Al via il
pellegrinaggio Cei sui Luoghi di Gesù. Trenta delegati «under 30»
con una precisa volontà di progettazione: aiutare le comunità
cristiane a risorgere dopo i dolorosi esodi segnati dalla morte e
dalla sofferenza.
23 agosto: Passi di pace a Hebron nel nome di
Abramo
Un pellegrinaggio sì ai Luoghi
Santi, ma soprattutto alle «pietre vive» che sono le comunità
cristiane di Terra Santa. Ha lo scopo di far conoscere ai giovani
italiani la realtà difficile in cui vivono tali comunità e i
coetanei che ne fanno parte, il pellegrinaggio della Cei che parte
oggi da Roma e vi farà ritorno il 28 di agosto. Zaino in spalla e
Bibbia a portata di mano ci si muoverà «con una volontà di
progettazione per la Terra Santa.
La novità di quest'anno consiste,
infatti, nel lanciare ai giovani l'input di lavorare per questo
scopo, non solo raccogliendo soldi, ma portando avanti iniziative
che aiutino in loco i giovani e le comunità cristiane a risorgere.
E a pensare un'alternativa al turismo, che era diventata l'unica
risorsa», spiega don Alessandro Amapani, vicedirettore del Servizio
nazionale di pastorale giovanile, ufficio Cei che anche quest'anno
come negli scorsi organizza il pellegrinaggio delle nuove
generazioni ai luoghi di Gesù segnati da sofferenze e dal doloroso
esodo di tanti cristiani che non reggono di fronte alla flessione
del turismo, loro principale fonte di sostentemento.
Ma, appunto, lo
stile del cammino dei prossimi giorni è mosso da una consapevolezza
nuova: spiritualità, certamente, ma con uno sguardo più
prospettico e a 360 gradi sulla realtà di quella zona
mediorientale. Ne è la prova il fatto che l'iniziativa, denominata
«I nostri passi sulla via della pace», quest'anno viene realizzata
in sinergia con l'Ufficio nazionale per la cooperazione missionaria
tra le Chiese, con quello per i problemi sociali e il lavoro e con
la Caritas.
Alle quattro espressioni ecclesiali sono legati gli ottanta
pellegrini «under 30», di tutta Italia, che hanno risposto
all'appello delle loro delegazioni regionali. Non sono, dunque,
convocazioni frutto del caso o dell'entusiasmo momentaneo per una
bella esperienza. Anzi, l'impegno è forte. «Questi giovani
saranno, infatti, i referenti di progetti di collaborazione con la
Terra Santa», prosegue Ama pani. Realtà che non sono già
delineate a priori, ma si definiranno proprio durante e dopo il
viaggio. «Non si tratterà solo di una visita ai Luoghi Santi,
quanto alle «pietre vive» delle comunità. Così i giovani
potranno conoscere e intrecciare delle relazioni significative con i
giovani di Terra Santa», conclude il sacerdote.
Ne avranno occasione in particolari momenti del programma, quando la
delegazione sarà ospite delle famiglie di Haifa, delle comunità di
Gerico e Betlemme, e soprattutto, mercoledì prossimo, nell'incontro
con gli universitari e con gli scout della città della Natività.
Tanti i momenti che saranno trascorsi con personalità religiose
cattoliche - dal patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah, al
suo ausiliare per Israele, Giacinto Boulos Marcuzzo, a padre Ibrahim
Faltas, francescano, custode della basilica della Natività di
Betlemme, ma soprattutto con le opere di apostolato che vengono
portate avanti: centri educativi, parrocchie, ospedali.
Dall'istituto Mar Elias di Ibilline, alla scuola delle Carmelitane
di Haifa, fino all'orfanotrofio di suor Sophie a Betlemme i giovani
toccheranno con mano i tanti volti di una carità che non guarda a
status sociale, colore della pelle, religione. (1)
Alcuni incontri
saranno dedicati alla conoscenza dell'islam e dell'ebraismo. Il
dialogo tra le diverse denominazioni cristiane presenti a
Gerusalemme sarà approfondito con la visita al centro ecumenico
Sabeel. Ampio spazio poi alla preghiera presso i principali luoghi
cristiani: Nazareth, lago di Tiberiade, Tabor, monte Carmelo, Santo
Sepolcro, basilica della Natività, e infine monte degli Olivi,
Cenacolo e Getsemani.
I giovani italiani
alla tomba dei Patriarchi venerata (in zone diverse) da ebrei e
musulmani
torna su
Spianate deserte,
controlli militari continui, alcuni edifici cadenti, altri
semplicemente abbandonati con il chiavistello ancora chiuso. A un
angolo un'insegna promette Vienna Shoes, ma è arrugginita e accanto
al nome del proprietario porta un numero di telefono a tre cifre,
chissà di quando. Agli ottanta giovani del pellegrinaggio Cei «I
nostri passi sulla via della pace» la Città Vecchia di Hebron offre
un'immagine da set abbandonato di un film. È un fatto più unico che
raro l'arrivo qui di gruppi di pellegrini. Eppure è proprio il luogo
dove sono custodite le tombe dei Patriarchi delle tre religioni
monoteiste, primi tra tutti Abramo e Sara. Poco lontano avvenne
l'episodio dei misteriosi tre visitatori alle querce di Mamre. Entrati
grazie a un intenso lavoro diplomatico dall'insediamento israeliano di
Kiriat Arba, i giovani italiani hanno portato davvero i loro passi al
cuore del conflitto israelo-palestinese.
Qui a presidiare il luogo sacro ci sono meno di un migliaio di
israeliani, tra soldati e coloni. Che controllano circa 120mila
palestinesi. La località, che l'accordo del 1995 ha spartito tra
l'Autorità Palestinese e un gruppo di insediamenti sotto il controllo
israeliano, è stata militarmente rioccupata dall'esercito dello Stato
ebraico dopo il 2000. Superato il giallo cancello scorrevole,
presidiato da uomini in divisa, che delimita questa sorta di enclave a
sud di Gerusalemme, i pellegrini di pace superano un primo, morbido,
posto di blocco; poi ancora un check-point, passato il quale gli
uomini indossano la kippah per entrare nella parte adibita a
sinagoga. Prima del 1994, quando un colono ebreo fece irruzione nella
moschea uccidendo una trentina di persone, tutti pregavano nello
stesso posto. Ora invece anche i Patriarchi sono divisi: Abramo e Sara
nel mezzo (le loro tombe si possono vedere da entrambe le parti
attraverso verdi grate), Giacobbe e Lia nella parte ebraica, Isacco e
Rebecca in quella musulmana. I giovani hanno visitato il lu ogo sacro
ai figli di Israele, mentre nella prima sala alcuni pii ebrei erano
intenti a discutere e all'interno altri pregavano nel loro modo
caratteristico, ondeggiando le braccia avanti e indietro e intonando
melodie.
Usciti, dopo un ampio giro, e altri tre check-point nei quali
pazientemente passare il metal detector, ecco i tappeti della moschea
accogliere i 160 piedi scalzi. Per le ragazze una lunga tunica marrone
con il cappuccio a punta a coprirle dai capelli fino ai piedi. La
fornisce la guida, un anziano signore che introduce il gruppo alle
ricchezze storiche della moschea dai bei colori pastello, iniziando
dalla parte delle donne, dove qualche bimbo saluta gli inattesi
visitatori. Ce ne saranno altri sulla strada principale a far festa.
Strade strette e vicoletti, dove non c'è più quasi nessuno. Reti
sostengono a mezz'aria la spazzatura che i coloni dall'alto gettano
sulla strada. Poche centinaia di metri e si arriva a un polveroso
slargo tra edifici diroccati, guardato da una camionetta israeliana.
Il gruppo ritorna al pullman e se ne va. Sul balcone di una casa
spunta un bimbo con un aquilone. È stata una fatica, ma ne è valsa
la pena: si è visto un pezzo della realtà in cui questi popoli
vivono. E questi giovani italiani hanno provato a gettare un seme di
pace.
Per alcuni non è la prima volta. Giulia Ceccarelli, ad esempio: ha
solo 19 anni ma ha già una lunga esperienza missionaria. Nel
Mozambico che da oltre dieci anni è in pace. Ci è approdata
ragazzina con papà, mamma e due sacerdoti del Centro fraternità
missionaria di Piombino, condividendo la vita quotidiana della gente
di Manhica. «Lì le ferite ci sono ancora, ma c'è più speranza di
quella che mi pare di vedere qui», commenta. Stesso continente, ma
situazione ancora calda. Dall'Eritrea viene Andrea Murru, 20 anni, che
con il Centro missionario della diocesi di Bergamo vi ha lavorato per
un mese. Due giorni dopo era sul volo per Tel Aviv. «In Eritrea vedi
maggiormente il volto dei poveri. Qui c'è il travaglio della fede in
mancanza di pace». Per Simone Perini, 27 anni, di Latina, l'attesa
della ripartenza è stata più lunga: due settimane. L'obiettore era
di ritorno da un anno Casco Bianco (progetto Caritas) in Guatemala
dove il laureando in letteratura ispanoamericana ha condotto
interviste per il processo di riconciliazione. «Nonostante 36 anni di
guerra civile, nel Paese centroamericano c'è speranza. Gli accordi di
pace del 1996, però, non hanno cancellato le ingiustizie, causa del
conflitto. Come diceva La Pira, la Terra Santa è speciale, è un
laboratorio di convivenza tra popoli e religioni. Se avrà pace ci
sarà in tutto il mondo».
«In genere vado in Chiese sofferenti, mentre ora sono nella
sofferenza della Chiesa madre». Così Chiara Dal Covolo, insegnante
di 27 anni veronese, esperienze in Guinea Bissau, che fa parte del
Centro diocesano per la pastorale giovanile, operando in sinergia con
l'Ufficio missionario e la Migrantes scaligera. Idee chiare ha anche
per chi fa animazione missionaria in Italia Come Oscar Improta, 19
anni, animatore a Napoli del Movimento giovanile missionario (Pom):
«Sono qui per conoscere la situazione e comprendere culture
differenti».
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(1)
Ci lascia perplessi che gli unici interlocutori citati siano tra
coloro che, nell'evolversi dei tragici eventi degli ultimi anni, hanno
mostrato di essere sensibili soprattutto alle ragioni di una sola
delle parti in causa. Si tratta di un atteggiamento che dovrebbe
essere estraneo a dei cristiani. A nostro avviso invece i cristiani
devono tendere a vedere le ragioni presenti sia nell'una che
nell'altra parte. Non mancano infatti voci e esperienze che
testimoniano una maggiore obiettività, che deriva da una risposta ad
eventi concreti e passa sempre attraverso la ricerca - pur difficile -
del dialogo e dell'impegno per costruire insieme una realtà
"altra". Un esempio tra i tanti: Samar
Sahhar e Angelica Calò Livnè. (NdR)