Discorso del Presidente del
Senato Prof. Marcello Pera alla Hebrew University - Gerusalemme, 29 Maggio 2003.
1. Credenze e problemi
Inizio elencando tre cose in cui credo fermamente, tutte e tre connesse alla
democrazia.
La prima cosa in cui credo è una definizione. Seguendo un pensiero diffuso, io considero la democrazia come quel
regime in cui il cambiamento di governo avviene in modo pacifico, mediante libere elezioni e senza violenza.
La seconda cosa in cui credo è un fatto storico. La democrazia è nata in Occidente. Essa deriva soprattutto dalla
lunga lotta degli individui europei contro i poteri assoluti, secolari o religiosi.
La terza cosa in cui credo è un valore. La democrazia è un bene universale, perciò non solo un fatto che riguarda
una parte del globo ma un dovere per tutti i popoli.
Queste tre credenze sollevano almeno due problemi. Il primo è: se la democrazia è un fatto occidentale, la sua
trasformazione in valore universale non equivale ad una forma di imperialismo? Il secondo è: se la democrazia è un
fatto dell’Occidente, può essere esportata in altre aree? Credo che questi problemi possano essere risolti e
cercherò di spiegare perché.
2. Democrazia e imperialismo
Comincio dal primo problema: la democrazia è una forma di imperialismo
occidentale?
Per argomentare la mia risposta negativa, farò uso della definizione che ho adottato. Se la democrazia è un regime
che bandisce la violenza per cambiare i governi, allora la democrazia si basa sul dialogo. In un regime democratico i
governi si sostituiscono discutendo liberamente i meriti e i demeriti dei governanti.
“ Dialogare” però è più che “discutere”, perché il dialogo ha un fine pratico. Il dialogo è una
discussione che mira ad indurre un cambiamento di opinione, un’azione. Tipicamente, nelle democrazie, l’azione del
voto.
Questo significa che il dialogo implica - in qualche significato del termine “implicare” - un appello alla
ragione: se discuto con un altro per fargli cambiare opinione, significa che riconosco a lui la capacità di seguire i
miei argomenti, di svolgerne di propri, di confrontare i suoi con i miei. Il dialogo stabilisce una sorta di
“cittadinanza della ragione”, la quale richiede la tolleranza per le persone e le loro opinioni, qualunque siano.
Ma questo non è tutto. Il dialogo è una relazione simmetrica: così come io voglio che l’altro accetti il mio
punto di vista, l’altro vuole che io abbracci il suo punto di vista. Il dialogo, perciò, implica il rispetto. E il
rispetto è più della tolleranza. La tolleranza è una virtù passiva che riconosce soltanto un interlocutore con le
sue proprie opinioni. Il rispetto è una virtù attiva che, oltre a far ciò, riconosce all’interlocutore la
possibilità di cambiare le mie proprie opinioni. La tolleranza va in una sola direzione, il rispetto va in entrambe
le direzioni, avanti e indietro.
Sottolineo questa differenza perché, soprattutto nei paesi europei che hanno importanti minoranze religiose - in
Italia, ad esempio, vivono circa un milione di musulmani - si tende a credere che la tolleranza sia sufficiente per
assicurare l’integrazione. Non è così. La sola tolleranza rischia di creare delle comunità chiuse, e perciò
tensioni e conflitti. La vera integrazione richiede che a ciascuna comunità sia riconosciuto il diritto di ibridare
ciascun’altra. Si ricordi che il dialogo mira a far cambiare opinione, ma non necessariamente l’opinione degli
altri, anche la nostra. Come Popper soleva dire, il successo di un dialogo fra A e B non dipende dal fatto che A ha
convertito B, ma dal fatto che, dopo lo scambio delle loro opinioni, A e B sono diventati più saggi, cioè
intellettualmente più ricchi, perché ciascuno ha compreso meglio le ragioni dell’altro.
Tutto questo mi mette in condizione di rispondere alla mia domanda sulla democrazia come una sorta di imperialismo
occidentale. Se la democrazia si basa sul dialogo, allora la democrazia si basa sul consenso, non sull’imposizione.
L’idea che la democrazia possa essere portata avanti contro la volontà di un popolo è tanto incoerente quanto
l’idea che si possa fare un dialogo indottrinando l’interlocutore o, peggio, eliminandolo.
Si potrebbe obiettare che la storia mostra il contrario. Si dice, ad esempio, che Italiani e Tedeschi furono obbligati
ad accettare la democrazia dopo la seconda guerra mondiale. Ma questo è sbagliato. La seconda guerra mondiale ha
abbattuto due regimi dispotici - il Fascismo e il Nazismo - ma da sé sola non ha imposto la democrazia. Dopo la
guerra, l’Italia e la Germania diventarono paesi democratici perché i loro popoli lo vollero, e ci riuscirono perché
essi si rifecero a loro precedenti e ben radicate tradizioni.
Questa esperienza deve essere ricordata anche dopo la seconda Guerra del Golfo. Eliminato il dittatore, la sfida ora
è la creazione di una tradizione di dialogo e rispetto nella società irakena. E lo sforzo maggiore deve essere fatto
per creare le condizioni - tramite i commerci, la predicazione, l’educazione, l’amministrazione, la legislazione,
ecc. - affinché questa nuova tradizione secolare attecchisca e si coniughi con le precedenti tradizioni locali,
culturali e religiose.
Le tradizioni sono fondamentali. Le istituzioni democratiche evolvono secondo specie diverse perché le tradizioni
locali le alimentano ciascuna a suo modo. L’idea che esista un unico modello di democrazia è ingenua e sbagliata
quanto l’idea che ci sia una sola specie animale. Nella pratica, le democrazie evolvono assieme alle loro
tradizioni, e se le istituzioni democratiche richiedessero norme di condotta ampiamente rifiutate dalla società,
facilmente degenererebbero.
3. Esportare la democrazia
Credo ora di poter più facilmente risolvere il mio secondo problema: è
esportabile la democrazia? Poiché la democrazia prende forme diverse a seconda delle tradizioni locali che
interagiscono con essa, la questione, riferita ai paesi di tradizione islamica, diventa: la tradizione islamica è
incompatibile con la democrazia?
Alcuni studiosi occidentali sono piuttosto scettici. La loro opinione è che le democrazie presuppongono la
separazione tra religione e moralità dalla legge e lo stato, o la separazione dello stato dalla società civile. In
altri termini, essi ritengono che la democrazia richieda il riconoscimento della neutralità morale dello stato. E
poiché questo concetto è estraneo alla tradizione islamica ed è esplicitamente rifiutato da molti musulmani, ne
deriverebbe che la democrazia è incompatibile con l’Islam e non può essere esportata nei paesi islamici.
Contro questo punto di vista, si potrebbe obiettare che esistono parecchi paesi - la Turchia è uno di essi - che, per
costituzione o di fatto, hanno accettato quelle distinzioni. Tuttavia, il problema non può essere risolto così.
Poiché ha natura culturale, si deve prendere una posizione concettuale anziché storica.
Al pari del Cristianesimo, l’Islam è un’entità complessa in cui convivono sfumature diverse e anche radicali
divergenze. Al meglio della mia (povera) conoscenza, non vedo nell’Islam alcun elemento essenziale che sia in
contrasto irriducibile con gli aspetti culturali fondamentali delle istituzioni democratiche. Tuttavia, poiché
l’obiezione si riferisce ad un supposto aspetto della democrazia, affronterò la questione da questo lato.
Il mio punto di vista è che, strettamente parlando, la neutralità etica dello stato è un mito. Essa non è stato
realizzata pienamente in nessuna parte dell’Occidente, e vi sono buone ragioni per credere che non possa essere
realizzata. È sbagliato considerare le opinioni religiose come mere espressioni appartenenti soltanto alla sfera
privata delle scelte individuali. Le opinioni religiose hanno conseguenze sulle politiche pubbliche. Gli accesi
dibattiti su questioni come l’aborto, l’eutanasia, l’uso delle biotecnologie, sono legati a profonde opinioni
religiose e morali. E se la poligamia è proibita per legge, è perché siamo tutti figli della comune tradizione
giudaico-cristiana.
Perciò la neutralità morale dello stato non è una questione del tipo “tutto o nulla”. È piuttosto una
questione di gradi. Per quanto riguarda i princìpi morali, il problema più importante per le democrazie non è come
realizzare pienamente la neutralità dello stato, ma, piuttosto, come far fronte alle lotte causate da profonde
divergenze morali e religiose.
Qui torna utile il concetto di rispetto. Dopo le lunghe e aspre guerre di religione, gli europei hanno acquisito
l’abito del reciproco rispetto. I dibattiti possono essere aspri, ma la gente tende a comprendere le ragioni dei
disaccordi. Per questi disaccordi non ci sono soluzioni facili, ma ciò che il rispetto ci consente di raggiungere è
un ragionato, e sempre temporaneo, compromesso che salvi un comune modus vivendi. E ciò che il rispetto ci conduce ad
accettare sono quei compromessi giuridici e istituzionali che mantengono la coesistenza pacifica.
Personalmente, non vedo alcuna ragione per credere che anche i paesi più fondamentalisti non siano in grado di
raggiungere simili compromessi che siano compatibili con la democrazia. Le società autocratiche possono sopravvivere
solo in un ambiente statico, ma il mondo oggi cambia in fretta. La televisione, Internet, e i rapidi progressi
scientifici e tecnologici producono naturalmente società pluralistiche, perché tipicamente la gente reagisce in modi
diversi alle novità. Ciò parzialmente spiega perché i regimi dispotici abbiano di solito breve durata.
Naturalmente, il crollo di un regime dispotico può essere seguito da un altro regime dispotico. Non c’è alcuna
necessità storica che la democrazia sostituisca il dispotismo, ma non c’è neppure alcuna impossibilità storica
che il dispotismo non sia seguìto dalla democrazia.
4. Le piaghe dell’Europa e la coesistenza fra i popoli
Mi sia concesso di concludere discutendo alcuni problemi politici più attuali
che io ritengo possano essere trattati secondo lo schema concettuale che ho cercato di tracciare.
La storia dei popoli europei, e quella del popolo ebraico e arabo, insegnano che nessun determinismo storico né
teologico prescrive una reciproca irriducibile inimicizia. L’Europa non è soltanto il ghetto dove si è consumata
la persecuzione degli ebrei. È anche la patria del sionismo e il luogo dove, più volte, si è realizzata la
convivenza fra ebrei e musulmani: nella Penisola iberica alto-medievale, ma anche nei Balcani, sotto il dominio
musulmano. I vantaggi reciproci sono stati enormi per i due popoli, in termini materiali ma anche, e più
durevolmente, culturali.
Le recenti mancanze dell’Europa non possono tuttavia essere passate sotto silenzio. L’Europa ha prestato scarsa
attenzione all’influenza esercitata dal nazismo prima e dal comunismo poi in alcuni paesi arabi chiave. Ha concepito
gli stati mediorientali in modo alquanto cinico, come se fossero mere entità geografiche. Dopo la nascita di Israele,
si è disinteressata di quella tradizione di dialogo e contaminazione fra popoli di diverse culture che per secoli ha
costituito parte essenziale della sua eredità. Oggi l’Europa corre lo stesso rischio con Israele, sottostimandone
le preoccupazioni e paure.
Sfortunatamente, l’Europa si sta dimenticando di essere un ibrido tutto speciale: è figlia di Gerusalemme, di
Atene, di Roma, e poi di Parigi, Amsterdam, Cambridge, Firenze, Pisa, Könisberg, dove sono nati e hanno operato i
suoi tanti celebri padri. Lo scetticismo, il relativismo, il post-modernismo, il multi-culturalismo, e tante altre
piaghe intellettuali simili affliggono l’Europa, ne mettono a rischio l’identità e ne minacciano il ruolo da
protagonista che ha giocato per secoli. Come la natura di Eraclito, oggi l’Europa ama nascondersi.
Questo fenomeno di ritirata dell’Europa dalle sue stesse radici ha provocato, fra l’altro, la diffidenza di
Israele verso il Vecchio Continente, ed è alla base dell’incomprensione europea del fenomeno del terrorismo. Da
parte loro, i mussulmani integralisti hanno cercato in Europa - soprattutto nelle frange radicali dei movimenti
no-global e pacifisti - un interlocutore privilegiato per la loro guerra di civiltà.
Tutto questo può e deve essere corretto. La mia tesi è che se l’Europa riscopre le motivazioni della sua natura e
identità democratica, le apprezza e le protegge, se Israele percepisce che l’Europa, grazie a questa riscoperta,
difende fortemente in primo luogo il diritto del popolo israeliano ad una esistenza sicura, allora né la storia
recente dei paesi arabi, né i tragici fenomeni del fondamentalismo islamico, né la religione islamica in quanto
tale, sono un ostacolo insormontabile ad una coesistenza pacifica. E anche la diffidenza di Israele per l’Europa
cesserà.
Per concludere e tornare ai miei problemi iniziali. Credo che la democrazia sia un valore universale, e credo anche
che i regimi democratici possano nascere ovunque in un mondo che cambia velocemente, anche se fra molte difficoltà e
in molti modi diversi. I filosofi puristi non saranno contenti dei compromessi giuridici e istituzionali che ciascuno
di questi modi comporta, e, come filosofo, anch’io, per molti aspetti, non sono particolarmente contento. Ma sono
anche un politico, sia pure temporaneo. E perciò credo che ciò che più conta non sia la felicità intellettuale dei
filosofi ma la saggezza morale dei politici. Essi possono battersi per la cooperazione fra popoli di diverse culture,
tradizioni, abiti, valori. E, se possono, allora devono.
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