Tra gli appuntamenti che
scandiranno la visita di Benedetto XVI nella città tedesca, molto atteso è
quello che porterà il Papa a visitare l’antica sinagoga di Colonia. L’incontro
con la comunità ebraica locale, a 60 anni dalla fine della Seconda guerra
mondiale e dalla Shoah, si preannuncia come un evento nell’evento.
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Al Prof. Giorgio Rumi,
docente di Storia contemporanea all’Università statale di Milano,
Alessandro De Carolis ha chiesto se il gesto del Papa possa considerarsi un
balzo in avanti della storia o più semplicemente un segno figlio dei tempi:
R. – Direi che si tratta di
un balzo in avanti della storia, senz’altro. Già nelle ossature
fondamentali dell’evento si capisce la sua eccezionalità. Un Papa tedesco
in una sinagoga, dopo quello che è successo e che, secondo me, pesa anche
troppo sulla vita e sulla coscienza tedesca. Abbiamo bisogno di una Germania
libera da incubi. Io vedo nel viaggio del Papa, oltre agli ovvii significati
religiosi, anche significati civili. Non è un andare a Canossa, per
paradosso: si tratta invece di un gesto buono, santo, utile e da europeo non
posso che compiacermene.
D. – Si è disquisito a
lungo e giustamente sulla visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma
nell’86. Con il suo prossimo gesto, così carico di simbolismi come lei
ricordava, Benedetto XVI si accinge a raccoglierne l’eredità, ma forse
anche a superarla in qualche modo…
R. – Sì. La visita di Roma
aveva un grandissimo significato, proprio perché Roma dal punto di vista
religioso è quella che tutti noi conosciamo. C’è poi anche una storia
domestica: a Roma gli ebrei, fino alle tragiche vicende del ’43, in una
situazione migliore che non altrove: il governo pontificio, dunque, non era
così “malvagio” come certi invece dipingono. Certamente, la loro non era
una situazione ideale. Giovanni Paolo II, facendo un viaggio di poche
centinaia di metri, ha rotto questa specie di cappa che gravava sulle nostre
coscienze. La visita di Benedetto XVI, in sostanza, allarga l’orizzonte al
mondo. La Chiesa va in sinagoga e questo chiude una dolorosa storia e ne apre
una nuova, che rappresenta un balzo della storia.
D. – Dall’Olocausto ad
oggi, si sono succeduti sei pontificati, compreso l’attuale appena agli
inizi e quello brevissimo di Papa Luciani. Come valuta l’occhio dello
storico l’evoluzione dei rapporti tra cattolicesimo ed ebraismo in questo
arco di tempo?
R. – Lei ha fatto bene a
parlare di cattolicesimo ed ebraismo. Si è passati da quella specie di
maledizione o di deprecazione degli ebrei ad una condizione di fraternità,
anzi una specie addirittura di ‘maggiorasco’, di maggiore dignità del
fratello maggiore ebreo. Il cammino è stato, quindi, lungo ed importante. In
questo caso, è tutta la cattolicità che ritrova un nuovo dialogo con questi
fratelli maggiori.
D. – E questo grazie anche
- possiamo dire - al Concilio Vaticano II e quindi ai due grandi Papi di quel
periodo, e cioè Giovanni XXIII e Paolo VI…
R. – Naturalmente. Non
dobbiamo dimenticare che Papa Montini era il sostituto in Segreteria di Stato
dal ’37, se non sbaglio, e quindi gli anni chiave della guerra li ha vissuti
sulla sua pelle. Giovanni XXIII aveva visto gli ebrei dal suo osservatorio,
soprattutto quello di Costantinopoli, e poi dalla Francia, dove c’era stato
il trauma di Vichy, che non fu certo una cosa da poco. I due Papi che lei ha
citato hanno davvero fatto molto ed è bene ricordarlo.
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[Fonte: Radio Vaticana 9 agosto 2005]