SCETTICISMO E IPERSENSIBILITÀ EBRAICA
NEL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO

 interpretazione in chiave psicoanalitica di Gianfranco Tedeschi

Lo scetticismo e l'ipersensibilità ebraica nel dialogo ebraico-cristiano sono da considerarsi una difesa contro i due pericoli, l'uno esterno e l'altro interiore. Tra gli elementi che costituiscono il primo ordine di pericoli riveste un particolare rilievo l'antisemitismo, che la chiesa cristiana ha sempre suscitato e virulentato presso le popolazioni con cui gli ebrei sono venuti a contatto nel corso del loro esilio bimillenario. O ci si converte o si è isolati e soppressi moralmente e fisicamente. 

La chiesa ha interpretato il messaggio squisitamente ebraico di Gesù, ebreo, diffuso da discepoli ebrei, gli apostoli, in terra ebraica, diretto ad ebrei, come una nuova religione in contrapposizione all'ebraismo, dichiarato superato, e agli ebrei come coloro che seguitano a vivere nell'errore.

Ha interpretato la polemica di Gesù con i Farisei come una presa di posizione contro l'ebraismo, invece di collocarla nella sua giusta realtà storica, ossia come una diatriba che esisteva nel seno dell'ebraismo tra partiti, tra le centosette sètte dei tempi di Gesù e di cui ci parla Giuseppe Flavio. È la polemica che esisteva specialmente tra gli Esseni, da cui ha attinto in gran parte Gesù, e i Farisei, considerati dai primi come coloro che perseguivano il falso. 

Ritenere poi l'ebraismo come finito e superato dalla nuova religione è una affermazione che la storia ha abbondantemente confutato. Durante duemila anni, in condizioni ambientali difficili, l'ebraismo ha continuato a dare prova di straordinaria vitalità creativa sul piano religioso, culturale, scientifico e politico. La civiltà occidentale ha un'impronta ebraica: Gesù, Marx, Freud, Einstein ed altri sono ebrei che hanno caratterizzato varie fasi dello sviluppo della nostra cultura. Recentemente, la rinascita dello Stato ebraico d'Israele è un'altra prova della vitalità dell'ebraismo che la Chiesa voleva finito duemila anni fa!

Il secondo tipo di pericolo che alimenta lo scetticismo difensivo dell'ebreo è implicito nella sua stessa struttura mentale interiore e si identifica nel timore inconscio di perdere la propria identità, il cui sentimento è stato sempre piuttosto debole. Fin dal periodo di gestazione della propria coscienza nazionale, durante l'Esodo, l'inconscio ebraico ha sentito il bisogno di acquisire e fortificare una propria fisionomia, qualcosa che lo definisse e lo differenziasse dagli altri popoli. Questo anelito è implicito nel comandamento della santità intesa come differenziazione. L'inconscio ebraico esprime con questo comandamento il desiderio compensatorio di qualche cosa che è carente.

L'ebreo non è mai vissuto da solo in una sua terra e non ha potuto quindi consolidare il proprio sentimento di identità. Nel suo millenario soggiorno in Palestina egli ha coabitato con i cananei, apparentemente detestati e rifiutati, ma nel fondo ammirati, in quanto sedentari e più progrediti tecnicamente, e di qui i numerosi tentativi di sincretismo. Alcuni attributi della divinità ebraica, come El, Shaddai, derivano dal pantheon cananeo; molti illustri personaggi della storia d'Israele avevano dei nomi che terminavano con la designazione della divinità cananea Baal: così un cugino di Saul, addetto al vettovagliamento dell'esercito israelita, si chiamava Meribbaal (Dio esiste), un figlio di Saul era Eshbaal (Dio è misericordioso), un celebre Giudice, Gedeone, si chiamava lerubaal, ed anche un figlio di David aveva un nome che terminava con Baal. Un re di Israele, Geroboamo I, aveva introdotto verso il novecento avanti l'era volgare il toro d'oro, simbolo cananeo, nel santuario ebraico come sostegno al Dio invisibile.

Estintisi i cananei, gli ebrei hanno subito per duecento anni la dominazione greca e l'ellenismo ha fatto ampie brecce su di essi, specie nelle classi dominanti. Si parlava il greco, si costruivano ginnasi, stadi, statue di divinità greche; alcuni sacerdoti avevano nomi greci, come Menelao, Giasone. Anche più tardi, alcuni re asmonei avevano cambiato il loro nome ebraico in uno greco: Ircano, Aristobulo, Aristarco, Archelao, Antigono. Davanti a questa assimilazione, prima greca e poi romana, l'inconscio collettivo ebraico ha cercato di rafforzare e di esprimere una propria identità. Sono sorti così dei gruppi politico-religiosi, i Farisei, che hanno sviluppato una sempre più densa e ricca precettistica di comportamenti e di azioni che entravano a far parte minuziosamente della quotidianità dell'ebreo: le mitzvot.

Gesù cresce e predica allorquando queste mitzvot stanno per essere fissate in un canone che in seguito diverrà la Mishnà. Gesù antepone a questa precettistica il comandamento dell'amore per Dio e per il prossimo che non costituisce di per sé nulla di nuovo. Il Levitico afferma di dover amare il prossimo come se stesso e gli ebrei da tremila anni ripetono mattina e sera che bisogna amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la personalità. Un celebre rabbino fariseo, Hillel, a un pagano che gli chiedeva cosa fosse l'ebraismo, rispose: "Non fare ad altri ciò che non vuoi sia fatto a te stesso". Il nuovo, in Gesù, risiede nell'aver anteposto alla precettistica farisaica l'aspetto essenziale dell'ebraismo: l'amore per Dio e per il prossimo.

Ma l'amore, espressione di una personalità matura, comporta inevitabilmente una relativizzazione della precettistica superegoica e con ciò mette in crisi l'identità ebraica che attraverso le mitzvot si differenziava e si differenzia dai non ebrei; per questo Gesù non fu accettato e la situazione non è cambiata nei successivi duemila anni, durante i quali al timore di perdere la propria identità attraverso Gesù si è aggiunto l'antisemitismo che ne ha fatto il simbolo del mondo ostile all'ebraismo.

L'ebreo moderno deve comprendere più a fondo il significato interiore della propria religiosità. Questa presa di coscienza non è accettata da colui che è identificato nel credo rivelato, e forse è bene che sia così. Coloro i quali, e sono oggi la maggioranza, non si ritrovano nella religione ufficiale, debbono cercare dentro di sé la strada verso la trascendenza. 

Sul piano psicologico, come ha dimostrato Jung, esiste un'equivalenza tra l'anelito all'autorealizzazione conscia della propria personalità e la religiosità. I simboli che catalizzano ed esprimono il dinamismo verso l'autorealizzazione della propria totalità sono gli stessi che vivificano e definiscono l'esperienza religiosa. Chiunque accetta la strada della realizzazione della propria peculiarità sente che questa fa parte di un disegno esistenziale trascendente cui il soggetto si subordina per la propria salute. Solo la realizzazione della propria differenziazione conferisce forza al sentimento d'identità dell'ebreo moderno.

Solo allora questi può accettare Gesù come ebreo, simbolo d'amore, senza sentirsi annullato, senza il timore di tradire. Saprà cioè distinguere il Gesù ebreo dal Cristo dogmatico amministrato e propagandato dalle chiese cristiane; potrà accettare Gesù come ebreo senza per questo divenire cristiano. Cesserà la difesa dello scetticismo e l'ipersensibilità che esprime l'anelito ebraico inconscio verso Gesù ebreo e, nello stesse tempo, il rifiuto. 

L'ebreo è allora, da parte sua, pronto al dialogo con i cugini cristiani. Il cristianesimo deve, a sua volta, sradicare dall'animo dei suoi fedeli la ripulsa verso l'ebreo, sotto qualunque forma essa si presenti. Non bastano dichiarazioni ufficiali della chiesa conciliare per porre fine all'antisemitismo. Occorrerà molto tempo prima che il rifiuto dell'ebreo sia sradicato dall'animo cristiano. Il cristianesimo dovrà inoltre rinnestare il suo ramo nel vecchio tronco di ulivo dell'ebraismo da cui proviene e bere così alle fonti delle sue origini. 

L'interesse di questi ultimi decenni da parte cristiana verso lo studio della Bibbia è il sintomo di questo movimento storico, culturale, psicologico verso le origini. Il cristiano potrà allora integrare la figura storica e dogmatica di Gesù con quella del Cristo, simbolo di un'esperienza psicologica profonda. Questa presa di coscienza renderà l'animo del cristiano autenticamente cristiano e cesserà l'ignoranza e il trionfalismo verso l'ebraismo e sarà pronto a un dialogo autentico con l'ebreo su un piano di uguaglianza. 

L'eroe cristiano, dopo duemila anni di navigazione nell'oscurità della notte, ritornerà a terra, contribuendo alla realizzazione dell'ideale messianico ebraico, che è attuazione del regno di Dio, non solo nella dimensione dello spirito e quindi dei cieli, come vuole il cristianesimo [1], ma anche nel mondo, nella quotidianità dell'esistenza terrena, come l'ha concepito l'ebraismo; l'uomo, testimoniando la gloria di Dio, porta quest'ultimo in terra o, in altre parole, l'archetipo di Dio diventa cosciente nell'uomo. Questo è il senso profondo del patto tra l'eterno e il popolo d'Israele, come paradigma di un significato valido per tutta l'umanità.

Uniti in un dialogo altamente creativo, ebrei e cristiani contribuiranno a diffondere e intensificare l'idea monoteistica, con tutto quello che questo implica sul piano psicologico profondo, continueranno ad additare nuove strade all'uomo moderno per la soluzione della propria religiosità o, il che è la stessa cosa, per l'autorealizzazione conscia del proprio disegno esistenziale, lo sviluppo della propria differenziazione.

Il dialogo tra ebrei e cristiani, così come è concepito, è solo un aspetto di superficie sotto il quale si svolge una realtà più profonda: è il tentativo con cui inconsciamente sia gli ebrei che i cristiani cercano di convincere se stessi sulla validità di alcune verità che vivono nei loro reciproci inconsci e che essi coscientemente rifiutano e non vogliono vedere. In altre parole, ebrei e cristiani proiettano queste verità vicendevolmente gli uni sugli altri. 

Il dialogo ebraico-cristiano è un tentativo indiretto e proiettivo di incontrare, riconoscere e assimilare le proprie verità inconsce. Solo in questa luce, realizzando il suo senso profondo, il dialogo diventa fruttifero e terapeutico sia per gli ebrei che per i cristiani. In ultima analisi, dietro l'incontro tra ebrei e cristiani, ognuno di essi cerca, senza rendersene conto, di conoscere e arricchire se stesso.

Al di là delle componenti teologiche e storiche, il vero motivo degli ostacoli al dialogo è costituito da quella che la psicoanalisi chiama una "resistenza", ossia il rifiuto inconscio all'accettazione di alcune verità che, appunto perché rimosse, finiscono con l'essere proiettate sugli altri, gli ebrei sui cristiani e i cristiani sugli ebrei. Conoscersi reciprocamente, dialogare vuol dire scoprire che l'altro, con le sue fondamentali verità, è anche una parte che esiste dentro di noi, che le sue verità sono anche le nostre verità; si ritira la proiezione, ci si integra, ci si completa e ci arricchiamo umanamente. 

La maturazione, per l'ebreo, passa attraverso un riconoscimento e una sistemazione oggettiva del problema Gesù, senza scetticismi e ipersensibilità. Il cristiano deve prendere coscienza di un risveglio, nell'inconscio collettivo dei nostri tempi, della religiosità monoteista di cui gli ebrei sono portatori da quattromila anni. Deve diventare anche lui, come lo sono gli ebrei, un sacerdote di Dio, vivere secondo il suo insegnamento, deve inserirsi coscientemente nel patto biblico tra Dio e Israele. 

In senso psicologico, l'archetipo della totalità o archetipo di Dio chiede di essere riconosciuto coscientemente dall'uomo moderno e che venga accettata l'individuazione che da esso promana: "Siate santi (differenti), poiché lo sono Santo (differente)". Questo è il senso profondo del messaggio biblico che torna d'attualità nei nostri tempi. L'accettazione dell'individuazione, nella strada dell'amore, è il comandamento d'attualità, per ebrei e cristiani; è l'antidoto alle sofferenze, ai pericoli esteriori e interiori che minacciano la nostra società, è una strada di salute.
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[1] - Quest'affermazione non appare esatta, alla luce del valore imprescindibile che il cristianesimo dà all' "Incarnazione", intesa nel duplice e strettamente interconnesso significato: il Figlio di Dio che si è "fatto uomo" ed il corrispondente concreto coinvolgimento di ogni cristiano in ogni situazione personale e collettiva. Si tratta dell' immersione consapevole e responsabile, negli eventi quotidiani e in quelli di più ampio respiro, che non si pone in termini semplicemente umanitaristici, ma avviene con amore, nel Signore; il che significa nel dinamismo vitale della Risurrezione. La Redenzione non appartiene ad un futuro a venire; ma all' "hic et nunc" della storia, all'oggi che corrisponde all' "ottavo giorno": il primo giorno della "creazione nuova". Si tratta di un "già e non ancora perfettamente compiuto", ma quel "già" è inequivocabilmente e gioiosamente "presente". Che poi moltissimi, che si dicono cristiani, purtroppo non vivano questa realtà questo è un altro discorso. [Nota della Redattrice]


Saggio pubblicato in: Gianfranco Tedeschi, L' ebraismo e la psicologia analitica - Rivelazione teologica e Rivelazione psicologica, p. 83-88, Editrice La Giuntina, 2000

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