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Il dovere di opporci. Riccardo Di Segni,
Rabbino Capo di Roma
C’è uno strano silenzio dei diversi esponenti
dell’ebraismo italiano su un tema che è stato tanto dibattuto in Italia negli
ultimi mesi, quello dei Dico, la legge sulle convivenze che è stata presentata e
poi rallentata nel suo iter parlamentare. Anche” Shalom”, che nello scorso mese
ha pubblicato alcuni articoli dell’argomento, ha dato delle spiegazioni, ma non
ha riportato dichiarazioni e pronunciamenti ufficiali, né poteva farlo perché
fino a quel momento non c’erano stati… qualcuno, forse non bene informato, ha
sostenuto che un presunto nostro silenzio sarebbe dovuto alla riluttanza a non
condividere pubblicamente le posizioni della Chiesa… Passando invece al
dibattito sui Dico, che coinvolge più in generale i temi delle politiche dello
Stato sulla famiglia, è vero e anche strano che le istituzioni ebraiche non
siano finora intervenute. Ma ci sono due buoni motivi perché questo silenzio
debba essere rotto.
Il primo dei due buoni motivi è esterno, nel senso che coinvolge la
responsabilità dell’ebraismo verso la società esterna, l’altro è interno,
riguarda la struttura e il futuro della nostra comunità. Vediamo il primo. Uno
dei temi più delicati e controversi nella proposta di legge sui Dico è il
riconoscimento giuridico delle convivenze tra persone anche dello stesso sesso;
non è certo il matrimonio omosessuale accettato formalmente in altri Paesi, ma
in ogni caso è una prima forma di riconoscimento legale di unioni omosessuali.
Nel dibattito su questo tema entrano in gioco elementi di principio dei
fondamenti della società moderna, la questione della laicità dello Stato, le
libertà individuali, l’interferenza dei principi religiosi eccetera.
Che cosa ha da dire in proposito la tradizione ebraica? Una posizione politica
abituale tra gli ebrei e spesso condivisa anche tra i più osservanti è quella di
non intervenire nelle scelte di libertà che lo Stato fa per i suoi cittadini,
riservando solo alla coscienza individuale il diritto e dovere di fare scelte
rigorose personali su argomenti nei quali la legge dello Stato concede spazi
permissivi e di libertà. Ma questa non è una regola che può valere sempre:
secondo la Torà gli ebrei devono osservare 613 regole, ma questo non vuol dire
che i non ebrei non debbano avere alcuna regola, perché in realtà le hanno anche
loro, inquadrate in sette capitoli fondamentali (i cosiddetti precetti Noachidi,
legge naturale); ed è nostro dovere come ebrei indurre i non ebrei a rispettare
le loro regole. Come questo si possa realizzare è difficile dirlo,
certo è che non possiamo rimanere indifferenti al superamento di
determinati limiti, acconsentendo per esempio che la legge dello Stato ammetta
l’omicidio, il furto, l’incesto. L’argomento di cui ora si dibatte rientra per
certi suoi aspetti (non le convivenze in generale, quanto specificamente le
coppie omosessuali maschili) in limiti ritenuti insuperabili. Il problema non
sembra neppure tanto nuovo, come testimonia un passaggio del Talmud Babilonese (Chulin
92b) nel quale si dice che tra i pochi limiti che le nazioni del mondo non hanno
superato c’è quello che non hanno ancora consentito di scrivere la Ketubbà ai
maschi, anche se non stanno certo attenti a rispettare il divieto delle pratiche
omosessuali; la Ketubbà è il contratto nuziale nel quale lo sposo si impegna con
la sposa; «scrivere la Ketubbà ai maschi» significa sancire l’omosessualità con
un regime di garanzie giuridiche ed economiche.
Insomma, anche se questo atteggiamento potrà essere considerato poco politically
correct secondo la sensibilità attuale, non dobbiamo ignorare che secondo la
nostra tradizione la società che sta per compiere queste scelte supera
abbondantemente limiti illeciti e nostro dovere è opporci a queste scelte,
non rimanere indifferenti. Ovviamente gli unici nostri strumenti sono quelli
della democrazia: la parola, il voto, ma non possiamo fare a meno di usarli.
L’obiezione fondamentale è che in questo modo andiamo contro il libero diritto
alle scelte individuali; ma su temi di «frontiera» come questi, che non sono
affatto condivisi da ampie maggioranze, c’è anche il diritto (e il dovere) al
dissenso; e non esistono mai diritti illimitati e alla definizione del limite si
è chiamati collettivamente a decidere.
Il secondo motivo per il quale il dibattito in corso non ci deve lasciare
indifferenti riguarda le tematiche generali della famiglia. Questa legge
è l’espressione di un mutamento radicale nelle strutture della società
contemporanea, nella quale il tradizionale istituto della famiglia non
rappresenta più il modello assolutamente prevalente di organizzazione. La
società cambia e la legge ne deve tenere conto. Quindi non avrebbe senso
accanirsi contro una legge che cerca di dare qualche tutela e sicurezza, nonché
di garantire delle forme di solidarietà verso i deboli che nella nostra
tradizione sono di importanza essenziale. Quindi, salvo la riserva principale
espressa sopra, se il problema è la difesa dei deboli dobbiamo essere
favorevoli; ma bisogna vedere se questo è veramente il problema, e se la legge
proposta sia in grado di risolverlo. Ma il problema per noi è un altro, perché
il dibattito generale in corso ha deformato le prospettive, riducendo la
questione all’opposizione tra i difensori delle libertà civili e i difensori
(come la Chiesa Cattolica) del modello tradizionale di famiglia. È un dibattito
appassionante, ma se ci si ferma a queste due polarità si rischia di ignorare
quello che deve essere il vero problema per noi e che sta all’origine della
legge e che, a parte questa legge, ci coinvolge come ebrei italiani in un modo
devastante, anche se sembra che non ce ne siamo ancora accorti: la società
ebraica italiana (come nel resto del mondo occidentale) ha fatto suoi i modelli
di organizzazione della società non ebraica, anzi molto spesso li ha anticipati,
ma il prezzo che ha pagato e sta pagando per questa sua scelta collettiva è
l’evoluzione verso la drastica contrazione numerica, in alcuni luoghi quasi
l’estinzione...
In alcune Comunità c’è stata una
riduzione percentuale fino al 45%. Solo Roma sembra essersi un po’ salvata dal
«ciclone» demografico, ma i risultati attesi a medio termine non sono
incoraggianti. Le cause del disastro sono molteplici: ci si sposa di meno e
molto più tardi, si fanno molti meno figli (anche perché ci si sposa tardi), i
vincoli matrimoniali sono molto instabili (separazioni, divorzi), la popolazione
generale invecchia e il numero dei morti ogni anno supera quello dei nati. A
questo si aggiunge il problema dei matrimoni misti (quando ci sono, molto spesso
sono solo convivenze); senza entrare nel merito delle problematiche religiose,
è innegabile dal punto di vista sociale che queste unioni sono il segno di un
rapporto debole con l’ebraismo e che da due partner, uno non ebreo e l’altro
debolmente legato all’ebraismo, nella grande maggioranza dei casi la discendenza
sarà ancora più debolmente legata all’ebraismo e a ben poco servirà, in termini
ebraici, la conversione formale richiesta da un genitore. Questo è ciò che per
noi significa modificazione (o crisi) del modello tradizionale della famiglia.
Forse la società circostante si può permettere (fino a un certo punto) di
rimodellarsi secondo le modificate condizioni economiche e sociali. Noi no. E
allora deve essere chiaro che se facciamo del dibattito sui Dico una bella
questione di diritti civili non abbiamo ancora capito niente dei nostri veri
problemi. È urgente una presa di coscienza di tutti e della leadership in
particolare e l’inizio di una politica seria sul tema della famiglia.
Riccardo Di Segni
*Rabbino Capo di Roma
[Fonte: Shalom
maggio 2007 - YIAR 5767
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