Articolo di Carlo Panella, pubblicato a
pagina 2 dell'inserto dal FOGLIO di sabato 30 luglio 2005 che ricorda i
"gesti di eccezionale gravità contro Israele e contro gli
ebrei" compiuti dalla Santa Sede.
La polemica
di questi giorni tra Israele Santa Sede è apparentemente sorprendente.
Sul soglio pontificio infatti dopo Giovanni Paolo II, il Papa (il primo)
che visitò la sinagoga di Roma che chiese perdono agli ebrei, siede
proprio Joseph Ratzinger, il teologo che da anni costruisce con
formidabile determinazione i supporti, le impalcature, le strutture, i
ponti del dialogo tra Chiesa ed ebraismo. Dialogo al livello più
profondo, sostanziale, condotto da un pontefice che dà evidente segno di
volere e sapere collocare questa ricerca nello spazio lungo della
storia.
Ma la
polemica c’è, e palpabile, violenta. Ed è indicativo, determinante,
notare che non i vertici, ma solo portavoce – per autorevoli che siano
– la stanno infiammando: da parte israeliana Nimrod Barkan, dirigente
del ministero degli Esteri di Gerusalemme; da parte della Santa Sede Joaquín
Navarro Valls. Sicuramente influisce sulla inusitata asprezza verbale del
dissidio, la accesa fase negoziale sui vari aspetti dei rapporti fra Stati
che interessano la Santa Sede nella Città Sacra di Gerusalemme.
Ma è
palpabile che vi è di più, vi è dell’altro. Da parte israeliana
emerge con chiarezza un senso di risentimento nei confronti non certo del
pontefice, di questo pontefice – o del suo predecessore – ma della
Curia, della Santa Sede nel suo complesso, come Chiesa e come Stato. Il
problema drammatico è che questo risentimento israeliano nei confronti
della Chiesa Cattolica è pienamente giustificato. Le parole recenti di
Navarro Valls sono incredibilmente – dolorosamente per chi lo stima –
al di sotto della opportunità, perché il punto, con tutta evidenza, non
è solo, non è tanto, che il pontefice si ricordi che i morti israeliani
per terrorismo, sono uguali ai morti di tutte le altre nazioni. Il punto
è che la Santa Sede e lo stesso pontefice che più ha fatto per
recuperare il rapporto con gli ebrei e l’ebraismo, Giovanni Paolo II,
hanno compiuto dei gesti di una gravità eccezionale contro Israele,
contro gli ebrei. Il fatto che questi gesti di eccezionale gravità non
siano mai stati autocriticati, ha appunto sedimentato in Israele un giusto
risentimento che fa sì che oggi anche un lapsus – se lapsus era –
rischi di far traboccare il vaso.
Chi ha
organizzato il 13 ottobre 1993 la visita in Vaticano del sudanese Hassan
al Turabi, la stretta di mano tra lui e Papa Woitjla, non poteva non
sapere che egli era in quel momento (come lo è oggi) l’esponente più
autorevole dal punto di vista politico-religioso del più radicato,
sanguinario, violento antisemitismo musulmano ed arabo. Non poteva non
sapere che al Turabi aveva sulla coscienza l’impiccagione per apostasia
nel 1985 di Mohammed Taha, la cui colpa principale era appunto quella di
auspicare un nuovo rapporto tra islam ed ebraismo, depurato dalle
tragiche, millenarie conseguenze teologiche impropriamente tratte dal
conflitto politico che il profeta sostenne con gli ebrei della Medina. Non
poteva non sapere che proprio al Turabi, due anni prima, aveva legittimato
islamicamente la politica di Saddam Hussein, organizzando un consesso
musulmano mondiale che legittimava il jiahd lanciato dal
dittatore baathista in Kuwait. Non poteva non sapere che al Turabi
ospitava nel lusso a Khartoum il terrorista Carlos (autore della strage
degli atleti israeliani di Monaco nelk 1972, del dirottamento di Entebbe e
di tante altre) e Osama bin Laden.
Beninteso,
con al Turabi la Santa Sede doveva avere rapporti, doveva trattare,
proprio a causa del suo ruolo nefasto nella guerra civile in Sudan che
contrapponeva musulmani a cristiani ed animisti. Ma al Turabi aveva, ed
ha, la stessa caratura morale e ideologica di Himmler, antisemitismo
compreso e questo chiude, avrebbe dovuto chiudere la questione.
Ma nessuno,
in Vaticano, è mai ritornato sull’episodio, nessuno ha fatto
autocritica e Israele è rimasta sola, ancora una volta, nella sua
indignazione. Chi ha organizzato il 6 maggio 2001 la visita di Giovanni
Paolo II nella moschea omayyade di Damasco (con l’equivoco di un
apparente omaggio, che però non era tale, perché l’ingresso
nell’edificio era finalizzato solo a pregare cristianamente, in silenzio
sulla tomba di San Giovanni Battista che vi è contenuta), non poteva non
sapere che questo avrebbe inflitto una pesante, insopportabile umiliazione
non solo a Israele, ma anche agli ebrei. Non poteva non sapere che il
presidente Bashar al Assad avrebbe usato quell’occasione per pronunciare
frasi intollerabilmente antisemite, per accusare gli ebrei di deicidio, di
varie infamità religiose e di avere eletto Ariel Sharon perché più
“razzisti dei nazisti”. Il Papa – questo fatto incredibile è
successo – ha ascoltato in silenzio quelle frasi che non poteva
ascoltare in silenzio. Non ha replicato. Tutta la Siria, tutto il mondo
arabo hanno visto il Papa tacere davanti al raìs di Damasco che insultava
non solo Israele, ma anche e soprattutto gli ebrei.
Navarro
Valls il giorno dopo – con secchezza – si è appellato al codice
diplomatico e al rifiuto di commentare “le parole di un Capo di
Stato”. Pessima scusa. Terribile sbaglio, aggravato da un altro
imperdonabile silenzio. Nella delegazione che aveva ricevuto il pontefice
a Damasco, primeggiava infatti la vera eminenza grigia del regime siriano,
il trentennale ministro della Difesa Mustafa Tlas, autore del pamphlet
“Il pane azzimo di Sion”, venduto a decine di migliaia di copie in
tutto il mondo arabo.
La sostanza
è che la Santa Sede e i pontefici si sono rapportati da sempre nei
confronti di Israele come se si trattasse di uno Stato qualsiasi, si sono
rifugiati (i due episodi sopracitati, così come le parole di Navarro
Valls di questi giorni lo illustrano senza dubbio) nell’illusione di
potersi riparare dietro collaudate, universali, procedure diplomatiche.
Naturalmente questo atteggiamento è comprensibile, ma il problema
drammatico, visto il patrimonio di antisemitismo di cui la Chiesa
cattolica si è resa responsabile, visto il peso straordinario che i fatti
di Damasco del 1840 hanno oggi nei paesi arabi (vanno in onda
continuamente delle situation commedy in cui ebrei torvi e col
nasone sgozzano cristiani per berne il sangue), è che la Santa Sede non
ha mai fatto cenno alla reiterata volontà araba di distruggere
Israele.
La Santa
Sede non ha mai affrontato il nodo, il vero nodo, di un “rifiuto di
Israele” che ab initio, con la leadership del Gran Muftì
palestinese (alleato dei nazisti), non è solo un problema di “terra”,
ma è soprattutto un problema di fede, di fanatismo musulmano che ritiene
che Allah abbia donato in eterno la Palestina agli arabi e che nessuno
possa mettere in discussione questo loro diritto divino. Esiste un solo
Stato al mondo il cui mancato riconoscimento da parte di altri Stati ha
creato cinque guerre in cinquantotto anni, con decine di migliaia di
vittime. Questo Stato è Israele. A tutt’oggi diciotto stati arabi (su
ventitré) non riconoscono il diritto di Israele a vivere. Ma questo
mancato riconoscimento non è solo legato – come si fa finta di credere,
anche da parte vaticana – a comprensibili ragioni di “terra”, è
soprattutto incardinato su terribili motivazioni di fede. A un “a
priori” musulmano e fanatico.
Ed è
drammatico che questo mancato riconoscimento arabo di Israele, con queste
terribili sue motivazioni di fede, occupi – e sicuramente preoccupi –
solo la diplomazia vaticana, ma che poi non sia mai oggetto di pubbliche,
equilibrate riflessioni papali. E’ drammatico che questa omissione di un
pericolo di vita per Israele, si concretizzi poi nelle parole di Navarro
Valls che oggi cita solo la violazione del diritto internazionale da parte
di Israele nelle ritorsioni contro gli attentati e ometta di notare, di
condannare il fatto che gli attentatori palestinesi mirano, in nome del
loro Dio, a distruggere lo Stato di Israele. Lo Stato degli ebrei.