (Romani 7, 12): Torà che
per l’ebreo è certamente via di santificazione.
Il cardinale Carlo Maria Martini ha più volte riflettuto sul valore di
santificazione e di grazia dei precetti mosaici, e tra essi quello
principale della circoncisione. Egli ha riproposto l’affermazione di san
Tomaso d’Aquino, per il quale la circoncisione «dava la grazia», con
questa ulteriore interessante precisazione: «se venisse data dopo la
passione di Cristo, introdurrebbe del Regno» dei Cieli (Summa Theologiae,
IIIa, q. LXX, art. IV ad 4.um) [3].
Vorrei che questi brevi pensieri, proposti in forma interlocutoria, ci
introducessero alla lettura di questi testi, pubblicati in un libro che ha
appunto per argomento gli ebrei, nostri «fratelli prediletti» o, secondo l’espressione
paolina, carissimi «a causa dei Patriarchi» (Romani 11, 28-29). Il titolo
di questo saggio rende omaggio al programma di dialogo e di riconciliazione,
di teshuvà/pentimento e di solidarietà, che a partire dal Concilio
si è sviluppato, prima con Giovanni XXIII, poi con Paolo VI, infine in modo
particolarmente intenso con il lungo pontificato di Giovanni Paolo II.
Il sottotitolo di Documenti e fatti ci spinge a qualche altra
considerazione. Esso richiama la testata di una rivista uscita a Milano 34
anni fa, e poi continuata fino ad oggi con il nome di «Sefer». Anima di
tale pubblicazione fu, fin dall’inizio, una donna di spirito nobile e
coraggioso che si ispirava al più appassionato amore verso Israele e la
Chiesa: Maria Baxiu, della quale ricorrerà tra un anno il XXV anniversario
della scomparsa. Riprendendo in mano le prime annate di questa rivista, vi
si respira tutto il fremito che echeggia nelle pagine ora pubblicate in
elegante veste da Mondadori, per gentile concessione della Libreria Editrice
Vaticana quanto ai testi ufficiali della Santa Sede. Sono fogli di bruciante
attualità, come quel passo di Jacques Maritain nel quale il filosofo
francese osservava acutamente che «si può ben temere che all’antisemitismo
razziale, che ancora sussiste, si mescoli (o addirittura si sostituisca,
anche in quei cristiani che non ritengono di essere antisemiti), un
antisemitismo politico»[4].
Un ammonimento, questo, che ritroviamo ancora oggi ribadito nel V documento
congiunto del Comitato Internazionale di Collegamento cattolico-ebraico
(Buenos Aires, 2004), un Comitato che fu istituito nel 1970 per iniziativa
di Paolo VI e del Comitato Internazionale Ebraico per le consultazioni
interreligiose (IJCIC): «Traiamo incoraggiamento – leggo - dai risultati
dei nostri sforzi congiunti, che includono il riconoscimento della relazione
di alleanza unica e irrevocata tra Dio e il popolo ebraico, e il rifiuto
totale dell’antisemitismo in tutte le sue forme, inclusa quella dell’antisionismo
quando sia più recente manifestazione di antisemitismo»[5].
Come ricorda il cardinale Walter Kasper nella sua Prefazione a questo libro
di «Documenti e fatti», accanto al ripudio definitivo dell’ “insegnamento
del disprezzo” da parte della Chiesa nel concilio Vaticano II, stanno come
motivazioni profonde alcune affermazioni inequivocabili, quali: «Gesù è
ebreo, e lo è per sempre»[6], gli ebrei rimangono carissimi a Dio a causa
dei Padri[7], «chi incontra Gesù incontra l’Ebraismo»[8]. Il “sì”
dell’amore paterno e materno del Padre celeste per il suo Popolo
«primogenito dell’Alleanza»[9] si riflette nel “sì” della Chiesa a
Israele, e di conseguenza nel “no” all’odio verso le sorelle e i
fratelli ebrei, nel “no” all’antisemitismo in tutte le sue forme[10].
Da queste pagine possiamo ancora trarre ispirazione per il futuro del nostro
cammino di cooperazione e di servizio al mondo. Ce ne dà esempio papa
Benedetto XVI, che ha rivolto al Rabbino Capo di Roma e alla Delegazione
ebraica che l’accompagnava in udienza, il 16 gennaio scorso, un appello
che possiamo immediatamente meditare per applicarlo alla nostra situazione:
«Sono, poi, tante le urgenze e le sfide, a Roma e nel mondo, che ci
sollecitano ad unire le nostre mani e i nostri cuori in concrete iniziative
di solidarietà, di Tzèdeq (Giustizia) e di Tzedaqà
(Carità).
Insieme possiamo collaborare nel trasmettere la fiaccola del Decalogo e
della speranza alle giovani generazioni»[11]. Il richiamo alla giustizia e
alla carità (tzèdeq e tzedaqà) fa esplicito riferimento al
medesimo V documento congiunto del Comitato misto cattolico-ebraico appena
citato, che il Papa mostra quindi di ben conoscere e di approvare, mentre la
seconda parte dell’esortazione, che riprende il discorso del papa nella
Sinagoga di Colonia il 19 agosto 2005, è stata già assunta dalla
Conferenza Episcopale Italiana come programma decennale a partire da quest’anno
per sviluppare il dialogo con l’ebraismo in Italia, in collaborazione con
l’Assemblea dei Rabbini d’Italia presieduta dal Rabbino Giuseppe Laras.
Tra i documenti qui pubblicati, infine, cogliamo un’affermazione
importante a proposito di un argomento sempre attuale, quello della libertà
religiosa. Secondo lo spirito del Concilio (Decreto Dignitatis
humanae), nei rapporti con gli ebrei «i cattolici dovranno aver
cura di vivere e di annunciare la loro fede nel più rigoroso rispetto della
libertà religiosa»[12], un dovere che implica lo sforzo «di comprendere
le difficoltà che l’anima ebraica prova davanti al mistero del Verbo
incarnato, data la nozione molto alta e molto pura che essa possiede della
trascendenza divina»[13].
Una delicatissima attenzione dovrebbe essere riservata in proposito da parte
nostra alla libertà religiosa dei nostri fratelli ebrei, nel caso di
bambini, o di minorenni, di anziani o di persone in situazioni particolari
di debolezza, che in varia misura soffrano condizionamenti nelle loro
facoltà di libera scelta. In casi simili, così come nei riguardi di
ammalati, qualunque forma di intervento che possa suscitare anche solo l’ombra
o il sospetto di proselitismo è quindi a maggior ragione da evitare.
In tali circostanze, il criterio della missione comune nei confronti dell’unico
Dio dell’Alleanza potrà ispirare scelte di rispetto e di stima. Nel caso
poi di coppie di fidanzati o di sposi di fede rispettivamente ebraica e
cattolica, specialmente se molto giovani, seguendo i medesimi principi
occorrerà il massimo rispetto verso entrambi e verso le loro famiglie, sia
nel periodo precedente al matrimonio, sia in quello successivo
particolarmente dopo la nascita dei figli.
Lo stesso si dica per il periodo estremo che prepara la morte e per le
esequie, che la tradizione ebraica circonda di riti e prescrizioni
gelosamente osservati di generazione in generazione. In tutte queste
circostanze occorrerà agire nello spirito della più sincera collaborazione
fra i responsabili spirituali delle due comunità di fede. Qui a Milano
possiamo riferirci con soddisfazione ad un rapporto di fiducia già
lungamente collaudata fra la Commissione diocesana per l’Ecumenismo e il
Dialogo e gli Uffici della Comunità Ebraica.
Desidero allora formulare l’auspicio che questi Documenti e fatti possano
giungere al cuore di tutti i figli e le figlie di Abramo, tradotti nelle
loro lingue ed accompagnati da convenienti introduzioni non solo in lingue
occidentali, ma anche in ebraico e in arabo. Esiste già peraltro un primo
felice esempio del genere, con l’edizione in ebraico di un’opera
antologica del cardinale Martini dal titolo Verso Gerusalemme. Allargando
iniziative analoghe, si potrebbe estendere queste pubblicazioni, fino a
raggiungere quel potenziale miliardo ed oltre di lettori del mondo di lingua
e cultura araba.
Così possiamo sperare che, grazie ad opere di questo genere, trarranno
vantaggio la libertà religiosa, il dialogo spirituale e persino il
dibattito democratico intorno ai fondamentali diritti della persona. Anche
la promozione della pace e della giustizia nella regione mediorientale ne
verrebbe favorita. Non solo, ma possiamo sperare che il cammino di fraterna
riconciliazione ebraico-cristiana percorso in questi quarant’anni ispiri
analoghi percorsi di pace tra i credenti di altre religioni, a partire dai
fedeli musulmani delle comunità islamiche sparse nel mondo, credenti anch’essi
nell’Unico Dio della misericordia e della pace.
Infatti la Bibbia c’insegna che Abramo e Sara furono padre e madre di
molti popoli; ma ci dice che anche Agar, attraverso Ismaele, ha ricevuto una
speciale benedizione per «una grande nazione» (Genesi 21, 18). Come ad
Abramo, così anche a Sara è stato dato dal Cielo un nome nuovo, che il
sommo esegeta ebreo Salomone di Troyes detto Rashi così commentava: Quanto
a Sarai tua moglie «Non la chiamerai più col nome di Sarai – Tale nome
significa “mia principessa”: principessa cioè per me, non per gli
altri. Ma Sara – semplicemente – è il suo nome – Ella infatti sarà
principessa per tutti». Prima di Sara già il nome di Ab-ram o ‘gran
padre’ – padrone o padrino – era stato mutato in ’Av-raham o ‘padre
di moltitudini’, quasi a rivelare un’apertura a dimensioni nuove e senza
confini. Perciò da questa vocazione di universale maternità e paternità
siamo interpellati tutti quanti, ebrei, cristiani e musulmani, per una
corresponsabile azione di pace.
In questo senso a Roma la scorsa settimana, al termine della VI riunione
della Commissione bilaterale per i rapporti religiosi tra Chiesa cattolica e
Ebraismo in Israele, è stato rivolto un appello congiunto affinché il
dialogo ebraico-cristiano si allarghi sempre di più verso l’Islam:
occorre «che ci proiettiamo oltre il nostro dialogo bilaterale, al quale ci
obbliga un particolare vincolo. Perciò crediamo che sia nostro dovere
cercare di coinvolgere il mondo musulmano e le sue autorità in un dialogo e
in una collaborazione rispettosi. Inoltre rivolgiamo un appello alle
autorità civili perché sappiano apprezzare la potenzialità positiva che
la dimensione religiosa ha nell’aiutare a risolvere conflitti e tensioni,
e a tal fine diano il loro sostegno al dialogo interreligioso».
Tanto più urgente è questa solidarietà nel costruire la pace, se
guardiamo alla Terra Santa, al conflitto israelo-palestinese, ai Luoghi
Santi e a Gerusalemme. Uno degli ultimi documenti pubblicati in questo libro
tratta proprio di questo argomento: «La tutela della libertà religiosa e
dei Luoghi Santi».[14] Vi si leva un appello «a uomini e donne di tutte le
fedi, perché onorino la libertà religiosa e trattino con rispetto gli
altrui Luoghi Santi» (p. 122). Un grido e un sogno perché proprio da
Gerusalemme, trasformata in “visione di pace”, sorga un modello di
concordia civile e religiosa.
L’amore appassionato per Gerusalemme si eleva nel canto per la “Dedicazione
della Chiesa” nella liturgia cattolica, quasi un dolce inno mistico alla
Sposa celeste:
Urbs Jerusalem beata,
Gerusalemme, città beata,
dicta pacis visio, dolce visione di pace,
quae construitur in caelis di pietre vive e
vivis ex lapidibus popolata di spiriti felici
angelisque coronata d’ogni bellezza adorna,
sicut sponsa comite. come vergine sposa.
E già nel Medio Evo il
fervente predicatore della moschea di al-Aqsa in Gerusalemme, Abu Bakr
Muhammad bin Ahmad al-Wasiti, ne aveva celebrato la gloria in una delle più
antiche laudi, Fada’il al-Maqdis, o “Meriti del Santuario”:
«Allah, sia Egli lodato ed esaltato, disse di Gerusalemme: Tu sei il mio
giardino dell’Eden, la mia Terra benedetta ed eletta. Chiunque viva qui
vive perché Io ho misericordia di lui, e chiunque lasci questo luogo lo
lascia perché Io sono adirato verso di lui…Tu sei il seggio del mio Regno
inferiore, da te Io salii al cielo, da te Io lasciai la terra, e in mezzo a
te Io posi tutte le dolci acque che scaturiscono dalle vette dei monti».
Qui saranno appese le bilance del Giudizio ultimo. A Gerusalemme si
volgeranno di nuovo stuoli di cammelli da Madian e da Efa, i dromedari di
Saba. Tutti saliranno a Sion, portando su cavalli e su portantine quanti
faranno ritorno a lei. Ricchezze dei popoli, meraviglie dei mari, splendori
dei cieli, tutti verranno a te.
Allora potremo vedere ciò che annunciò il Signore delle schiere del cielo
e della terra per bocca del suo profeta Zaccaria (8, 3-5. 7-8):
«Tornerò a Sion e
dimorerò in Gerusalemme.
Gerusalemme sarà chiamata Città della fedeltà
e il Monte del Signore degli eserciti Monte Santo.
Dice il Signore degli eserciti:
Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme,
ognuno con il bastone in mano per la loro longevità.
Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle,
che giocheranno sulle sue piazze.
Ecco io salvo il mio popolo
dalla terra d’oriente e d’occidente;
li ricondurrò ad abitare in Gerusalemme,
saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio,
nella fedeltà e nella giustizia».
+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano
____________________________
[1] Bruno Forte, Israele e la Chiesa, i due esploratori della Terra
Promessa. Per una teologia cristiana dell’Ebraismo, in Chiesa ed
Ebraismo oggi. Percorsi fatti, questioni aperte, a c. di Norbert J.
Hofmann, Joseph Sievers, Maurizio Mottolese, Editrice Pontificia Università
Gregoriana, Roma 2005, pp. 87-88.
[2] Un’immagine che papa Giovanni Paolo II riprese scrivendo al Rabbino
Capo di Roma, il 22 maggio 2004, nella ricorrenza centenaria del Tempio
Maggiore di Roma.
[3] Cfr. Carlo Maria Martini, Verso Gerusalemme, Milano, Feltrinelli,
2004, p. 121.
[4] «Documenti e fatti» II (1974), p. 7.
[5] Fratelli prediletti, p. 137.
[6] Ibid., p. 75.
[7] Ibid., pp. 54-55.
[8] Ibid., p. 100.
[9] Ibid., pp. 25. 132.
[10] Ibid., pp. 54-55. 106. 132.
[11] Benedetto XVI, Discorso al Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni,
Città del Vaticano, 16 gennaio 2006, ne «L’Osservatore Romano»,
16-17 gennaio 2006, p. 4.
[12] Fratelli prediletti, p. 60.
[13] Ibid., p. 61.
[14] Ibid., pp. 117-122.